COOPERATIVE
SOLDI E CORRUZIONE
UNA MANGIATOIA IN CUI TUTTI SI DANNO DA FARE
LAICI E CATTOLICI, BIANCHI E ROSSI SPESSO
CON UN UNICO INTENTO INCONFESSABILE
(a cura di Claudio Prandini)
INTRODUZIONE
Negli anni Settanta li chiamavano «boiardi rossi», quasi a rivendicare il peso del Pci negli appalti pubblici ai tempi d'oro dell'Italstat di Ettore Bernabei. Poi, con la svolta di Achille Occhetto nel 1989, sono arrivati i primi «cesaristi», i padri-padroni delle coop, che lentamente cominciavano a sfilarsi dal controllo e dall'inquadramento politico di Botteghe Oscure; quindi la lunga stagione di Tangentopoli che ha restituito al Paese un gruppetto di aziende sottocapitalizzate e senza più numi tutelari. Che cosa è rimasto oggi di questo ritratto ingiallito delle coop rosse? Assai poco. Il fil rouge della solidarietà nazionale, i principi mutualistici e il radicamento al territorio hanno resistito negli statuti delle imprese cooperative, così come i nomi dei signori dell'economia sociale. Tutto il resto è una storia ancora da scrivere. A cominciare dai protagonisti e dalle partite che si stanno giocando sul tavolo dei futuri assetti economici in Italia.
Da Sesto San Giovanni alla rossa Emilia. Un viaggio non particolarmente lungo, che in queste ore i magistrati, che indagano sul presunto giro di tangenti, che vedrebbe tra i protagonisti il vice presidente del consiglio della Regione Lombardia, Filippo Penati, del Partito Democratico, stanno intraprendendo.
Infatti la Procura di Monza ha fiutato una pista che porterebbe direttamente
alle coop rosse.
Circa due milioni e quattrocento mila euro sarebbero stati versati da Giuseppe
Pasini, indagato, imprenditore edile ed esponente del centrodestra, a due
cooperative. Per gli inquirenti si tratterebbero della Fingest di Modena e la
Aesse di Ravenna, due piccole società di consulenza.
In tutto sarebbe stato fatto attraverso maxi rate. È il 2002: quattro versamenti
da 619 mila euro ciascuno, giustificati con delle fatture riguardanti lavori mai
compiuti.
I due pm, Walter Mapelli e Franca Macchia, stanno ricostruendo il tutto.
Partendo proprio dall'area Falk.
Pasini,interrogato dai magistrati, avrebbe raccontato che dopo aver comprata l'area, pagando 380 miliardi di vecchie lire, arrivò l'accordo con Penati, che amministrava la "Stalingrado italiana". Non dovevano esserci intralci burocratici sui progetti riguardanti le nuove costruzioni da realizzare nell'ex Falk.
Ecco perché sarebbe stata versata una tangente da venti miliardi. Inoltre
l'accordo prevedeva l'intervento della Ccc di Bologna per dei lavori nell'area.
Infine quei due milioni e quattrocento mila euro, partiti dalla Lombardia e
arrivati in Emilia e di cui gli inquirenti vogliono scoprirne la destinazione
finale e capire che cosa si nasconde realmente dietro tutta questa vicenda.
Ma in questo dossier vedremo anche che lo "sterco del diavolo" fa gola anche ai cattolici della Compagnia delle Opere....
Vedere anche l'ultimo scandalo dal titolo: Caccia al tesoro di Cl
Ferruccio Pinotti - La Lobby di Dio
Viaggio al Centro. Il lato oscuro delle Coop rosse. - L'Ultima parola
COMPAGNIA DELLE OPERE
DIETRO GLI INTENTI RELIGIOSI, GLI AFFARI DEL DIAVOLO
Centro propulsore del potere ciellino rimane il perfetto connubio con la Compagnia delle Opere, braccio economico di Cl. Ed è proprio questa associazione imprenditoriale che dirotta soldi e favori, gestendo, in questo modo, grosse fette dell’economia nazionale e non solo. Ci si ammanta di intenti religiosi, ma in realtà i numeri parlano da soli: 70 miliardi di euro, 35 mila aziende e professionisti, il 69% delle quali opera nel Nord-ovest italiano.
L’associazione ha la finalità di “promuovere lo spirito di mutua collaborazione e assistenza per una migliore utilizzazione di risorse ed energie, per assistere l’inserimento di giovani e disoccupati nel mondo del lavoro, in continuità con la presenza sociale dei cattolici e alla luce degli insegnamenti del Magistero della Chiesa” (dall’art. 4 dello Statuto). Ci si ammanta di intenti religiosi, ma in realtà i numeri parlano da soli: 70 miliardi di euro, 35 mila aziende e professionisti, il 69% delle quali opera nel Nord-ovest italiano. L’adesione alla Cdo, inoltre, cresce con ritmi esponenziali: 10% in più ogni anno.
