A F R I C A

“Per favore non aiutateci più!”

 

LA GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA STA CREANDO LE PREMESSE

PER LA PIÙ BRUTALE CARESTIA DELLA STORIA UMANA

(a cura di Claudio Prandini)

 

 

I fatti di Rosarno vanno letti oltre il fatto di cronaca altrimenti

 la nostra cecità sulle reali cause del fenomeno rimangono

 

 

INTRODUZIONE

Fame in Africa

Fonte web

Dopo i fatti di Rosarno, vediamo i dati dell’Africa forniti del Movimenti dei senza terra e cerchiamo di capire perchè succedono queste cose. Inoltre noi di ICare stiamo organizzando insieme all’Ass. Villaggio Globale una conferenza sull’Africa per Aprile.

Il “Movimento dei sem-terra” (MST) è una forma di organizzazione sociale dei senza-terra, i quali sono costretti a lavorare la terra per gli altri sotto le più differenti forme come la mezzadria, l’affitto, come semplici salariati; pertanto, per risolvere questo problema, la principale soluzione è ottenere una terra dove poter lavorare.

Il MST è nato come una forma di coscientizzazione e organizzazione di agricoltori i quali hanno percepito che, avendo un pezzo di terra, avrebbero potuto liberarsi dallo sfruttamento dei latifondisti ed iniziare ad organizzare la propria vita e quella della propria famiglia per poter progredire. Possedere un pezzo di terra significava avere lavoro, cibo, reddito; vivere in una comunità rurale significava poter creare dei servizi minimi per una vita dignitosa.

DATI MST

1. Dal 1960 la produzione di cereali nel mondo è aumentata di 3 volte, mentre la popolazione mondiale è cresciuta del 100%, da 3 a 6.2 miliardi.

La disponibilità di alimenti per persona è cresciuta del 24%, l’offerta di calorie quotidiane per abitante è cresciuta da 2.360 a 2.803.

2.. Nel 1960 si stimava che – in tutto il mondo – ci fossero 80 milioni di persone che soffrivano la fame, nel 2006 sono diventate 880 milioni,il 60% vive in ambiente rurale ( oggi gli affamati sono oltre 1 miliardo, l’80% sono contadini):

Circa 515 milioni vivono in Asia (il 24% della popolazione, con 200 milioni solo in India!)), 186 milioni nell’Africa sub-sahariana, (34% della popolazione), 100 milioni nelle Americhe.

Nel 2007 gli affamati sono cresciuti di 75 milioni per gli aumenti dei prezzi alimentari

3.. Fino al 1960 la maggioranza dei paesi era autosufficiente nella produzione di alimenti per i propri popoli, tranne alcune regioni dell’Africa con grandi problemi climatici.

Oggi, il 70% dei paesi dell’emisfero sud sono importatori di alimenti.

4.. Secondo la relazione sui Diritti Umani dell’ONU, circa 100.000 persone, soprattutto bambini e anziani, muoiono di fame ogni giorno.

5.. Secondo la stessa relazione, soltanto il 5% delle persone soffre la fame a causa dei problemi climatici. Il 95 % delle persone soffre la fame per problemi strutturali dell’economia e della politica e vivono in paesi che potrebbero produrre i propri alimenti.

6 Il modello industriale della produzione agricola (rivoluzione verde) ha danneggiato la fertilità dei terreni nel 20% di tutta l’area coltivata. In diversi paesi dell’Africa e dell’America centrale il danno si estende al 70% dell’area coltivata.

7. Con le tecniche agricole che esigono irrigazione intensiva, oggi si usa circa il 70% dell’acqua potabile del mondo nell’agricoltura. Ogni anno si perdono 1,5 milioni di ettari coltivati per la salinizzazione delle terre.

Dalla Rivoluzione verde circa 45 milioni di ettari sono stati danneggiati e 1,6 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua necessaria.

 

 

 

I figli bastardi della globalizzazione

 

 

 

 

 

Quando l'Africa era davvero

nera non moriva di fame

Fonte web - Massimo Fini

Sui fattacci di Rosarno anche la stampa più bieca e razzista è stata costretta a prendere le parti degli immigrati (“Hanno ragione i negri”, ha titolato il Giornale, 9/1), sfruttati fino all'osso per i famosi lavori che “gli italiani non vogliono più fare”, costretti a vivere in case di cartone e, come se non bastasse, presi anche a pallettoni.

Ed è assolutamente ipocrita chiamarli “neri”, in linguaggio politically correct, come fa la sinistra se poi li si tratta da “negri” che è il senso ironico del titolo di Feltri. Quando però si analizzano le cause di queste migrazioni ormai bibliche, che portano a situazioni tipo Rosarno in Europa e negli Stati Uniti, la stampa occidentale resta sempre, e non innocentemente, in superficie. Si dice che costoro sono attratti dalle bellurie del nostro modello di sviluppo. Ora, non c'è immigrato che non possegga almeno un cellulare e che non sia in grado di avvertire chi è rimasto a casa di che “lacrime grondi e di che sangue” questo modello, per tutti e in particolare per chi, come l'immigrato, è l'ultima ruota del carro.

Si dice allora che costoro sono costretti a venire qui a fare una vita da schiavi a causa della povertà e della fame che strazia i loro Paesi. E questo è vero. Ma non si spiega come mai queste migrazioni di massa sono cominciate solo da qualche decennio e vanno aumentando in modo esponenziale. In fondo le navi esistevano anche prima e pure i gommoni. Il fatto che gli immigrati di Rosarno siano prevalentemente provenienti dall'Africa nera ci dà l'opportunità di spiegarlo.

