PEDAGOGIA

IL MARASMA CULTURALE DI OGGI

(a cura di Claudio Prandini)

 

 

 

 

Il pedagogo sessuale

Secondo lo psicologo di RAI3: il progresso è che gli adolescenti «non soffrano» la minima «repressione sessuale». Tanto da generare mostri, esseri verminosi, senza carattere, che vivono di doppiezza, anestetizzate dall’assuefazione al senza-scopo. Il verbo dell'infelicità.

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Da La Stampa del 16 marzo: «Arriva una lettera firmata. Racconta di una mamma che, facendo pulizia nella stanza della figlia dodicenne, trova una busta con un migliaio di euro in tagli da 5. Pensa a un furto e ad altre cose orribili, tranne allunica che, messa alle strette, di lì a poco la ragazzina le confesserà: i soldi sono il ricavato di prestazioni sessuali eseguite a scuola. La madre è sconvolta dalla scoperta e dalla reazione della figlia: di normalità».

A Radio3 Scienza (Scienza, si noti) uno specialista di psicologia di cui non colgo il nome – chiamato a commentare il fatto da una conduttrice darwinista, massonica e progressista – dice: «Anzitutto, la libertà sessuale è stato un grande progresso». Fatti come quello della dodicenne di cui sopra sono piccoli danni collaterali, il cui prezzo vale la pena di pagare per il «progresso». Quel che poi intenda come progresso, il docente ed educatore lo dice poco dopo con una domanda retorica: «Perchè gli adolescenti dovevano soffrire» nella repressione sessuale di prima?

Non si sa da dove cominciare a rispondere. Forse, tagliando corto, esibendo l’ultimo caso di cronaca nera: la cara mammina di 26 anni che, strafatta di coca col suo convivente di 29, ha portato al pronto soccorso di Genova il suo figlio di otto mesi già ucciso per sfondamento del cranio: caduta accidentale, s’è giustificata la mammina. Ma il bambino aveva, oltre il cranio spaccato, segni di ustioni (forse di sigaretta) all’inguine, resti di uno straccio dentro la bocca, lividi e lesioni a una spalla. Un quadro incompatibile con una caduta, secondo i medici.

Dai giornali: «Al  capo della sezione omicidi della Squadra Mobile di Genova, Caterina e il compagno avrebbero dichiarato di avere consumato ingenti quantitativi di cocaina la sera prima del decesso del piccolo, di essersi addormentati e di aver trovato il bambino ferito al loro risveglio».

Interessante eccezione fisiologica, che la Scienza è invitata a studiare: dopo il consumo di «ingenti» quantità di cocaina, c’è chi, anzichè restare freneticamente sveglio, cade addormentato. Così profondamente da non accorgersi che il bambino di otto mesi è caduto. «La coppia non ha  confessato e si è anzi professata innocente». L’innocenza del sonno profondo del cocainomane.

«Mi sono svegliata e mio figlio giaceva lì immobile. Non so che cosa sia successo, io non ho fatto nulla» avrebbe detto quasi subito la donna (la prima scusa: il bambino ha avuto un attacco di meningite). Tra le righe, una accusa implicita nei confronti del compagno. Il silenzio impenetrabile di lui, incrinato solo dall’ammissione, inevitabile di fronte ai dati di fatto raccolti dagli investigatori, dell’uso di cocaina, si sarebbe poi rotto a sera inoltrata: «Mi sono svegliato e ho visto Caterina che sbatteva il figlio a terra. Mi ha detto che era tutto a posto, mi sono fidato».

Adesso qualcuno mi scriverà: che c’entra? Che relazione c’è tra i due fatti, la dodicenne che si prostituisce per 5 euro nei cessi della scuola, e la  coppietta che massacra il figlio di otto mesi?

Lo so e me l’aspetto, perchè persino fra i miei lettori c’è sempre qualche idiota che si ritiene in diritto di interloquire, pur non essendo in grado di comprendere una relazione causa-effetto che non sfuggirebbe a un orango.

L’infanticidio di Genova è leffetto della educazione al «non si deve soffrire», della inutilità dell’allenamento alla sofferenza e al sacrificio, predicato dallo psicologo di RAI3. Allevare un figlio, per una venticinquenne che vuole «vivere la propria vita» (il compagno della notte di coca non è il padre del bambino), è sicuramente una «sofferenza». Richiede «sacrifici» della propria libertà, dei propri godimenti: sacrifici durissimi oggettivamente, e insopportabili per chi non è allenato, non è stato preparato in tempo a «soffrire» un po’ in vista di un compito, a contenere l’esaudimento immediato dei propri desideri, a capire che occorre imparare a resistere agli impulsi primarii.