Ma è presto spiegato il motivo: chiunque voglia fare affari (soprattutto in quelle aree nelle quali l’organizzazione attecchisce maggiormente) deve entrare nei meccanismi ciellini e, dunque, nella Compagnia delle Opere. Ma, come detto, il controllo economico non avviene solo in Italia: la Cdo ha già uffici in 12 Paesi stranieri e ci si prepara allo sbarco negli Stati Uniti. Non è un caso, d’altronde, che, dopo Vittadini e Raffaello Vignali, l’associazione sia oggi presieduta dal tedesco Bernhard Scholz.
L’organizzazione della Cdo è semplice: ogni settore ha una sua associazione, ognuna di queste piccole associazioni fa capo alla setta che le guida e le istruisce. Principali partner sono Bombardier, Finmeccanica, Sai e Intesa Sanpaolo. Insomma, una struttura gerarchica. Massonica dunque.
Ma chi sono gli uomini legati alla Cdo? Un ottimo (e attendibile) termometro è l’analisi dei presenti all’ultimo meeting di Rimini: da Cesare Geronzi (Generali) a Corrado Passera (Intesa), a Ettore Gotti Tedeschi (Ior, la banca del Vaticano), mentre mancava all’appello Alessandro Profumo (Unicredit) che, tuttavia, era presente l’anno precedente.
Altra questione. Come funziona la Cdo? Ci sono diversi “gradini” tra gli affiliati. Il primo è quello di chi utilizza l'associazione per avere facilitazioni burocratiche in attività che, per le pmi, sarebbero troppo onerose da affrontare. Non è un caso, infatti, che la Cdo svolge anche un ruolo molto spesso di “medium” tra due o più aziende per concludere affari e trattative. E, in questo, si appoggia a partner pubblici. Per esempio, Coexport, il consorzio della Cdo per l'esportazione, è punto operativo della Regione Lombardia in Argentina, Cile, Cuba, Germania, Kazakhistan, Romania e Stati Uniti. Il secondo gradino è invece quello di chi trova nella Cdo occasioni di business, incontrando altre aziende che poi diventano clienti, fornitori, o, addirittura, soci.
Ma la Cdo presenta anche un aspetto che rimane, per molti aspetti, ancora oscuro. Cerchiamo di capire meglio. Giorgio Vittadini, quando lascia la guida della Compagnia delle opere, si dedica anima e corpo ad un nuovo progetto: la fondazione per la Sussidiarietà, legata comunque alla Compagnia delle Opere (molti compaiono nello “staff” sia dell’una che dell’altra: lo stesso Schulz è collaboratore nell’Area Formazione della fondazione di Vittadini). Si legge nel sito della fondazione: “La Fondazione è mossa dall’interesse in chiunque desideri cercare la verità e affermare la libertà di ogni singolo uomo. Ha costituito in questo modo un’ampia trama di collaborazioni multidisciplinari a livello nazionale e internazionale”. Ma quanto vale questo “desiderio” che nutre la “Sussidiarietà”?
A livello nazionale risulta molto complesso avere una stima precisa perché appalti, delibere, finanziamenti sono divisi tra migliaia di sigle, spesso riferibili alle stesse persone. Sappiamo, però, che in Lombardia otto dei 16 miliardi di euro di spesa sanitaria sono passati ai privati. E pare che di questi otto, una grossa fetta è finita nelle mani di ciellini legati alla “Sussidiarietà” lombarda.
Ma Cdo e Cl non sono attivissimi solo in Lombardia: si stanno espandendo con forza anche nel Veneto (dove possono contare sull’appoggio della Lega), in Emilia Romagna (dove c'è un asse con le cooperative rosse), ma anche in Piemonte, in Lazio e sempre di più al Sud.
Ed è proprio qui che gli affari economico-politici pare convergano con quelli delle criminalità organizzate. Molti, infatti, sostengono che prospettare un’intesa tra membri del Cdo e mafie non sia affatto una fantasia.
Alcuni mesi fa, in piena estate, alcuni imprenditori, potendo contare su un appoggio politico, hanno partecipato ad un convegno sulla “Sussidiarietà”. Per quanto detto sinora si penserebbe: nulla di strano. Ma se l'imprenditore è Ivano Perego della ”Perego General Contractor”, recentemente finita sotto inchiesta per i suoi rapporti con la ‘ndrina capeggiata da Salvatore Strangio, e il politico è Antonio Oliverio, ricoprente, secondo gli inquirenti, un ruolo centrale nei rapporti tra imprenditori e cosche della ‘ndrangheta, allora la questione si fa molto più interessante.
Ma d’altronde Cl e Cdo sono finite diverse volte nel mirino degli inquirenti: la vicenda delle bonifiche di Santa Giulia, scandalo scoppiato all’inizio dell’anno e che ha già interessato diversi politici ciellini vicinissimi al governatore Roberto Formigoni (inchiesta nella quale si accertano anche infiltrazioni di diverse ‘ndrine). Tra questi ricordiamo la moglie di Giancarlo Abelli. E chi è costui? Coordinatore regionale del PDL, deputato ciellino di Forza Italia, già assessore alla Sanità in Lombardia, anche lui è stato toccato da inchieste su possibili rapporti con le criminalità organizzate (i direttori delle Asl di Monza e di Pavia, entrambi coinvolti nella maxi inchiesta dei 300 arresti per infiltrazioni di ‘ndrangheta, spedivano mail con su scritto “votate Abelli“). E ancora Giuseppe Grossi, socio della Signora Abelli, imprenditore legato – chiaramente - alla Cdo, finito sotto inchiesta per presunte dazioni di denaro.