L'opinione pubblica occidentale, anche a causa della disinformatia sistematica dei suoi media, è convinta che la fame in Africa sia endemica, che esista da sempre. Non è così. Ai primi del Novecento l'Africa nera era alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza (al 98%), nel 1961. Ma da quando ha cominciato ad essere aggredita dalla pervasività del modello di sviluppo industriale alla ricerca di sempre nuovi mercati, per quanto poveri, perché i suoi sono saturi, la situazione è precipitata. L'autosufficienza è scesa all'89% nel 1971, al 78% nel 1978. Per sapere quello che è successo dopo non sono necessarie le statistiche, basta guardare le drammatiche immagini che ci giungono dal Continente Nero o anche osservare a cosa siano disposti i neri africani, Rosarno docet, pur di venir via.

Cos'è successo? L'integrazione nel mercato mondiale ha distrutto le economie di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) su cui quelle popolazioni avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni, oltre al tessuto sociale che teneva in equilibrio quel mondo (come è avvenuto in Europa agli albori della Rivoluzione industriale quando il regime parlamentare di Cromwell, preludio della democrazia, decretò la fine del regime dei “campi aperti” (open fields), cosa a cui le case regnanti dei Tudor e degli Stuart si erano opposte per un secolo e mezzo, buttando così milioni di contadini alla fame pronti per andare a farsi massacrare nelle filande e nelle fabbriche così ben descritte da Marx ed Engels).

Oggi, nell'integrazione mondiale del mercato, nella globalizzazione, i Paesi africani esportano qualcosa ma queste esportazioni sono ben lontane dal colmare il deficit alimentare che si è venuto così a creare. E quindi la fame.

Senza per questo volerlo giustificare il colonialismo classico è stato molto meno devastante dell'attuale colonialismo economico. Fra i due c'è una differenza sostanziale, di qualità. Il colonialismo classico si limitava a conquistare territori e a rapinare materie prime di cui spesso gli indigeni non sapevano che farsi, ma poiché le due comunità rimanevano separate e distinte poco cambiava per i colonizzati che, a parte il fatto di avere sulla testa quegli stronzi, continuavano a vivere come avevano sempre vissuto, secondo la loro storia, tradizioni, costumi, socialità, economia.

Il colonialismo economico, invece, ha bisogno di conquistare mercati e per farlo deve omologare le popolazioni africane (come del resto le altre del cosiddetto Terzo Mondo) alla nostra way of life, ai nostri costumi, possibilmente anche alle nostre istituzioni (la creazione dello Stato, per soprammercato democratico o fintamente democratico, ha avuto un impatto disgregante sulle società tribali), per piegarle ai nostri consumi. In Africa si vedono neri con i RayBan (con quegli occhi!) e il cellulare, che costano niente, ma manca il cibo. Perché il cibo non va dove ce n'è bisogno, va dove c'è il denaro per comprarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale, al bestiame dei Paesi industrializzati, se è vero che il 66% della produzione mondiale di cereali è destinato alla alimentazione degli animali dei Paesi ricchi (dato Fao).

E adesso ci si è messa anche la Cina, new entry in questo gioco assassino, che compra, con la complicità dei governanti corrotti, intere regioni dell'Africa nera la cui produzione, alimentare e non, non va ai locali, sfruttati peggio degli immigrati di Rosarno, ma finisce a Pechino e dintorni.

Ma l'invasione del modello di sviluppo egemone ha anche ulteriori conseguenze, quasi altrettanto gravi della fame. Sradicati, resi eccentrici rispetto alla propria stessa cultura che è finita nell'angolo, scontano una pesantissima perdita di identità. A ciò si devono le feroci guerre intertribali cui abbiamo assistito, con ipocrita orrore, negli ultimi decenni. Perché le guerre in Africa, sia pur con le ovvie eccezioni di una storia millenaria, avevano sempre avuto una parte minoritaria rispetto alla composizione pacifica fra le sue mille etnie (J.Reader, “Africa”, Mondadori, 2001).

E così fra fame, miseria, guerre, sradicamento, distruzione del loro habitat, costretti a vivere con i materiali di risulta del mondo industrializzato (si vada a Lagos, a Nairobi o in qualsiasi altra capitale africana) i neri migrano verso il centro dell'Impero cercandovi una vita migliore. O semplicemente una vita.

E i nostri “aiuti”, anche quando non sono pelosi, non solo non sono riusciti a tamponare il fenomeno della fame e della miseria, in Africa e altrove, come è emerso dal recente vertice della Fao tenuto a Roma, ma l'hanno aggravato perché tendono ad integrare ulteriormente le popolazioni del Terzo Mondo nel mercato unico mondiale, stringendo così ancor di più il cappio intorno al loro collo.

Alcuni Paesi e intellettuali del Terzo Mondo lo avevano capito per tempo. Una ventina di anni fa, in contemporanea con una delle periodiche riunioni del G7 (allora c'era ancora il G7), i sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l'africano Benin, organizzarono un polemico controsummit al grido: “Per favore non aiutateci più!”. Ma non vennero ascoltati.

 

 

La globalizzazione spiegata secondo la mistica ebraica

che trova nel Logos cristiano la sua perfetta unità

 

 

 

 

 

Immigrazione: cari lettori…

Fonte web - Massimo Fini

I lettori Maria Teresa Secondi e Paolo Migneco pongono due questioni di fondo. Secondi si chiede se noi abbiamo il diritto, o addirittura il dovere, di intervenire, anche fuori di casa nostra, nelle altre culture e negli altri mondi eliminandone, con le buone o con le cattive, dispotismi e crudeltà (che elenca minuziosamente facendo peraltro un “poutpourrì” tratto da tradizioni diverse) al che sono appartenuti in certi casi, anche alla storia europea ed occidentale ma che abbiamo fortunatamente superato. E si dà una risposta senza dubbi: noi occidentali abbiamo il diritto e il dovere, da buoni samaritani quali siamo, di eliminare quei dispotismi, quelle crudeltà, quegli orrori omologando le altre culture alla nostra e esaminando come “diversità”, bontà sua, “i piatti tipici, le sagre, i costumi tradizionali” che poi andremo a goderci da turisti. A parte che omologando alla fine sparirebbero anche i piatti tipici la questione non è così lineare e semplice come crede Secondi convinta di appartenere a una cultura più evoluta e “superiore”.