Sì, è la pedagogia del «non hai bisogno di soffrire» che porta a casi come quello di Genova, come porta agli infiniti casi di omicidio della fidanzata, dell’ex moglie e dell’ex compagnia, ai casi in aumento di persecuzione sessuale (che è di moda chiamare «stalking») che allarma le femministe.

Quando non si è stati allenati a qualche sacrificio, a rinunciare a qualcosa oggi in vista del domani; quando non si è stati avvisati da piccoli che la vita comporta una inevitabile parte oggettiva di sacrifici, sofferenze, mancanze e penurie, e che gli altri non sono al servizio dei tuoi desideri da piccolo dittatore infantile, è così che si agisce, da adulti-infanti: devi stare con me se no ti ammazzo, ogni sconfitta esistenziale (inevitabile) viene vissuta come scacco insopportabile e offesa da lavare subito – nel sangue, se è il caso.

Il sesso precoce è una anti-educazione: forma esseri verminosi, senza carattere, incapaci di responsabilità e di domani; amebe che vivono di doppiezza, che tacciono e si nascondono; esseri di indefinibile viltà, eppure capaci di violenza, o di farsi infinitamente violentare. Basta vedere la reazione della dodicenne che fa lavoretti ai compagnuzzi per 5 euro e della coppietta infanticida: in entrambi i casi, una reazione «di normalità». Menti narcotizzate dall’abitudine al senza-impegno, anestetizzate dall’assuefazione al senza-scopo.

Fin dalla notte dei tempi, dalle tribù di pellerossa alle scuole classiche in Grecia e Roma,  l’educazione dei giovani è consistita in prove di superamento della sofferenza; riti iniziatizi di sopportazione della fame, del freddo, della paura, oppure letture di uomini illustri, capaci di accendere gli animi alla nobiltà dell’abnegazione di sè: in questi modi la creatura puramente biologica che è il bambino diventava un essere umano: ossia un essere «che lo voglia o no, obbligato per costituzione a cercare un’istanza superiore». Perchè «vivere significa avere a che fare qualcosa di preciso – equivale a compiere un incarico», e una vita libera da ogni impegno è peggio della morte: è desolazione, carenza, vita vuota.

No, adesso il pedagogo psicologo di RAI3 decreta che tutta la pedagogia millenaria dell’umanità non vige più; che il progresso è che gli adolescenti «non soffrano» la minima «repressione sessuale».

Nemmeno l’evidenza scuote questo ideologo del nulla: la dodicenne che fa dei lavoretti a 5 euro è forse «felice»? E’ il ritratto stesso dell’infelicità, del vuoto e del disprezzo di sè. E’ «libera»? Prostituirsi a 12 anni ai maschietti della banda è esser cadute in una schiavitù totale; schiava delle voglie degli altri, di chiunque paghi 5 euro.

E la mammina ammazzatrice? Voleva vivere la sua vita: il figlio l’aveva avuto da un uomo sposato, e lei lo porta nella camera del suo amante, pure sposato: nessun progetto di futuro. Non voleva sottomettere la sua esistenza ad alcun compito; solo progetto, il divertirsi ora, subito.

E’ l’illustrazione tragicamente perfetta del detto di Gesù: «Chi fa il peccato è schiavo del peccato».

Adesso la mammina infanticida dovrà perdere la sua libertà, in galera. Dovrà sacrificarsi; dovrà  fare a meno di tutte le sue libertà, diventare schiava. Perchè la vita «è» inevitabilmente sofferenza, ed è meglio essere preparati a darle un senso. Il senso della sofferenza: «me lo sono meritato», unica via all’espiazione terpautica, temo però che le sarà precluso. Come alla dodicenne che trova quel che fa «normale».

Ma le più colpevoli non sono queste due sciagurate. Il colpevole è il pedagogo sessuale che non vuol far soffrire l’astensione dal sesso dei bambini; colpevole è la conduttrice di RAI3 che irride al problema fin dal titolo che ha dato alla trasmissione: «Il sesso degli angeli». Voleva dirci: suvvia genitori, i vostri «angeli» hanno un sesso. rallegratevi.

Ripugnante che questi individui abbiano una cattedra così potente, da cui proclamare il loro verbo di infelicità.
 

 

 

 

Qualcuno che lo dica

Fonte web

Sul «Messaggero», Gianni Boncompagni commenta con lode il fatto che le bambine di 11-13 anni dell’Oxfordshire potranno chiedere a scuola la «pillola del giorno dopo», anche per SMS, anche per numero verde «durante il week-end quando la scuola è chiusa»; e passa a deridere una immaginaria «Associazione Bacchettoni Italiani»  che condannerebbe l’iniziativa «coraggiosa e volendo spregiudicata» (volendo) degli inglesi.