Ma di Cdo si parlò anche in “Why Not”: nell’inchiesta che portò alla ribalta Luigi De Magistris, iscritto nel registro degli indagati anche Giorgo Vittadini, di cui abbiamo già ampiamente parlato. Ma, ancora, di ciellini, si parla nell’inchiesta “Oil for food”. Originariamente questo era il nome di un programma inaugurato dall’Onu nel 1996 e avrebbe dovuto permettere all’Iraq di vendere petrolio in cambio di forniture umanitarie, cibo e medicinali. Ma in realtà cosa accadde? Le trattative furono occasione di favoritismi nei confronti di politici e società internazionali ritenute “amiche” del regime.
E ciò si verificò anche in Lombardia, dove al Presidente della Lombardia, o meglio, alle società da lui indicate, sarebbero stati assegnati 24,5 milioni di barili di greggio a prezzi decisamente “competitivi” (come riportato nel documento “Report on program manipulation” in cui si dedica un intero capitolo al caso-Formigoni). Tra i “beneficiari” del trattamento privilegiato persone vicine a Formigoni e – neanche a dirlo – a Comunione e Liberazione: una di quelle aziende, la Cogep, faceva capo ai fratelli Catanese, amici di vecchia data del Presidente della Lombardia e, soprattutto, tra i padri fondatori della Compagnia delle Opere. Coinvolto, ancora, Marco Mazzarino De Petro, uomo-chiave della vicenda secondo il rapporto dell’Onu (il suo è uno dei nomi più ricorrenti), e soprattutto, insieme all’amico Formigoni, tra i primi iscritti a Comunione e Liberazione.
Insomma, una fitta rete tra religione, strutture massoniche, interessi economici, rapporti con l’alta finanza senza disprezzare quelli con le criminalità organizzate. Il tutto per arricchirsi e arricchire l’organizzazione, puntando sempre più spregiudicatamente al controllo dei punti nevralgici del potere.
Vedere anche l'ultimo scandalo dal titolo: Caccia al tesoro di Cl
"Resistenza!" "oggi la vera Massoneria è la Compagnia
delle Opere" - Borsellino a Fano il 17 marzo
Corsi e ricorsi delle coop rosse
Intanto il coinvolgimento nell’inchiesta del mondo
cooperativo fa tornare vecchi fantasmi.
Sono passati quasi quattro anni dalla
nascita del Partito democratico, ma il Pd potrebbe dover fare i conti con una
delle eredità della fusione fra Margherita e Ds: il collateralismo fra la
vecchia Quercia e il mondo delle cooperative rosse.
Una cinghia di trasmissione, quella fra Legacoop e Botteghe oscure, che ha
funzionato con grande efficienza fino al 2007, scaraventando però più di una
volta i vertici diessini sotto i riflettori per diverse inchieste giudiziarie e
dando più di un argomento a chi ha sempre attaccato la sinistra evidenziando
come la berlingueriana “questione morale” sia più che mai trasversale.
Nell’inchiesta della procura di Monza che ha portato alle doppie dimissioni del
dem Filippo Penati, emerge una pista che porta direttamente al coinvolgimento
del Ccc di Bologna, il consorzio di cooperative di costruzione nell’orbita
Legacoop.
L’imprenditore edile Giuseppe Pasini accusa l’ex sindaco di Sesto San Giovanni
di alcuni fatti precisi: nei primi anni Duemila, per ottenere dal comune una
deroga al piano regolatore che gli consentisse di costruire più del previsto
nell’area ex Falck, sarebbe stato costretto a dare degli appalti per alcuni
lavori proprio alla Ccc bolognese.
Inoltre, nello stesso affare, sarebbe stato il vicepresidente del consorzio
cooperativo, Omer Degli Esposti, a indicare due società di consulenza per
commissioni da due milioni e 400 mila euro, soldi che secondo i pm brianzoli non
sarebbero serviti a pagare lavori effettivi ma a finanziare illecitamente i
vertici nazionali dei Ds.
Il sospetto dei giudici Mapelli e Macchia deve ovviamente essere ancora
dimostrato, e nel frattempo Degli Esposti smentisce ogni passaggio della
ricostruzione di Pasini, dicendo di non aver mai imposto a nessuno alcuna
consulenza e soprattutto di escludere che quei soldi fossero poi finiti ai Ds.
In ogni caso, a prescindere da come finirà la vicenda giudiziaria, dal mondo
cooperativo arriva un’altra grana per il centrosinistra.