Lévi-Strauss, che non è un terrorista islamico ma un filosofo e antropologo che, come tale, ha conosciuto molti popoli, sostiene che ogni cultura è un sistema, con le sue compensazioni interne e i suoi contrappesi, un insieme di elementi logicamente coerenti strettamente collegati fra loro per cui qualsiasi modificazione di uno di essi comporta una modificazione di tutti gli altri. Ne consegue che non si possono estrapolare e cancellare dalle culture “altre” gli aspetti che non ci piacciono senza modificare profondamente tutto il sistema e, quasi sempre, farne crollare l’intera impalcatura. E questo è esattamente il motivo per cui ogni intrusione occidentale nelle società del Terzo Mondo ancor più “primitive”, anche quelle animate dalle migliori intenzioni, per non parlar delle altre, ha portato sconquassi inenarrabili, creato ibridi incoerenti e mostruosi e distrutto, di fatto, quelle società, quelle culture e quelle civiltà.

È vero che in molte – non in tutte – culture diverse dalla nostra ci sono pratiche dispotiche e crudeli per noi incomprensibili. Ma sono compensate da altri aspetti. Noi mettiamo su tutto la libertà individuale (anche se poi ci sarebbe da vedere che cos’è realmente la libertà in Occidente – vedi la lettera di Migneco), loro privilegiamo i legami, familiari (quelli che Migneco, conttradicendosi, lamenta siano venuti meno da noi), cronici, tribali e, quando non sono completamente imbastarditi dalle nostre intrusioni, mirano all’equilibrio e all’armonia “in ciò che c’è già” a scapito dell’efficenza economica e tecnologica. Sono società tendenzialmente statiche laddove quella occidentale è dinamica. È la loro storia. Non è la nostra.

Ma non basta. Siamo davvero sicuri, come lo è Secondi e quasi tutti in Occidente, che il nostro sia “il migliore dei mondi possibili”, la “cultura superiore”, la società più evoluta dove è “migliorato il nostro modo di stare insieme” e dove, insomma, si vive meglio? Prendiamo dei dati, che sono più solidi delle opinioni, e facciamo un raffronto fra l’Europa preindustriale e preilluminista, dove si viveva, grosso modo, come vivono attualmente le società che ci fanno orrore, e l’Occidente di oggi. Nell’Europa del 1650, industriale, i suicidi erano 2,5 per 100 mila abitanti, in quella del 1850, un secolo dopo il “take off” industriale, erano 6,9. Triplicati oggi sono 20 per 100 mila. Decuplicati. Nevrosi e depressione, pressoché sconosciute nel mondo di ieri, sono malattie della modernità. Si affacciano all’inizio dell’Ottocento, non a caso negli ambienti borghesi, mercantili, e quindi agiati, diventano un problema sociale delle classi cosiddette benestanti fra Ottocento e Novecento, tanto che nasce la psicoanalisi (Freud), per esplodere poi come segno di un disagio acutissimo, che preme l’intero Occidente in tutti i suoi ceti, più o meno dopo la seconda guerra mondiale. Negli Stati Uniti 566 americani su mille fanno uso abituale di psicofarmaci. Cioè nel Paese di punta del nostro modello di vita, il più forte, il più potente, il più ricco, più di un abitante su due non sta bene nella propria pelle, non regge la società in cui vive. Il fenomeno dell’alcolismo di massa nasce con la Rivoluzione industriale. Quello della droga è sotto gli occhi di tutti.

Vogliamo sostenere, seriamente, che questo è “il migliore dei mondi possibili”? Abbiamo eliminato alcune crudeltà e alcuni dispotismi (sostituendoli con altri, più sottili e meno visibili), ma al prezzo del vuoto esistenziale e di una formidabile perdita di senso. E ora pretendiamo di esportare la nostra nevrosi in tutto il resto del vasto mondo.

Migneco si chiede invece che cosa dobbiamo fare per fermare quelli che chiama “gli invasori” (per la verità ad essere invasi, per ora, sono l’Afghanistan, l’Iraq, l’Arabia Saudita, la Bosnia, il Kosovo, ma lasciamo perdere non è questo l’argomento).

Dobbiamo innanzitutto fermarci noi, fermare le nostre di invasioni, quelle economiche, anzi ritirarci. Non mi riferisco qui al colonialismo classico, ma a quello attuale, economico. Fra i due c’è una differenza sostanziale, di qualità. Il primo si limitava a conquistare territori e a rapinare materie prime di cui spesso gli indigeni non sapevano che farsi, ma poiché le comunità dei colonizzatori e dei colonizzati rimanevano sostanzialmente separate poco cambiava per questi ultimi che continuavano a vivere come avevano sempre vissuto, secondo le proprie tradizioni, costumi, mentalità, socialità, economia. E infatti, non si erano mai visti prima degli ultimi decenni, poniamo, neri del Centro Africa venire verso l’Occidente – eppure le navi esistevano anche allora – caso mai eravamo noi che andavamo a prenderli per trarli schiavi. Il colonialismo economico invece non conquista territori ma mercati (di cui l’Occidente ha un bisogno estremo, anche dei più modesti e poveri, perché i suoi sono saturi) e per farlo deve omologare gli abitanti del Terzo Mondo ai nostri costumi, alla nostra “way of life”, ai nostri valori, ai nostri schemi mentali e possibilmente ai nostri costumi. Privati delle loro tradizioni, della loro socialità, di quel tessuto di solidarietà, familiare, il nostro modello, ha lacerato irrimediabilmente, ridotti a vivere in desolate periferie dell’Impero con i suoi materiali di risulta, resi eccentrici rispetto alla propria cultura, che non esiste più o è finita nell’angolo, milioni di uomini e di donne del Terzo Mondo perdono ogni punto di riferimento e la loro identità (è da questo, soprattutto, che cerca di difendersi l’Islam, più strutturato rispetto ad altre culture terzomondiste). E quindi vengono verso il centro dell’Impero per cercavi una vita migliore. Questa è una delle cause della miseria e poi c’è la fame.