Nello stesso giornale (ed io credevo che il Corriere fosse orrendo...) si dà notizia di «baby-spacciatori» arruolati da adulti a Grottaferrata per spacciare dentro le scuole, e di come gli scolari in questione «mentono con gli occhi che se ne scappano dai tuoi» mentre negano, «sì lo fanno tutti per cazzeggiare, tipo rilassarsi», ma non a scuola; anche se «cioè, sono canne, mica droga».

Si danno notizia di vari stupri di minorenni da parte di papà e fratelli, romeni, amici e conoscenti; di altri stupri denunciati falsamente da minorenni per «nascondere le loro marachelle» sessuali; si dà conto dei seguiti giudiziari dello «stupro della Caffarella»; la quattordicenne violentata dai romeni, apprendo, aveva regolari rapporti sessuali col fidanzatino coetaneo, col consenso dei genitori.

Siamo invitati infine a sdegnarci sul fatto che «6 milioni e 743 mila donne sono vittime di violenza nel corso della vita».

Noi però ci rifiutiamo di indignarci. Non vogliamo essere annoverati fra l’Associazione Bacchettoni Italiani; il ridanciano Boncompagni ce lo vieta preventivamente. E così ha campo libero lui e quelli come lui: il personaggio, noto per una sua predilezione privata per le ragazzine impuberi, concepisce e macina spettacoli televisivi. L’educatore, al comando del più potente mezzo educativo, è lui.

Bene. Magari un barlume d’intelligenza dovrebbe notare che da quella educazione discendono le conseguenze di cui il Messaggero è pieno? Tutti quegli stupri di ragazzine, di menzogne di ragazzine che denunciano stupri? Magari anche i cocktail di psicofarmaci ed alcol usati da dodicenni, su cui lo stesso giornale «lancia l’allarme»? Magari, il problema del «bullismo», dello «stalking» che spesso si conclude con l’assassinio della donna, vengono dall’ideologia che Boncompagni promuove con ridanciana irresponsabilità, tra l’approvazione generale? Magari anche quegli sguardi fuggenti di ragazzini già delinquenti senza averne coscienza, verranno dal precoce esercizio della sessualità, dal risveglio artificiale della sensualità, che devasta i caratteri, li fa così viscidi e mollicci, arroganti e vili, incapaci di sincerità e franchezza? Sarà almeno permesso notare che la deliquescenza della società, così favorita e promossa, è – oltre che ripugnante – pericolosa e suicida per la società stessa? Che stiamo costruendo anime perse non solo per l’aldilà, ma per l’aldiquà di una vita decente, virilmente produttiva, franca e legale?

Forse dovrebbe preoccuparci un pochino un fatto: che nell’intera società italiota non ci sia più alcuna istanza che si opponga all’ideologia-Boncompagni. Anzi, non dico che si opponga (non vogliamo essere «repressivi»): ma che almeno dica la cosa opposta. Che ricordi ai bambini precocemente risvegliati alla sensualità che fare certe cose è «male». Non male morale (per carità), ma male per il carattere, per lo sviluppo della volontà che servirà loro da grandi ad affrontare le durezze e le sconfitte della vita.

Sopra, incontrastato, dilaga il liquame televisivo-spettacolo, della pubblicità, della pornografia facilmente raggiungibile sul web e sul telefonino. Bene. Ma sotto, chi ha la forza di ricordare ciò che è «male»?

La scuola, lasciamo perdere. I genitori, quelli migliori, confessano la loro impotenza ad «imporre» ai figli qualche divieto contrastante con la moda e l’andazzo, e le imposizioni-ricattatorie della banda coetanea (che per i giornali diventa il «branco», quando delinque). E poi ci sarebbe parecchio da dire sulla neo-sessualità dei genitori essi stessi «liberati» dai famigerati «tabù». I nonni, che una volta invitavano ad evitare «le cattive compagnie»?

Ahimè, da quando vivo in provincia devo constatare che la scoperta del secolo – il Viagra – ha dato ai nonni una lugubre nuova vita: sull’orlo della tomba sono privati dell’antico beneficio che portava la vecchiaia – pensare all’anima, prepararsi – e si dedicano a badanti e serve romene di quarant’anni meno di loro, non di rado sposandole, ossia comprandole con la promessa della pensione vedovile, una piccola fortuna al loro Paese.

Bene, approviamo tutti: viviamo nella inedita civiltà del cosiddetto «amore», Viagra, pillole e preservativi sono lì a ripararci dalle conseguenze sgradite. Quelle dirette, almeno, come le gravidanze delle dodicenni. Sulle conseguenze indirette e generali, sul carico di sopraffazioni e violenze, schiavitù, sofferenze, infelicità e inferni veri che il sesso può comportare come «vizio», la censura impone il silenzio. Il sesso è, ufficialmente, «felicità», «benessere», «successo». Non ci è consentito nemmeno pronunciare la frase che accompagna, per obbligo di legge, la propaganda dei più innocui purganti da banco, e che uno speaker dalla parlantina fulminea legge più in fretta che può: «E’ un medicinale: seguire attentamente le istruzioni». Oppure: «Non superare le dosi prescritte».