E non è un caso che Bersani arriva a minacciare azioni legali contro chi si
permette di infangare la trasparenza e la correttezza degli amministratori
democratici. La Seconda repubblica ci presenta altre due occasioni in cui
l’eccessiva vicinanza fra cooperative e Pds-Ds ha nuociuto e non poco
all’immagine del partito e dei suoi leader. Il 2005 è l’anno dei furbetti del
quartierino e della doppia scalata bancaria Antonveneta-Bnl. A dicembre salta
fuori un’intercettazione telefonica destinata a rimanere impressa
nell’immaginario collettivo, quell’«Allora, abbiamo una banca?» con il quale
Piero Fassino (allora segretario Ds) si rivolge a Giovanni Consorte, presidente
Unipol e deus ex machina della scalata delle coop rosse alla Bnl.
Scalata che vuole garantire il salto di qualità nell’economia che conta alla
Legacoop, ma che per i magistrati viene portata avanti con metodi tutt’altro che
puliti e rispettosi delle regole di Borsa: i pm milanesi hanno chiesto quattro
anni e sette mesi per Consorte (già condannato per Antonveneta) e poco meno al
suo vice dell’epoca, Ivano Sacchetti, a conclusione della requisitoria nel
processo Unipol-Bnl.
Come poi dimenticare il coinvolgimento del mondo cooperativo rosso nella
stagione di Tangentopoli? Il pool di Mani pulite non è riuscito mai a dimostrare
che le tangenti finite nei conti di Primo Greganti, il famoso compagno G,
fossero a disposizione del Pds. Tuttavia nelle sentenze di condanna, ormai
definitive, si parla di un sistema in cui le coop amiche venivano favorite
nell’assegnazione di appalti pubblici.
Coop padane, il buco reggiano della Lega Nord
Lo scandalo delle cooperative
padane, il tentativo leghista della fine degli anni '90 di convertire il sistema
delle coop “di sinistra” a favore dell’ideale padano, ha prodotto alla fine dei
conti solo un buco da diverse centinaia di milioni di lire e una serie di
fallimenti a catena, oltre alla scia di delusioni e debiti lasciati in giro che
ha lambito anche l’Emilia, e nemmeno troppo marginalmente, avendo toccato in
prima persona la stessa militanza reggiana del partito del Nord. La vicenda,
raccontata ora dal giornalista Leonardo Facco - ex redattore del quotidiano
verde "La Padania" - nel suo ultimo libro “Umberto
Magno, la vera storia dell’imperatore della Padania” (edizioni Aliberti)
risale all'ultimo scorcio del secolo scorso e coinvolge direttamente i big del
Carroccio, a partire dal senatùr e gran capo della Lega Nord, Umberto
Bossi, fino all'attuale ministro per la Semplificazione normativa Roberto
Calderoli.
La strategia delle cooperative leghiste, tra le tante iniziative promosse dal
partito con l’obiettivo di finanziarsi, pubblicizzare e dare concretezza al
progetto indipendentista padano, ha visto fin da subito nomi illustri: se l'idea
viene dallo stesso vertice del movimento politico, infatti, all’atto costitutivo
- sottoscrittori di quote per centomila lire - figurano anche i nomi dei
parlamentari Davide Caparini e Paolo Grimoldi e di Ludovico Maria Gilberti
(amministratore del quotidiano "La Padania" e vicepresidente della prima coop di
Paderno Dugnano), Piergiorgio Martinelli (già sindaco di Chiuduno e
amministratore della Lega lombarda), Davide Boni (oggi presidente del Consiglio
regionale lombardo ed ex presidente della Provincia di Mantova), Andrea Angelo
Gibelli (parlamentare e vicegovernatore della Regione Lombardia). Non manca
naturalmente Roberto Calderoli, a quel tempo segretario della Lega lombarda, in
veste di legale rappresentante e presidente della neonata società cooperativa a
responsabilità limitata.
Corruzione e tangenti
Falce e carrello
II Parlamento, il governo, l'Unione
Europea, le Corti di giustizia. Non soltanto questi soggetti si sono occupati
della Lega delle Cooperative. Anche le Procure della Repubblica, soprattutto
negli anni '90. L'inchiesta "madre", per molti aspetti, fu quella condotta dal
pubblico ministero veneziano Carlo Nordio.
Il magistrato indagò i segretari nazionali del PDS, Achille Occhetto e
Massimo D'Alema, e li prosciolse.
Dagli atti emerge chiaramente la funzione delle Coop rosse, e delle
finanziarie controllanti-controllate, come braccio economico dell'ex Partito
Comunista. Il meccanismo fu messo in luce da Giuliano Peruzzi, consulente delle
Coop e braccio destro di Primo Greganti, responsabile amministrativo del PDS.
Sui rapporti economici tra Coop e PCI-PDS in quegli anni fu alzato un vero fuoco
di sbarramento, teso a negare l'esistenza dell'asse tra "partito" e aziende.
Nei mesi scorsi, invece, nel turbine dello scandalo Unipol, il giudizio
è mutato. Si è detto che «il collateralismo è finito», non che non è mai
esistito. Che i legami tra la parte politica e il suo braccio economico si sono
allentati rispetto al passato: dieci anni prima, invece, si negava tutto, anche
l'evidenza. Ora la linea è cambiata.