Che è anch’essa un fatto nuovo, prodotto dall’avanzare della globalizzazione del nostro modello. Prendiamo l’Africa nera. Nessuno crederà seriamente, spero, che l’Africa sia sempre stata alla fame. Agli inizi del novecento era talmente autosufficente dal punto di vista alimentare e lo è rimasta, nella sostanza (al 98\%), sin verso la fine degli anni sessanta. Poi l’autosufficenza è andata rapidamente decrescendo e oggi è abbondantemente sotto il 50\% l’integrazione economica mondiale costringe i neri africani, come le altre popolazioni del Terzo Mondo, ad abbandonare le economie di sussistenza, cioè di autoproduzione e autoconsumo, su cui avevano vissuto, e a volte preparato, per secoli e millenni, per entrare nella globalizzazione. Adesso i Paesi africani esportano qualcosa (dal Continente Nero ci arrivano squisite primizie), ma queste esportazioni sono lontanissime da compensare il deficit alimentare che si è creato con l’abbandono delle economie tradizionali. E quindi la fame. E quelle migrazioni bibliche che tanto inquietano l’Occidente.

Ma chi è favorevole alla globalizzazione non può essere contro l’immigrazione. Se i capitali e le merci possono andare a cercare il luogo della Terra dove ritengono di trovare la migliore remunerazione, questa possibilità deve essere consentita anche agli uomini che, oltretutto, sono stati quasi sempre ridotti a miserabili proprio dall’arrivo di quei capitali. A meno che non si voglia arrivare al punto veramente infame, di sostenere che il denaro ha più diritti degli uomini.

Se vogliamo evitare le immigrazioni di massa dobbiamo smetterla con le nostre intrusioni, economiche e non, che non fanno altro che destrutturare i Paesi del Terzo Mondo. Dovremmo anzi ritirarci da quei Paesi. Ritirare i nostri missionari, le nostre armi, i nostri rifiuti tossici, le nostre fabbriche puzzolenti, i nostri imprenditori che vanno lì a “portare lo sviluppo”, i nostri prodotti, il nostro denaro. Dovremmo lasciarla in pace, quella gente. Ecco tutto. Ma non possiamo farlo perché questa economia internazionale di rapina ci serve per mantenere quei livelli di benessere cui non siamo in grado di rinunciare anche se si è rivelato uno straordinario malessere.

E nemmeno gli aiuti in loco, quand’anche non siamo (?), servono a nulla. Sono anzi dannosi perché integrando ulteriormente questi Paesi al nostro sistema finiscono per strangolarci del tutto.

L’Africa, per prendere il Continente Nero come emblema di una situazione complessiva, stava molto meglio quando si aiutava da sola. Durante un G7 di anni fa i sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l’africano Benin organizzarono un contro summit al grido “Per favore, non aiutateci più!”.

Quanto a Migneco che teme che fra qualche tempo gli islamici, divenuti maggioranza nel nostro Paese ne detteranno le leggi, vorrei fargli notare che questa era esattamente la situazione del Kosovo dove la minoranza albanese, a furia di figliare, era diventata maggioranza e pretendeva di impadronirsi, con l’indipendenza, di una regione che era da sempre, storicamente e giuridicamente serba. La Serbia non ci stava ovviamente a cedere una terra che era stata lavorata per secoli da serbi per regalarla ai nuovi arrivati. Ma intervenimmo noi occidentali, “uomini di buona volontà”, già “uomini della pace”, in favore dei terroristi dell’Uck finanziati dagli americani, con l’Italia nel poco dignitoso ruolo del “palo”, bombardammo per 72 giorni la Jugoslavia e una città europea come Belgrado facendo, cara Secondi, anima candida, 5.500 morti.

E poi, per buona misura, trascinando, col ricatto economico, a quel che restava della Serbi, l’ex presidente Slobodan Milosevic davanti al Tribunale internazionale dell’Aja dove è morto d’infarto.

Spero proprio che i timori di Migneco si avverino e che la Storia ci renda la pariglia.

 

 

Papa: A nessun africano manchi il pane quotidiano

 

 

DICHIARAZIONE DEL MEETING DI COLOMBO SU

"CRISTIANESIMO, COLONIZZAZIONE E GLOBALIZZAZIONE "

Fonte web

Venticinque persone, quasi tutte dall'Africa e dall'Asia (insieme ad alcune da Australia, Europa e USA ) si sono incontrate a Colombo dal 19 al 26 aprile 1998 per una riflessione teologica dal punto di vista cristiano sul ruolo delle Chiese nell'evoluzione del colonialismo e delle attuali forme di globalizzazione. Questo seminario è stato co-sponsorizzato dalla Associazione Ecumenica dei Teologi del Terzo Mondo (EATWOT), dalla Commissione Asiatica dei Diritti Umani di Hong Kong e dal Centro per la Società e la Religione di Colombo. Abbiamo riflettuto anche sulla riparazione dei danni compiuti dal colonialismo e sulla restituzione di ciò che è stato rubato alle colonie. In questa ricerca ci siamo ispirati ai due incontri del Foro Afro-Asiatico per la Spiritualità tenuti a Colombo nel 1992 e nel 1994, alla Conferenza Internazionale "Dal Colonialismo alla Globalizzazione: cinque secoli dopo Vasco da Gama" tenuto a New Delhi dal 2 al 6 febbraio 1998 dalla ACISCA, all'incontro congiunto NCCI-URM su "Ricolonizzazione, globalizzazione e ruolo della Chiesa" tenuto a Bangalore dal 16 al 20 marzo 1998, e a varie altre iniziative tenute altrove.