Almeno dirlo, ai bambini. Almeno, potessero ascoltare qualcuno che fa loro presenti gli effetti collaterali – non quelli che si possono parare con la pillola del giorno dopo, ma quelli che rovinano il carattere e minano la volontà, che li rammolliranno e ne faranno delle amebe mollicce, ma capaci di ammazzare la fidanzata che «li ha lasciati» (perchè «non potevo vivere senza di lei»), di mettersi in branco a «farsi» la compagna o a bastonare il compagno debole o senza lo zainetto di moda; a investire innocenti per poi fuggire, o a massacrarsi di ecstasy il sabato sera.

Giusto perchè qualcuno lo dica – in qualche modo a futura memoria – citerò qui un personaggio di cui dirò il nome solo alla fine. Si vedrà allora che non si tratta di un moralista bacchettone, tutt’altro.

Dirò che è un personaggio straordinario, vissuto a cavallo tra l’800 e il ‘900, cresciuto nel Caucaso, allora crocevia misterioso di influenze spirituali strane e diverse. Nacque nella minoranza etnica greca, e il suo primo maestro fu un prete ortodosso, che ricordò sempre volentieri. Perchè quel prete, padre Borsh, non era nemmeno lui un bacchettone. Lo esortava a mantenere la purezza sessuale, ma «fino ai 18 anni».

Diceva:
 

«Se un adolescente soddisfa la propria concupiscenza, non fosse che una volta sola, prima della maggiore età, gli capiterà come Esaù: quello che per un piatto di lenticchie, vendette il suo diritto di primogenitura, cioè il bene di tutta la sua vita... perde per tutta la propria vita la possibilità di essere realmente un uomo degno di stima.

Soddisfare la propria concupiscenza prima della maggiore età ha lo stesso effetto che versare dell’alcol nel mosto. Come il mosto nel quale si è versata anche una sola goccia di alcol può diventare soltanto aceto, così la soddisfazione della concupiscenza prima della maggiore età fa dell’adolescente, sotto ogni rospetto, una specie di mostro. Quando l’adolescente diventa adulto, egli può fare tutto ciò che gli aggrada, come il mosto diventato vino, che può sopportare ogni dose di alcol...».
 

Non male per un prete, sia pure greco. Padre Borsh aggiungeva, credo a mo’ di spiegazione:
 

«Fino alla maggiore età l’uomo non è responsabile di nessuna delle proprie azioni, buone o cattive, volontarie o involontarie; sono responsabili quelli fra i suoi parenti che si sono assunti, consciamente o per circostanze accidentali, l’impegno di prepararlo alla vita adulta. Gli anni della gioventù sono per ogni essere umano, di sesso maschile o femminile, il periodo dato per sviluppare fino a maturazione completa il seme concepito nel seno della madre.

A partire da quel momento, cioè da quando tale sviluppo è compiuto, l’uomo diventa personalmente responsabile di tutte le proprie azioni volontarie e involontarie.

Come i saggi dei tempi passati avevano riconosciuto, questo termine è stato fissato dalla natura, conformemente alle leggi, per acquisire un essere indipendente, pienamente responsabile. Purtroppo nei tempi attuali non se ne tiene nessun conto: questo secondo me deriva dal fatto che l’educazione trascura il problema sessuale, il quale invece ha una parte importantissima nella vita di ognuno. In fatto di responsabilità, la maggior parte degli uomini contemporanei che hanno raggiunto e superato la maggiore età possono, per quanto strano sembri a prima vista, non essere responsabili di nessuna delle proprie manifestazioni».
 

Spero si colga la profondità di queste parole, e il loro collegamento con tutto ciò che abbiamo detto della deliquescenza della nostra società, dove nessuno le dice più. Da adulti (ammesso che siamo indipendenti e responsabili) possiamo anche fare la tara su questo insegnamento, relativizzarlo – l’incontro col sesso e le «cadute» sono inevitabili nell’adolescenza – ma occorre che a un ragazzino o a una ragazzina, questo venga fatto credere come verità assoluta; o che almeno qualcuno l’avverta seriamente del rischio che corre, il rischio di Esaù che per le lenticchie perse la primogenitura. Il rischio di diventare «una specie di mostro», del resto, è così evidentemente vero...

I giovanissimi non è bene che siano relativisti, e non solo in questo campo; valgono per essi degli accorgimenti pedagogici di cui magari da adulto potrà ridere. In questo senso, persino l’avvertimento che esagerare negli atti impuri «fa diventare ciechi» – frase che susciterebbe gli sgignazzi da tutti i teleschermi – aveva un suo valore educativo. E una verità più profonda di quella letterale: dopotutto, non esiste solo la cecità degli occhi materiali.