«Il rapporto era organico, con finanziamenti indiretti ma occulti», ha spiegato
il pm Nordio. «Furono raggiunte prove evidentissime del fatto che le Coop rosse
finanziassero il "partito", ma per il Codice la responsabilità penale è
personale.
E io non ho mai accettato il principio secondo cui chi sta al vertice "non può
non sapere".
Una cosa sono i finanziamenti al "partito", altra cosa la responsabilità penale
individuale rispetto al finanziamento clandestino e continuativo delle società
cooperative, dimostrato dall'inchiesta».
Peruzzi svelò come funzionavano l'economia nascosta del "partito" e gli intrecci
tra Finsoe, Finsoge e PCI-PDS.
Il magistrato Veneto arrivò a calcolare l'esistenza di un patrimonio
immobiliare della Quercia dell'ordine di mille miliardi di lire, ma a Botteghe
Oscure non spiegarono come si fosse potuta accumulare una fortuna del genere,
che riconduceva a decine di società immobiliari e a intestazioni fittizie:
centinaia di prestanome, fedeli militanti del "partito" che ne era il vero
proprietario.
Era stata la Procura della Repubblica di Milano nel 1993, durante una
perquisizione a Botteghe Oscure, a scoprire una stanza piena di fascicoli
relativi agli immobili posseduti dalla Quercia, ma la documentazione per un
errore non fu sequestrata subito. E il giorno dopo era sparita: un episodio sul
quale si aprì un'inchiesta.
«Avevamo fatto uno "screening" degli organigrammi di Coop e PCI-PDS verificando
come i vertici delle aziende fossero interscambiabili con quelli della Quercia»,
ha raccontato Nordio.
«Poi scoprimmo che le assunzioni fittizie fatte dalle Coop servivano a favorire
il trattamento economico-previdenziale dei dipendenti del "partito". Fatti
ampiamente confermati ai magistrati inquirenti di Milano, Napoli e Venezia da
chi vi aveva lavorato.
Il primo canale di finanziamento del PCI era quello che veniva
dall'Unione Sovietica, un Paese che teneva i suoi missili puntati su di noi.
Inoltre il "partito" incassava provvigioni sul commercio con i Paesi dell'Est».
E le Coop? «Esse avevano una riserva rigorosa di appalti pubblici frutto di
accordi politici spartitori a livello nazionale e regionale», ha ricostruito il
magistrato. «In questo senso non c'era alcuna differenza tra DC, PSI e PCI: si
erano divisi equamente tutto, con qualche briciola per gli alleati minori.
Democristiani e socialisti sponsorizzavano le imprese amiche, i comunisti le
Coop.
Ai primi due partiti giungevano contributi in denaro con i quali si pagavano i
funzionari e le altre spese; a Botteghe Oscure i funzionari erano pagati dalle
Coop, ma lavoravano per il "partito".
Risultato identico attraverso strumenti diversi. Anche dal punto di vista
penale: la mazzetta integra il reato di corruzione, il sistema del PCI no.
Un altro modo di finanziamento era quello della pubblicità inesistente: le Coop
pagavano cifre enormi per farsi pubblicità sui giornaletti del "partito". Spesso
le inserzioni, pagate, non venivano nemmeno pubblicate».
Anche la Procura di Napoli condusse lunghe indagini con i Reparti
Operativi Speciali dei Carabinieri. Un'inchiesta sterminata: migliaia di
documenti, testimonianze, bilanci, intercettazioni telefoniche; il solo
riassunto finale occupa 1.200 pagine.
Le carte parlano di bilanci falsi, fondi neri, licenze edilizie "facili",
collusioni con la camorra, finanziamenti illeciti, truffe allo Stato, tangenti,
società di comodo.
«La Lega delle Cooperative», si legge in un passo della relazione conclusiva dei
ROS, «beneficiando dell'apporto incondizionato dell'organismo politico,
accrescerebbe la propria forza economi coimprenditoriale garantendo ai partiti
di riferimento il mantenimento economico e riversando, mediante alcune società,
finanziamenti stornati, soprattutto illecitamente, dalle imprese del movimento
cooperativo».
E più avanti i ROS spiegano così il successo di Unipol: «La compagnia
comincia la sua crescita inarrestabile, forte del consenso di tutti i sindacati
italiani che senza esclusione partecipano al capitale sociale e garantita dalla
protezione politica del PCI che impone a tutte le sue amministrazioni locali di
sinistra di stipulare esclusivamente con Unipol qualsiasi polizza assicurativa
di loro competenza».
Donigaglia e il crac di Argenta
Lo scandalo giudiziario più clamoroso che ha investito Legacoop, dopo quello
Consorte-Unipol, ha come protagonista un ragioniere di Argenta (Ferrara),
Giovanni Donigaglia, finito stritolato negli ingranaggi del "partito" che aveva
fedelmente servito per tutta la vita.
Un uomo che si accontentava dello «stipendio di un capomastro» (1.500 euro al
mese), che per 43 anni ha guidato la Coopcostruttori, quarta impresa nazionale
dopo Impregilo, Astaldi e Condotte, che era arrivata a fatturare 680 milioni di
euro nel 2001 e a stipendiare 2.518 dipendenti impegnati in decine di cantieri
in mezza Italia: i giornali l'avevano battezzata «la perla dell'universo rosso».