Noi mettiamo queste nostre riflessioni a disposizione dei nostri amici, di coloro che sono responsabili nelle nostre chiese, e di coloro che all'esterno sono impegnati a cercare un nuovo ordine mondiale basato sulla giustizia, sull'equità e sullo sviluppo sostenibile.

L'occasione per questo meeting è stato il quinto centenario dell'arrivo di Vasco de Gama a Calcutta, in India, nel maggio 1498, che simbolizza l'inizio del colonialismo moderno in Asia e in Africa. Oggi esso ha preso la forma di una globalizzazione che continua a impoverire le masse di Africa, Asia ed America Latina. Inoltre marginalizza i poveri nei paesi ricchi. Per questo ci siamo focalizzati sul colonialismo moderno, cioè dopo il 1498 e sulle forme presenti di ingiusta globalizzazione che noi percepiamo come neocoloniali.

Abbiamo trovato consenso sul fatto che questa forma di globalizzazione deve essere rifiutata e che noi dobbiamo lavorare per un nuovo mondo che possa far convivere tutte le nazioni e tutti i popoli in eguaglianza e in solidarietà reciproca.

Durante questi giorni abbiamo cercato di capire in che modo le religioni sono state interpretate per legittimare il colonialismo. Sebbene sia stato principalmente il Cristianesimo ad essere usato per giustificare il colonialismo, in molti casi l'approccio etnocentrico di varie religioni e società, asiatiche e non, ha anch'esso aiutato il processo del colonialismo: sia per l'incapacità a resistere agli invasori, sia per il fatto che la élite locale ha collaborato con essi. Siamo anche coscienti che le chiese a cui apparteniamo non sempre hanno collaborato senza obiezioni con i colonialisti. Come Africani e Asiatici anche noi siamo vittime del colonialismo. Nonostante queste circostanze attenuanti e nonostante il ruolo anche di altre religioni, noi come cristiani riconosciamo di avere partecipato a questa ingiustizia a motivo del ruolo di legittimazione che il Cristianesimo ha svolto. Chiediamo ai nostri popoli perdono per questo. Facciamo appello alle nostre chiese e ai leaders delle altre religioni che hanno svolto un ruolo diretto o indiretto di legittimazione affinché chiedano perdono ai nostri popoli. Facciano appello a loro per lavorare insieme al fine di chiedere riparazione e restituzione dai colonizzatori che perpetrato queste ingiustizie verso i nostri popoli. 

1. Il processo del Colonialismo

Il colonialismo ha impoverito economicamente, politicamente e culturalmente i nostri popoli, In alcuni paesi la terra è stata sottratta per le piantagioni e le miniere. In altri, coloni bianchi la hanno occupata contro la volontà e gli interessi dei nostri antenati. In questo modo noi siamo stati privati dei mezzi per la sopravvivenza. In paesi come l'India i nostri antenati sono stati trasformati in operai dequalificati. In gran parte dell'Africa essi sono stati resi schiavi, privati della loro libertà e delle loro stessa umanità e venduti come merci per il profitto dei colonizzatori. I colonialisti hanno de-industrializzato molti dei nostri paesi e li hanno trasformati in fornitori di capitali e materie prime per la rivoluzione industriale europea, e poi in mercati obbligati per i loro prodotti finiti. In vista di questo scopo, i nostri lavoratori qualificati sono stati talvolta brutalmente privati delle loro abilità e impoveriti.

Le popolazioni indigene e le donne sono state le maggiori vittime. Le loro comunità erano quelle che più preservavano la biodiversità di cui i nostri continenti sono ricchi. Le forze coloniali hanno saccheggiato molto della nostra biodiversità e cultura tradizionale. e la hanno monopolizzata per il beneficio di pochi. Hanno causato immenso danno alle nostre foreste, alla terra e alle altre risorse naturali. Ciò ha causato danni di lungo periodo all'ambiente e alle condizioni di vita delle popolazioni indigene e ai poveri delle campagne. Fra i più colpiti vi sono state le donne. Anche le popolazioni indigene hanno in grande misura resistito al colonialismo, ma sia il danno arrecato a loro, sia il ruolo dei loro movimenti di liberazione è raramente riconosciuto nelle storie ufficiali.

Noi abbiamo avuto alcuni benefici dal colonialismo, sotto forma di una educazione che era diretta a preparare amministratori. Nonostante tale limitato obiettivo, ciò ha messo in moto alcuni processi positivi. Ma tali benefici sono di gran lunga superati dai danni compiuti. Per esempio molti attuali conflitti come la guerra civile nello Sri Lanka, la tensione razziale in America e altri conflitti un po' ovunque hanno origine nel sistema coloniale. Coloro che lottano per una soluzione democratica ai loro problemi si rendono conto, anche, che l'eredità coloniale impedisce che le élites dei propri paesi condividano il potere con le masse. Inoltre il razzismo e il sessismo che sono intrinseci al colonialismo, continuano in molti paesi sotto varie forme: per esempio nella discriminazione contro i lavoratori stranieri che vengono costretti a lasciarsi dietro la propria famiglia.