Il personaggio da cui ho ripreso queste righe avrebbe parlato di blocco dei «fattori spritualizzanti». Questo personaggio, è bene dirlo, non si fece prete, e smise anche di essere cristiano. A suo dire – era un gran raccontatore di storie, mai sapremo quanto inventate – trovò vecchi rotoli antico-armeni in cui si parlava dell’«Egitto di prima delle sabbie», e si mise in viaggio per incontrare chi ne sapesse di più. Mantenendosi nei modi più ingegnosi (sapeva fare mille mestieri e parlava molte lingue), a piedi, a volte solo a volte con compagni incontrati per via, viaggiò in quel mare di terra allora senza vere frontiere che si apre oltre il Caucaso, fino al Pamir e al Tibet, dove resistevano nicchie umane di civiltà spente, centri spirituali monifisiti ospitati in monasteri lamaisti, asceti, sufi contaminati da influssi babilonesi, accadici, buddhisti, o da elementi dello sciamanesimo siberiano. Il nostro etnologo Giuseppe Tucci lo incontrò casualmente a Lhasa, dov’era ritenuto una spia dello Zar.

Fatto sta che il nostro uomo, agli inizi del ‘900, appare a Parigi annunciando una via di salvezza che s’era costruito lui, a forza di quelle esperienze di cui non disse mai tutto, e forse mai nulla di non-inventato. Il centro della sua dottrina era: «Non avete un’anima immortale; troppo comodo; dovete fabbricarvela»; credo fosse una forma molto originale e personale di buddhismo.

Affittò una tenuta lussuosa a Fontainbleau, dove prese a insegnare a fabbricarsi l’anima a chi era interessato; fra i suoi allievi, un bel pezzo della cultura euro-americana: per snocciolare solo i nomi che mi vengono in mente, la scrittrice Katherine Mansfield, l’architetto americano Frank Lloyd Wright, Renè Daumal (l’autore del «Monte Analogo»), il pianista Keith Jarrett, Louis Pauwels futuro redattore-capo del Figaro e autore de Il Mattino dei Maghi, e il filosofo russo Ouspenskij, che fu il più devoto dei suoi allievi e forse il meno infedele dei suoi interpreti.

Insegnava esercizi fisici, che avevano a che fare con la musica e con la danza, di difficilissima, scoraggiante esecuzione – miravano a far muovere in modo indipendente arti e muscoli che usiamo in modo simultaneo o inconscio – forse al solo scopo di far «sentire» ai suoi allievi quanto poco fossero degli «io» autonomi, e quanto degli automi che credono di vivere e invece «sono vissuti» da altre forze, oscure e inferiori. Altri esercizi miravano ad ottenere l’assoluta presenza dell’«io», senza distrazione nè torpore.

Le sue cene erano festini pantagruelici, alla russa, molto innaffiati di vodka e cognac, durante i quali i suoi allievi dovevano sopportare il suo spirito sarcastico e le sue umiliazioni (forse pedagogiche). Ovviamente, c’era chi lo adorava come un guru e chi lo considerava un ciarlatano. Si faceva pagare carissime le sue lezioni; ma quando scoppiò la guerra mondiale e molti dei suoi allievi si trovarono in difficoltà, fu lui a mantenerli – dovette allora spesso assentarsi per «affari» –.

Sul letto di morte, nel 1949, disse ai pochi che non lo avevano abbandonato, sarcastico come sempre: «Vi lascio tra buoni guanciali». Se volesse intendere che erano riusciti a «fabbricarsi l’anima» è dubbio. Forse s’era dato a quell’insegnamento perchè il suo stesso lavoro per «fabbricarsi la propria anima» richiedeva, ad un certo punto, per il proprio perfezionamento, di portare altri più in alto, di aprirne i «fattori spiritualizzanti» paralizzati dalla modernità occidentale. Forse una forma sui generis di compassione buddhista, forse chissà cosa. Certo era un uomo di carattere e di volontà.

Non lasciò indifferente nessuno che lo incontrasse: la sua mera presenza dava la sensazione di una personalità  allegramente, sovranamente padrona di sè fino ad ogni fibra, vino che poteva sopportare qualuqnue gradazione di alcool.

Era, come alcuni avranno già intuito, Georgers Gurdjieff, non proprio un bacchettone.

 

 

 

 

 

 

 

 

Premio Darwin all’Italia

Fonte web

 

La dottrina della selezione naturale ha avuto una piccola falla qualche notte fa a Civitavecchia: quattro ragazzi da discoteca morti per eccesso di velocità e di tutto il resto, e l’unico sopravvissuto è il solo che è risultato fatto di coca; che era anche precisamente quello a cui amici a ragazzine avevano lasciato il volante. La sopravvivenza del più scemo.