Poi il crac. Il primo gruppo edilizio del pianeta Legacoop crollò sotto
l'insostenibile peso di 870 milioni di euro di debiti.
le Coop, anziché venirgli in aiuto, decisero di liquidarlo.
Donigaglia per decenni fu il principale collettore di finanziamenti verso il
PCI-PDS-DS. Negli anni di Mani Pulite fu arrestato cinque volte, passò 12 mesi
in carcere, subì 32 processi finiti con 32 assoluzioni.
Ma la sua creatura era finita: 900 lavoratori licenziati, altri 1.100 in cassa
integrazione, senza contare il disastro finanziario per migliaia di famiglie - a
cominciare dalla sua - che avevano investito tutti i loro risparmi nella Coop
costruttori e li hanno perduti.
Tra manifestazioni di piazza, assemblee di "partito", comitati spontanei si creò
un clima di forte tensione. A casa di Donigaglia fu recapitato un pacco-bomba.
Nel Ferrarese la cooperativa era vista al pari di una banca tale era la sua
solidità e l'investimento nel prestito sociale, peraltro ottimamente remunerato,
era considerato un punto d'onore.
Qualche dipendente confessò che quasi si faceva riguardo a ritirare lo stipendio
a fine mese. Chi aveva già raggiunto la soglia massima di deposito investiva
attraverso i parenti oppure sottoscriveva le "azioni a partecipazione
cooperativa" emesse più volte da Donigaglia per fronteggiare le crisi di
liquidità, spesso senza avvertire i risparmiatori che si trattava di capitale di
rischio.
Nell'aprile 2004 il giornalista Stefano Lorenzetto convinse il ragioniere
ferrarese a parlare per la prima volta. L'intervista uscì su Panorama.
Donigaglia raccontò che la Legacoop o direttamente il "partito" (il PCI ad
Argenta era arrivato al 78%) gli avevano ordinato di salvare per convenienza
elettorale, dal 1975 in poi, la CERCOM di Porto Garibaldi, la COPMA, la
Felisatti e la GEI di Ferrara, e la CMR (Cooperativa Muratori Riuniti) di Filo
d'Argenta, tutte destinate al fallimento. La Costruttori fu obbligata a rilevare
perfino la GIR Costruzioni di Rovigo, cassaforte dei dorotei vene-ti, per fare
un favore al ministro democristiano Antonio Bisaglia.
Questo patto consociativo, aggiunse Donigaglia,
spalancò a Coopcostruttori le porte dell'edilizia pubblica:
strade,
ferrovie,
ponti,
dighe,
viadotti,
parcheggi,
porti,
trafori,
scuole,
ospedali,
municipi,
carceri,
caserme,
musei,
centri sportivi,
inceneritori,
depuratori,
opere di difesa ambientale,
pozzi,
discariche,
centrali elettriche e del gas,
reti fognarie,
mattatoi.
la terza corsia dell'autostrada Serenissima, l'alta velocità ferroviaria
Roma-Napoli, l'aeroporto di Malpensa 2000, la ferrovia Firenze-Empoli, la
Salerno-Reggio Calabria, il porto di Gioia Tauro.
La Lega delle Cooperative, riferì ancora l'imprenditore, pretese da lui un obolo
cospicuo per l'acquisto del Molino Moretti di Argenta, che aveva tra i suoi
pro-prietari il marito dell'alierà sindaco diessino Silvia Barbieri, la quale
sarebbe poi entrata nello staff del segretario nazionale Piero Passino e
successivamente diventata senatrice e sottosegretario.
Per ordine di scuderia Donigaglia nel 1990 dovette persine acquistare la Spal,
la squadra di calcio di Ferrara: bisognava dare una mano al Comune, amministrato
dal PDS.
Su sollecitazione del "partito" distribuiva quattrini a tutti, compresi
organi di informazione e parrocchie. «Ero diventato il refugium peccato-rum»,
spiegò. «E il "partito" come ricambiava?», gli chiese Lorenzetto. «Vigeva il
consociativismo. La Lega-coop otteneva la sua bella quota di lavori in ciascuna
opera pubblica. Ma per costruire c'è bisogno che la pratica segua un iter
regolare, che gli espropri siano tempestivi, che le concessioni edilizie
arrivino. Serve la politica per questo. E l'amicizia».
«Quando ho lasciato», rievocò Donigaglia, che adesso amministra una ditta nel
Ragusano, «i debiti verso le banche ammontavano a 327 milioni di euro ma in
portafoglio c'erano ordini per 1.086,5 milioni».
Se la situazione non era così drammatica, perché la Costruttori fallì? Egidio
Checcoli, presidente della Legacoop regionale ed ex sindaco comunista di Argenta
(nonché ex dipendente della Coopcostruttori), ha sempre proclamato: «Noi, a
differenza delle società di capitali, non abbandoniamo i nostri soci in caso di
crac».