2. Colonialismo e Globalizzazione

La globalizzazione è un processo che viene definito ed inteso in modi differenti. Possiamo definirla come trans-nazionalizzazione del capitale (con il capitale finanziario pericolosamente separato dal mondo reale e incamminato verso una autonoma auto-espansione), trans-nazionalizzazione della produzione, e standardizzazione e omogeneizzazione dei gusti dei consumatori. E' un processo facilitato e leggitimato dal fondo monetario internazionale (IMF), dalla Banca Mondiale (WB) e dalla organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO). In questo processo il principio organizzativo della produzione e della utilizzazione delle risorse di un paese è la massimalizzazione del profitto. La globalizzazione è integrazione nel sistema globale degli scambi. La creazione di valori di scambio diviene di primaria importanza lasciando in secondo piano la creazione di valori d'uso. Il desiderio, o per dirla brutalmente la brama, di pochi è più importante del tenore di vita e delle necessità dei molti. Coloro che non hanno titoli di scambio (danaro) sono legalmente esclusi dal mercato. La parola chiave è "mercato emergente" e "non nazioni emergenti" o "popoli in lotta"!

Sotto un tale regime, dal punto di vista logico e legale possono andare di pari passo crescente espansione della ricchezza e crescente esclusione sociale, crescita economica e disoccupazione, sempre maggiore progresso tecnologico e immiserimento. Non importa se la madre terra e il sistema di risorse per la vita sono deteriorati e violati. E' ormai il tempo di invocare che si ponga fine a questo danno ecologico, e che si smetta di trattare la natura come materia prima che deve essere sfruttata per progetti commerciali.

In breve, il potere delle risorse prevale sul potere dell'uomo. Armato di "accesso al mercato", di "trattamento nazionale" e di "clausole della nazione più favorita" (MFN), di diritti di proprietà intellettuale riferiti al commercio (TRIPS), di misure di investimento riferiti al commercio (TRIMS), dell'Accordo Generale sui Servizi Commerciali (GATS) e di vari altri accordi multilaterali sotto l'ombrello del WTO, il capitale ha legittimato la globalizzazione e la privatizzazione. In realtà questa e una ri-colonizzazione in piena regola, anche se la conquista non è più necessaria per imporre la sottrazione di capitali, come nel colonialismo classico.

La evidente ma dolorosa verità è che enormi risorse scorrono dai cosiddetti paesi in via di sviluppo verso il Nord (documentata nel rapporto sullo sviluppo umano del UNDP), sotto forma di termini di commercio sfavorevoli, di pagamento di "royalties", di fuga di cervelli, di interessi debitori e simili.

Persino economie come quelle dell'Asia Orientale, che ci sono state presentate come modelli, risentono dell'impatto dello scambio ineguale e del trasferimento speculativo di capitali che ne consegue. Le strutture di Bretton Woods poste in essere in età coloniale continuano fino a oggi. Nel nome del libero mercato esse hanno ricevuto nuovi nomi e nuove forme come "Organizzazione Mondiale del Commercio" e "Programma di Aggiustamento Strutturale". L'effetto serra dovuto alle emissioni di gas ha già interferito con il clima e con la stessa possibilità di sopravvivenza della natura. Ma invece di prendere provvedimenti per ridurre le emissioni, i paesi del Nord si aspettano che i paesi del Sud riducano ulteriormente le loro necessità vitali per permettere ai propri cittadini di godere stili di vita sproporzionatamente alti che continuano a pesare sulla vita dei poveri.

Questa situazione ha conseguenze negative sui lavoratori sia in settori formali che in settori informali, soprattutto sulle popolazioni indigene e sulle donne. I lavoratori del sud sono sottoposti a grave sfruttamento nei salari e a condizioni che non sarebbero accettate nel Nord. La globalizzazione inoltre va di pari passo con il colonialismo interno. Le élites del Sud e del Nord operano insieme per assicurare la sua continuazione. Le élites del Sud riproducono questo sistema trasferendo a se stesse sempre maggiori risorse sottratte ai popoli poveri, soprattutto quelli che dipendono dall'ecosistema.

Lo scandaloso allargarsi delle disuguaglianze nella ricchezza e nel reddito, la tremenda inquietudine sociale, l'ingiustizia, la povertà e la deprivazione che continuano nel mondo sono un affronto all'umanità, in considerazione degli enormi progressi che la scienza e la tecnologia hanno conseguito. Il linguaggio stesso di ogni discorso sullo sviluppo deve cambiare in un linguaggio nel quale il popolo occupi il posto centrale. Una chiesa che non combatte l'ingiustizia e la mancanza di equità non è dalla parte degli oppressi, degli emarginati e dei calpestati, e tradisce il messaggio di Cristo, il più grande anti-imperialista e il salvatore dei poveri.

3. La trappola del debito e l'impoverimento

E' logico, quindi, che dopo la indipendenza in molti paesi del Sud del mondo la situazione non sia migliorata. A motivo dei termini di scambio ineguali, molte nazioni del Sud sono oggi vittime del debito estero. In molti pesi dell'Africa il debito estero è maggiore del prodotto nazionale lordo. A motivo delle condizioni peggiorative del commercio e della svalutazione delle loro monete, essi si trovano di fronte a un paradosso di Fischer: un volta in debito, sempre in debito. Come passo per la riduzione del debito, ad essi sono imposti programmi di aggiustamento strutturale che impoveriscono ulteriormente il popolo. Per ripagare il debito queste nazioni sono costrette a tagliare i propri programmi sociali ed a trascurare la salute, l'alimentazione e l'educazione dei bambini. Inoltre questo sistema costringe a milioni la nostra gente ad emigrare per lavorare in altri paesi. E là essi sono sottoposti a maltrattamenti, compresi quelli sessuali, con poca o nessuna protezione da parte dei nostri governi.

Una piccolissima parte di ciò che ci è sottratto ci viene restituita sotto forma di aiuto, per lo più come debito di lungo periodo, e di solito con interessi. Ciò non fa altro che prolungare lo scambio ineguale. Molta della nostra gente vive in condizioni che non sono molto differenti dalla schiavitù. Milioni di nostri bambini sono privati della loro infanzia per guadagnarsi la sopravvivenza in luoghi di lavoro malsani e in condizioni che non possiamo che definire inumane. Decine di migliaia delle nostre donne e dei nostri bambini sono usati come oggetti di piacere dai turisti. Come nei tempi coloniali, anche oggi questo sistema viene perpetuato grazie alla collaborazione fra le élites del Nord e quelle dei nostri paesi.