Adesso i lettori sensibili non mi tempestino di proteste per la mia insensibilità, mancanza di carità, non mi accusino di sputare su dei morti: si astengano, prego. Perchè qui è confermato ancora una volta che la scemenza uccide, la vacuità mentale, l’incapacità di attenzione e di sensatezza «giovanile» sono letali. E siccome gli scemi sono refrattarii ad argomenti e ragionamenti, provo il sarcasmo: chissà, se riusciremo a farli vergognare della loro cretineria, magari qualche vita potrà essere salvata. Il ridicolo come prevenzione. Magari riuscissimo a far toccare con mano ai giovani quanto sono idioti.

A parte gli ultrasettantenni, la classe d’età tra i 17-25 anni è quella che statisticamente muore di più: e sempre per futili motivi, per quella idiozia non curata che li fa vivere come uno sciame di pirloni ridacchianti, coatti di mode dettate dal business più sporco, conformisti e superficiali fino alla morte. Meritano almeno il Premio Darwin alla memoria, quello che spetta agli incapaci nella lotta per l’esistenza.

Non sono tutti così, protesterà il lettore sensibile. Ma sono tanti. All’ospedale di Civitavecchia si son presentati per riconoscere i cadaveri ben 300 genitori, che dal sabato sera non avevano più notizie dei figli minorenni. Con tanto di foto dei loro ragazzi: spersi chissà dove, a smaltire chissà cosa, e senza comunicazione. Alla fine, solo cinque famiglie hanno vinto la lotteria della camera mortuaria.

«Perchè non si lasciano aiutare?», ho sentito dire una signora angosciata ad una radio locale; «perchè non ci lasciano almeno un numero a cui possiamo telefonare?». A quanto pare, nemmeno il telefonino – questo grande tranquillante che i genitori danno ai loro piccini dai 5 anni in sù, perchè «almeno sono tranquillo e posso controllare dove e con chi è» – serve a qualcosa. Quelli, quando vanno a fare cose pessime, il telefonino lo spengono. Questo apparato per la «tranquillità» di mamma, lo vivono come il bracciale elettronico degli arrestati domiciliari.

E forse non hanno nemmeno torto: non mi importa dove sei, con chi; basta che ti fai trovare, è il messaggio che colgono da  tutta la «libertà» che hanno strappato. Questa «libertà» senza obblighi, protetta da tutte le conseguenze che vengono dal suo uso idiota, mai punita nelle sue cretinerie, avvolta in una impotente indulgenza, li ha resi creature in stato di deprivazione emozionale, soffocate da una spessa coltre di noia da cui, per trovare «esperienze-limite», o quel che credono tali, letteralmente evadono. Come da un carcere.

premio_darwin.jpgQuei 300 genitori davanti alla morgue ci hanno fatto constatare il livello di mutismo di massa in cui si sono chiusi gli adolescenti; uno squarcio da incubo sui rapporti familiari post-moderni, o post-darwiniani. Un così ermetico mutismo ostile non può essere avvenuto in un giorno, dev’essersi instaurato a poco a poco. Devono esserci stati momenti in cui accorgersi che il «nostro» bambino o la bambina così aperta e limpida, erano diventati chiusi, sfuggenti.

Da ex adolescenti possiamo comprendere il perchè: i primi turbamenti che non si possono raccontare, le prime trasgressioni che non si confessano, e i sensi di colpa relativi. Qualcosa che la nostra età non ci aveva preparato ad affrontare, anzi che non si affronta bene a nessuna età; ci vogliono anni per imparare solo a cavarsela.

Ma l’età, oggi, è atrocemente abbassata: a 12 anni è già in agguato l’ipersessualizzazione, la stupida prova iniziatica che ti propone il cattivo compagno, le foto porno sull’MMS o su internet. Il tutto peggiorato da una indulgenza dei «grandi», premi Darwin anche loro: ragazzate, male non fa; ci sono passato anch’io...

Nel paesino in cui abito, la domenica a Messa, praticamente tutte le ragazzine undicenni hanno lunghissimi capelli biondi ondulati; certi ragazzini hanno mèches bionde. Essendo il biondismo raro nel Lazio, è chiaro che le mamme hanno accompagnato quei loro bambini e bambine dalla parrucchiera, per tinta e messimpiega. Ma sì, che male c’è?

A quell’età troppo precoce, certe «esperienze» e le situazioni in cui viene messo chi le fa, sono traumi. Continuate nella clandestinità complice della banda e del branco, guastano irrimediabilmente la volontà, il carattere. Ma peggio, a quell’età, ciò che ti ha fatto il compagno (o l’adulto attratto dall’offerta sessuale della tua tinteggiatura) o il primo sballo, non ci sono – semplicemente – le parole per dirlo.