Eppure nel caso della Coopcostruttori la Lega delle Cooperative si chiamò fuori,
limitandosi a puntualizzare che la sua funzione di vigilanza era limitata «alla
verifica del rispetto dei requisiti di mutualità», che le banche valutavano la
possibilità di intervenire e che era stata avviata «un'azione di solidarietà in
due direzioni: verso i lavoratori e verso i soci risparmiatori».
«Io ho sempre aiutato il "partito", ma nel momento del bisogno, quando il peso
della crisi si abbattè tutto sulle mie spalle, il "partito" non ha aiutato me»,
è l'accusa di Donigaglia. «Io ho effettuato sottoscrizioni elettorali,
sponsorizzazioni, ho comprato pubblicità sul-l'Uni fa e affittato spazi a
festival e congressi. Tutto legale, tutte spese fatturate e messe a bilancio».
Nel 1997 la Legacoop inizia un'opera di ricostruzione e riorganizzazione
delle cooperative uscite ammaccate da Tangentopoli, e tra queste c'era anche
quella di Argenta. «Consorte studiò un piano di ristrutturazione finanziaria e
organizzativa che fu abbandonato dopo qualche mese», rincara
oggi la dose Donigaglia.
«Quando la situazione si aggravò, il pool di tre banche era pronto a
finanziare il progetto industriale, ma la Lega-coop disse che i soldi sarebbero
arrivati a patto che io lasciassi.
Obbediente, mi dimisi.
Però alla fine l'Unipol negò l'appoggio al piano di salvataggio. E fu il
tracollo. Consorte aveva soldi per tutti fuorché per la Costruttori. Noi non
fummo aiutati, e poi abbiamo visto che tipo di fideiussioni si scambiava con
Giampiero Fiora-ni della Banca Popolare di Lodi...
C'è da farsi venire il voltastomaco. Io non ho mai rubato, ho creato
posti di lavoro, ho aiutato il "partito". Invece il capo di Unipol trafficava in
proprio con l'appoggio della Lega delle Cooperative, che nel frattempo aveva
mollato me».
Come lucrare anche sul terremoto
L'ultimo scandalo giudiziario ha come teatro sempre il settore delle costruzioni
e una regione rossa, ma lo sfondo è diverso: non l'Emilia, bensì l'Umbria.
Il 30 maggio 2006 sono finiti in carcere il costruttore perugino
Leonardo Giombini (legato alle Coop) e un architetto di Foligno, Raffaele Di
Palma.
Giombini ha costruito gli Ipercoop di Collestrada e di Terni, super-mercati a
Spoleto e Chianciano, immobili dell'Unipol, edifici pubblici. Il suo fatturato è
"esploso" nel 1997, in coincidenza con gli appalti del dopo terremoto.
Secondo le accuse, l'impresario avrebbe messo in piedi un sistema di fondi neri
grazie alle sue attività con la Coop Centro Italia, il cui presidente Giorgio
Raggi è stato sindaco diessino di Foligno ed è vicepresidente della Banca
Popolare di Spoleto in rappresentanza di Montepaschi.
L'immobiliare ICC della Coop affidava alla società SG Capital Sri di Giombini
gli studi di fattibilità per la realizzazione di centri commerciali,
super-mercati, parcheggi, pagando prezzi superiori a quelli di mercato; poi
aziende compiacenti facevano figurare con fatture false spese inesistenti a
carico della SG: ed ecco la provvista in nero. Che secondo gli inquirenti
serviva anche a pagare tangenti a politici.
Il terremoto in Umbria non fu tra i più disastrasi registrati in Italia.
A questo punto v'è da chiedersi che cosa sarebbe potuto accadere in passato se
le Coop avessero avuto mano libera nel Belice, in Friuli, in Irpinia... È
proprio il caso di dirlo: la provvidenza c'è.
un bel quadretto, mai smentito.
Filippo Penati, ex vice presidente del
Consiglio regionale lombardo.
Soldi al partito e coop rosse
L’inchiesta Penati punta su Roma
Il ruolo del Consorzio costruzioni nell'affare Falck. Numerosi imprenditori hanno ammesso di avere versato contributi per il Pd all'ex vice presidente del Consiglio regionale lombardo.
Un nome blasonato nel mondo delle coop
rosse: Ccc, Consorzio cooperative di costruzioni. Il colosso di Bologna è
l’unico operatore sempre presente nell’affare immobiliare delle ex aree Falck
di Sesto San Giovanni, che in dieci anni è passato attraverso tre diverse
cordate. È un vecchio schema noto fin dall’inchiesta Mani pulite: la presenza
di una coop rossa in un grande affare garantisce la quota di interessi del Pci
e dei suoi derivati, oggi il Pd. Fu per primo l’imprenditore Giuseppe
Pasini, oggi grande accusatore di Filippo Penati, a
subire l’imposizione della Ccc come futura protagonista dell’edificazione
delle aree Falck quando le acquistò nel 2000. Quando Pasini vendette
all’immobiliarista Luigi Zunino, nel 2005, il ruolo della Ccc non fu messo in
discussione. E quando l’anno scorso a Zunino è subentrato Davide Bizzi,
nella eterogenea squadra dei suoi partner (con Paolo Dini di
Paul&Shark e il fondo coreano Honua) si è ripresentata l’immancabile Ccc,
stavolta addirittura come socio.