Noi non abbiamo bisogno di aiuto: noi vogliamo giustizia. Vogliamo riparazione. Vogliamo la restituzione di ciò che ci è stato rubato. I pochi studi che abbiamo fatto bastano a mostrare che quanto i paesi colonizzatori ci devono supera di varie volte il nostro debito estero. In vari paesi, ad esempio il Sud Africa, il debito estero è di fatto denaro insanguinato preso a prestito per mantenere sistemi ingiusti come lo apartheid. In molti altri paesi era volto a sostenere dittatori che gestivano il proprio paese a vantaggio delle compagnie multinazionali. E ora le vittime di tali sistemi sarebbero costrette a ripagare questi debiti!

Cancellare tutto il debito estero sarebbe solo un piccolo gesto di riparazione. Ribadiamo che anche se questa cancellazione fosse incondizionata, sarebbe solo un piccolo gesto, inadeguato per le immense perdite che noi abbiamo subito durante gli ultimi secoli. Dobbiamo andare molto oltre e cambiare il sistema ingiusto che perpetua le disuguaglianze. Lo squilibrio dovrebbe essere raddrizzato e le strutture che lo perpetuano dovrebbero essere rettificate.

E' venuto il tempo che tutti noi ci riuniamo insieme per chiedere la riparazione e la restituzione di tutte le risorse che ci sono state sottratte. Oltre che per la nostra terra, le nostre risorse minerali e naturali, noi domandiamo riparazione per i salari disuguali con i quali la nostra gente è stata pagata, per i modi in cui le nostre culture sono state degradate e la nostra identità è stata colpita.

4. Politiche di globalizzazione

I processi economici introdotti dalla globalizzazione esigono enormi trasformazioni nel quadro politico di tutti i paesi e in particolare nei paesi del Terzo Mondo. Un punto centrale di questa trasformazione è il deterioramento dei meccanismi per la costruzione del consenso che esistono oggi nella società: i governi sono oggi pressati ad adottare processi decisionali veloci che permettano l'esecuzione di ciò che è in linea con gli scopi della globalizzazione. Gli stati inoltre sono incoraggiati a mantenere forme di segretezza relativamente agli accordi siglati con agenzie finanziarie e con società multinazionali. Decisioni importanti come la vendita di proprietà e di attività nazionali, la cessione di industrie, la costruzione di dighe che comportano lo spostamento di gran numero di persone, l'adozione di politiche che provocano massiccia disoccupazione ed aumento di prezzi, sono adottate con poca o nessuna informazione da parte della gente. Anzi, viene prodotta molta disinformazione per confondere la gente su questi argomenti. In effetti il processo di globalizzazione comporta una riduzione della democrazia e incoraggia le dittature di vario tipo

Questo processo, di riduzione della democrazia e dei processi di consultazione esistenti nella società, comporta necessariamente scontri violenti fra vari settori della popolazione e lo stato. I gruppi più vulnerabili sono i poveri e i giovani. Severe leggi di sicurezza nazionale sono emanate per dare facoltà ai funzionari dello stato di usare violenza contro la popolazione. In questo contesto viene messa in pericolo anche quella limitata cultura democratica che si era instaurata in lunghi anni di lotta. Lo stato di diritto viene perduto in favore di un'ideologia che insiste sul mantenimento dell'ordine anche al di fuori della legge. I diritti umani in questo contesto sono ridotti a qualcosa che riguarda solo le più gravi forme di violazione, mentre all'interno della società permane una situazione di ordinaria violenza.

E' essenziale, se si vuole combattere la globalizzazione, superare questa cultura politica che da essa si genera. Pertanto tutti coloro che sono interessati a lottare contro la globalizzazione dovrebbero rendersi conto anche della necessità di lottare contro le leggi di sicurezza nazionale per restaurare la democrazia e il primato della legge sulla base di norme e di standard internazionali indicati dai diritti umani delle Nazioni Unite.

Il processo di globalizzazione logora lo stato stesso aprendo la strada a società multinazionali che operano autonomamente dall'autorità dello stato. Lo stato è spinto a rinunciare alla propria funzione di garantire equità, giustizia sociale e sicurezza per la gente. Lo stato viene rafforzato solo nelle sue funzioni repressive, e cioè nell'adottare violente misure per controllare il popolo che potrebbe opporsi alle politiche connesse alla globalizzazione.

Una cultura politica di partecipazione è un prerequisito importante per la democrazia. Le attuali forme di rappresentanza che si riducono unicamente ad elezioni periodiche non garantiscono la democrazia partecipativa. Occorre che siano sviluppate e che ricevano riconoscimento costituzionale nuove forme di partecipazione che includano la partecipazione rurale e locale. L'autonomia regionale dovrebbe essere rafforzata al fine di far crescere la partecipazione della gente nelle decisioni, ed ottenere maggiore trasparenza. Buon governo non dovrebbe significare unicamente quella democrazia formale di tipo limitato che esiste ora. L'amministrazione dovrebbe essere aperta, ed in continua consultazione con la gente. Gli interessi dei poveri, delle minoranze e delle popolazioni indigene dovrebbero essere espressamente difesi, garantendo loro maggiori opportunità di partecipazione effettiva. Si dovrebbe potenziare la partecipazione delle donne rendendola effettivamente reale, ad esempio adottando provvedimenti affinché esse abbiano il 50% di opportunità in tutte le assemblee nazionali e locali, nei governi locali, nell'amministrazione e nella magistratura. Per rendere reale la partecipazione, occorre fornire speciali opportunità agli strati sociali più bassi, garantendo loro una istruzione completa ed altri strumenti che permettano loro di raggiungere livelli di responsabilità.