Non è frequente nemmeno a un ventenne chiamare a casa alle tre del mattino e dire: «Papà vienimi a prendere, sono finito in un fosso strafatto di coca con la tua macchina che è distrutta». Figurarsi se una ragazzina di dodici anni può chiamare: «Mamma, mi sono fatta fare nel cesso di una discoteca pomeridiana – dove faccio la cubista a tua insaputa – da uno che nemmeno conosco, che mi alitava di birra mentre mi sbatteva in piedi: vieni a prendermi, abbracciami, perchè ho devastato la mia vita, sono vuota e sporca, mi hanno trattata come uno straccio e sono al di là di ogni salvezza».

Vi pare possibile?

Forse certe cose si possono confidare a un prete (ma i preti non sono più nel confessionale, devi andarli a cercare in sagrestia, e si adattano alla tua richiesta come a un’incombenza fastidiosa, da sbrigare in fretta); ma forse nemmeno, perchè non si ha, a 12 anni, il linguaggio per dire esperienze da adulti induriti nel male, patibolari, ma nello stesso tempo capaci di introspezione, di bilanci amari.

Una afasia atroce, da molli anime troppo presto perdute, che è colma di rimprovero inespresso: mamma, papà, cosa «mi hai lasciato fare».

Viene da qui la chiusura dei telefonini. «I miei non possono capire». I miei «sanno solo farmi la predica».

L’estate scorsa mi è capitato di trascorrere qualche giorno di ferie accanto a una giovane coppia di buona classe sociale con due figli piccoli: mi ha colpito come quei genitori, ai bambini, non parlassero mai. Sì, era un continuo e vuoto dire: «Non toccare questo», e «mangia ancora un altro cucchiaio»; continui minuscoli e vuoti rimproveri (il bambino toccava il «questo», e non gli succedeva niente), parole che passano da un orecchio all’altro. Ma un vero parlare significativo, dai giovani e sofisticati genitori, letteralmente mai. Più che genitori erano segnali stradali: svolta a sinistra, senso vietato, non buttare per terra la bambola di tua sorella (ordine ripetuto, come una cantilena, senza conseguenza alcuna). Mai, però, un discorso articolato. Mai il racconto, o la lettura di una favola.

In altra occasione ho parlato della necessità pedagogica delle favole nell’infanzia, e raccomandato che fossero le favole più antiche e primordiali. L’ideale prototipo sarebbe la fiaba – il mito – di Prometeo che ruba il fuoco a Zeus per donarlo agli uomini e ne viene punito con l’aquila che gli morde il fegato in eterno, mentre contro gli uomini, Zeus manda il male peggiore: la prima donna, Pandora col suo vaso pieno di sciagure, in sposa al fratello di Prometeo, che si chiama Epimeteo. E magari, al bambino inquieto che chiede perchè, ripetendo le parole di Esiodo: «Sappi che gli dei tengono nascosto ogni bene che sostenga la vita; se no, col lavoro d’un giorno senza fatica un anno potresti campare».

Non è un insegnamento precoce: non si imparano mai abbastanza presto i duri misteri della condizione umana; che non tutto ciò che accade ha un motivo giusto, o anche solo una ragione. E’ da subito che bisogna capire che ogni «conquista», sia il fuoco o il telefonino, ha un prezzo perchè è anche, misteriosamente, una violenza. Magari può insegnare a un bambino, molto più di quanto crediate, che Prometeo significa «il previdente», Epimeteo è «colui che impara le cose in ritardo» – un cretino da discoteca – e che Pandora vuol dire «piena di doni», ma i poeti la chiamano «il bel male»...

Ma possono andar bene anche le fiabe classiche, Cenerentola, Cappuccetto Rosso: una delle loro funzioni – oltre al mostrare la fatica e il sacrificio del buon incontro, delle nozze col Principe – è di insegnare il linguaggio, quel linguaggio per l’esistenza, fatto di metafore per l’indicibile, che nessuna scuola insegna più. Magari così preparata la vostra bambina, adolescente, potrà riconoscere il lupo, sotto mentite spoglie di disk-jockey.

Capisco che non si può chiedere troppo a genitori, che non tutti possono o sanno «parlare» le favole; nulla li ha preparati al mestiere. Come quasi tutti, viviamo nella corrente psichica dominante, senza metterla in discussione; l’andare controcorrente è faticoso e a volte impossibile, è da minoranze selezionate. Specie i genitori più sprovveduti, quelli che portano le figlie undicenni a farsi la tinta biondo-miele, vanno capiti.

Per questo occorrerebbe una responsabilità superiore, pubblica, del «clima» psichico.

Uno dei 300 genitori davanti alla camera mortuaria ha chiesto: «che cosa possiamo fare, con questi ragazzi?».

Ha ragione, ogni possibile insegnamento è smentito dall’alto, dai manifesti, dalla pubblicità, dalla TV. Il fatto è che nel pericoloso, difficile esercizio di educare, non c’è da inventare. I metodi sono tutti lì, da millenni. Solo che oggi, chi proponesse di adottarli, avrebbe contro l’intera società.