L’inchiesta del pm di Monza Walter Mapelli sull’ex sindaco di
Sesto, nonché ex braccio destro del segretario del Pd Pierluigi
Bersani, punta a Roma. C’è una pista fatta di indizi che induce i
magistrati a sospettare Penati di essere al centro di un sistema
intrecciato con le esigenze di finanziamento del partito. E infatti tra i
reati per i quali è indagato, oltre a concussione e corruzione, c’è anche
l’illecito finanziamento ai partiti. L’inchiesta, che ha subito un’improvvisa
accelerazione due giorni fa con una raffica di perquisizioni tra cui quelle
negli uffici di Penati, sembra destinata a esplodere, come dimostrano i toni
quantomeno prudenti, per non dire timorosi, con cui gli esponenti del Pd
lombardo hanno dato la solidarietà di rito all’esponente indagato.
QUESTA MATTINA Penati, accompagnato dal suo difensore Nerio
Diodà, si presenterà nell’ufficio di Mapelli per chiarire e spiegare. Sarà
un confronto difficile per l’ex presidente della Provincia di Milano. Dallo
scorso mese di gennaio, quando l’inchiesta avviata nel luglio del 2010 dalla
pm di Milano Laura Pedio è passata per competenza
territoriale agli uffici giudiziari di Monza, Mapelli ha interrogato decine di
imprenditori. Numerosi tra essi hanno ammesso di aver versato contributi al
Partito democratico, non registrati in bilancio, su sollecitazione di Penati o
di uomini a lui vicini.
Il filo che gli inquirenti stanno seguendo è quello che lega i numerosi reati
ipotizzati e la carriera politica di Penati. Si punta dunque a ricostruire i
meccanismi di un vero e proprio sistema di potere che partendo da Sesto San
Giovanni (Penati è stato sindaco dal 1994 al 2001) ha proiettato l’ex
professore di scuola media verso il ruolo di braccio destro di Bersani.
La caratteristica dell’inchiesta di Monza è proprio la molteplicità degli
spunti investigativi. Proviamo a elencarli. C’è il costruttore Pasini che
accusa Penati di concussione per aver preteso nel 2001 prima il pagamento di
4,5 miliardi di lire (in due tranche da 2 e 2,5) in cambio di un occhio di
riguardo nell’operazione di sviluppo edilizio delle aree ex Falck; e poi di
ulteriori 1,2 miliardi di lire, con la stessa finalità, per le aree ex Ercole
Marelli; i magistrati considerano queste “dazioni” sufficientemente provate.
Ci sono poi episodi di corruzione riguardanti altri affari e altri
imprenditori. Un troncone dell’indagine attiene all’affidamento dei trasporti
pubblici locali, e vede coinvolto il titolare della Caronte, Piero Di
Caterina, indagato non solo come presunto corruttore di Penati, ma
anche come collettore di tangenti destinate al leader del Pd lombardo. Di
Caterina è un personaggio chiave dell’inchiesta. Perquisendo gli uffici della
Cascina Rubina, società veicolo per l’operazione Falck ceduta da Pasini a
Luigi Zunino, gli inquirenti hanno trovato alcune fatture a fronte di
prestazioni inesistenti emesse proprio dal titolare della Caronte. Ci sono due
possibili spiegazioni: o Di Caterina fungeva da “cartiera” per consentire a
Zunino la costituzione di fondi neri destinati anche al pagamento di tangenti;
oppure, come testimoniato nel caso dei 2 miliardi consegnatigli da Pasini in
Svizzera, Di Caterina incassava direttamente il denaro destinato al
finanziamento di Penati, per il quale fungeva, a quanto ipotizzano gli
inquirenti, anche da collettore. Quel che è certo è che proprio Di Caterina è
stato protagonista di una rottura piuttosto velenosa con Penati dopo essere
stato per anni in squadra con lui.
E INFINE c’è la storia mai chiarita dell’autostrada
Milano-Genova. Penati, come presidente della Provincia di Milano, acquistò
nella primavera 2005 dal costruttore Marcellino Gavio, un
pacchetto di azioni che gli dettero la maggioranza assoluta del capitale.
L’allora sindaco di Milano, Gabriele Albertini, che con il
suo pacchetto di azioni garantiva comunque il controllo pubblico dell’arteria,
accusò Penati di aver fatto solo un regalo a Gavio, pagando 8,93 euro l’una
azioni che diciotto mesi prima l’imprenditore piemontese aveva pagato 2,9
euro. Albertini, per dare un senso a un’operazione altrimenti inspiegabile,
ipotizzò che costituisse la contropartita, voluta da una parte del Pd, per
convincere Gavio a partecipare con la Unipol alla scalata della Bnl. Albertini
consegnò il tutto a un esposto alla magistratura.
APPROFONDIMENTO
UNA SGUARDO SULLE COOPERATIVE E SUL CASO PENATI
Le cooperative alla sfida del mercato globale