Le discoteche ad esempio: dopo la tragedia della scemenza di Civitavecchia, si son sentite le solite richieste vacue, «cambiare l’orario di chiusura», «vietare gli alcoolici sotto i 18 anni»…

Nessuno che possa dire che non c’è un diritto delle discoteche ad esistere. Che le discoteche non vanno solo chiuse, vanno represse, perchè le finanzia e le crea il business del narcotraffico, per spacciare droga, e sono comprovate cause di morte giovanile.

Ma si provi un politico a proporne la chiusura: avrà contro Espresso, Panorama, l’intero universo mediatico progressista e anche no; sarà dichiarato nazista dai radicali e dalla sinistra in genere, ridicolizzato ossessivamente dalla Litizzetto e dalla Guzzanti – loro due, le nuove «agenzie educative» a cui spetta il giudizio ultimo sul mondo.

Non c’è modo di spiegare, per esempio, questo semplice fatto: che i ragazzini e le ragazzine non vanno in discoteca perchè gli piace; ci vanno perchè è il posto dove vanno i coetanei, e tutti gli adolescenti insieme immaturi e precoci (nel male) non vivono come individui, ma come «sciame»; sciame di farfalle, prigioniere del branco; non possono dire «non mi piace», perchè per dirlo bisogna avere un «io», e non ce l’hanno ancora.

La fiaba del pifferaio di Hamelin dovrebbe insegnare qualcosa, se qualcuno la raccontasse ancora: il mago che col suo piffero portava i topi a buttarsi in mare, fu ben capace di far lo stesso con i bambini.

Bisognerebbe avere rispetto e tremore per questi io incipienti, ancora informi, e sottrarli al pifferaio; ma ci lasciamo intimidire dalle Litizzetto.

Il vecchio trucco sarebbe creare una tendenza giovanile che sostituisca la discoteca con qualcosa d’altro, con «qualunque« altra cosa; se si fa diventare «tendenza» la raccolta dei pomodori in campagna, tutti i nostri topini vorranno far quello.

E’ comprovato: intere generazioni di idioti adolescenti non poterono sottrarsi alla fascinazione delle uniformi e delle bandiere, quando facevano tendenza; si arruolavano volontari, i sedicenni, come oggi accorrono dove ci sono «gli altri», quelli «come me», dal cui giudizio (idiota, come sempre) dipendono spasmodicamente. Almeno, l’idiozia sventata della gioventù spendibile fu spesa per la patria; la loro morte pianta in pubbliche cerimonie e monumenti; almeno, i genitori non furono lasciati soli e impotenti, a chiedersi perchè, come davanti alla morgue di Civitavecchia. Al loro fianco, nessuna patria. Portatevi via i vostri cadaveri privati, ciucciatevi il vostro dolore a casa vostra.

Ma si può proporre qualcosa del genere? «I bambini rieducati in campagna», per esempio?

Eppure i vari centri antidroga – i Muccioli, i Gelmini – fanno questa cura: con il lavoro dei campi, l’allevamento del bestiame cercano di recuperare i caratteri guastati, le volontà distrutte. Ma nella società sono un settore a parte, finanziato dal sistema sanitario, non il centro educativo. La società dominante fa tutt’altro.

Fateci caso: a parte i TG e Piero Angela, la TV è tutta incentrata sul modello-discoteca; un’ossessiva riproposizione di veline, cubiste, giochini a premio scemi da discoteca, sessualità in paillettes, gossip grassi, battute da avanspettacolo. Un diluvio di cacate che richiama la discoteca come Modello Assoluto, come archetipo. La TV ha una parte del tutto egemonica nell’istupidimento generale, nella educazione alla vacuità dell’attenzione, all’ignoranza e alla distrazione mentale facilista che sono una componente decisiva delle stragi del sabato sera.

Ma provate a richiamare l’industria televisiva – specie quella di Stato, ma non solo – alle sue responsabilità verso la società, specie la parte più sprovveduta; provate a dire che essa deve essere uno strumento di educazione, e dunque controllato. Tutti grideranno alla «censura», tutti vi chiameranno nemico della «libertà d’espressione», esigeranno la vostra espulsione dal consesso umano come fondamentalista, nazista, oscurantista. Tutti i Venerabili Maestri dei media, tutti gli Scalfari, tutte le Litizzetto e i Fabio Fazio, saranno contro di voi. E quel che peggio, persino tutti i genitori.

Che fare, allora?

Bella domanda. Il competente Ministero ha promesso «un aggravio delle sanzioni»: multe più dure per i morti ammazzati dalla loro e nostra idiozia. Premio Darwin anche al ministro
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APPROFONDIMENTO

 

 

 

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