5. Giubileo, pentimento e restituzione

Come cristiani, noi crediamo che il Giubileo del 2000, ed oltre, dovrebbe essere inteso nel senso biblico di restituzione delle proprietà rubate, liberazione degli schiavi e cancellazione dei debiti. Noi facciamo appello ai leaders delle nostre chiese affinché prendano l'iniziativa di proclamare una stagione di pentimento e di restituzione. Vogliamo inoltre che essi facciano si che i capi dei paesi ricchi, particolarmente quelli che si proclamano cristiani, riconoscano il proprio ruolo nel peccato del colonialismo. La teologia patriarcale basata sul potere regale di Dio è stata utilizzata dai conquistatori come legittimazione dell'oppressione. Nella teologia morale è richiesta la restituzione della proprietà rubata dai singoli; ma noi non abbiamo ancora riconosciuto l'immenso danno compiuto per mezzo della pirateria e del colonialismo internazionale che ha provocato l'impoverimento, il massacro e la riduzione in schiavitù di milioni di persone fra la nostra gente.

Noi pertanto riconosciamo che il nome di Gesù, simbolo di libertà, è stato contaminato da coloro che lo hanno usato per perpetrare i peccati del colonialismo e della schiavitù e che hanno derubato i nostri paesi. Le chiese cristiane istituzionali sono state usate come una legittimazione del colonialismo. Gesù il Servo è stato presentato unicamente come un re potente. Gli stati colonizzatori hanno usato questa teologia per i propri scopi. La dottrina secondo cui la salvezza dipende unicamente dal battesimo è stata usata dai conquistatori come una giustificazione per soggiogare milioni di persone, con la scusa di salvare loro l'anima. Anche le conquiste sono state presentate come crociate, cioè come vittorie di Cristo Re sulle altre religioni.

Noi ammettiamo di non essere stati sufficientemente profetici contro il peccato sociale e strutturale del colonialismo. Riconosciamo però che molti individui e movimenti popolari hanno svolto il ruolo profetico che la loro fede in Gesù e il loro impegno per gli uomini loro fratelli domandava loro: gran parte di essi hanno pagato un caro prezzo per essersi opposti all'ingiustizia. Sebbene la nostra teologia abbia aiutato i colonialisti, le chiese hanno svolto anche un ruolo positivo. In molti casi il lavoro missionario fra le popolazioni più disprezzate, come i Dalits, è stato percepito da loro come una proclamazione di uguaglianza. Molte scuole sono state aperte per la élite, al fine di aiutarla ad entrare nell'amministrazione coloniale. In questo senso i missionari hanno aiutato i colonizzati ad interiorizzare la ideologia coloniale. Ma le chiese hanno anche aperto molte scuole per le donne: la subordinazione basata sul genere non è stata posta in discussione ma essi hanno posto le fondamenta del successiva consapevolezza che molte donne hanno maturato a proposito della propria uguaglianza. Allo stesso modo, sulla base di considerazioni pastorali, sono state istituite molte scuole per i nuovi convertiti provenienti dalle classi oppresse. Anche esse non hanno messo direttamente in questione le disuguaglianza sociali. Il sistema delle caste è continuato persino fra i cristiani. Ma queste iniziative hanno reso possibile che in seguito molti convertiti in seguito mettessero in questione il loro stato di inferiorità.

Nel momento in cui riconosciamo questi punti positivi non possiamo dimenticare il loro impatto negativo. Ci rendiamo conto che noi siamo parte del peccato del colonialismo. Noi pertanto chiediamo ai nostri leaders di chiedere perdono alla nostra gente per la teologia che ha reso possibile la legittimazione del colonialismo. Le nostre chiese dovrebbero chiedere che le nazioni e le imprese ricche restituiscano ciò che hanno rubato dai nostri paesi e che paghino una riparazione. Mentre invitiamo i nostri leaders a prendere tali iniziative, noi ci impegniamo a unirci ad essi nel chiedere perdono alla nostra gente per il peccato del colonialismo. Noi lavoreremo insieme per un mondo in cui mai più verranno ricreate tali ingiuste strutture.

Come Papa Giovanni Paolo II afferma con rammarico nella sua lettera apostolica "Tertio Millennio Adveniente" del novembre 1994: "Un altro doloroso capitolo della storia al quale i figli e le figlie della chiesa devono tornare con spirito di pentimento è quello della acquiescenza mostrata, specialmente in certi secoli, verso l'intolleranza e persino verso l'uso della violenza a servizio della verità. E' vero che un accurato giudizio storico non può prescindere da un attento studio delle condizioni culturali del tempo, dal quale potrebbe risultare che molta gente ha in buona fede ritenuto che un'autentica testimonianza alla verità poteva includere la repressione delle opinioni altrui o quanto meno il non prestarvi ascolto. Molti fattori spesso hanno contribuito insieme a creare convinzioni che giustificarono l'intolleranza e alimentarono un clima emozionale dal quale solo grandi spiriti veramente liberi e imbevuti di Dio furono in qualche misura capaci di liberarsi" (n. 35).

Noi abbiamo riflettuto sulla teologia e sulla spiritualità della chiesa che per molti secoli del secondo millennio del cristianesimo, dall'anno 1000 fino a decenni recenti, hanno giustificato l'intolleranza e la violenza verso gli altri . Le basi teologiche di questo erroneo atteggiamento delle chiese sono state esaminate più profondamente per correggere noi stessi e per avere un atteggiamento più cristiano verso le altre fedi, le culture differenti, le donne e i diritti di tutti i popoli alla libertà, alla dignità umana e a mezzi adeguati per una vita dignitosa umana, fisica e culturale.

Le interpretazioni tradizionali della condizione umana, la caduta, la salvezza e la missione della chiesa, hanno dato alla chiesa un senso di giustificazione nel pretendere di avere il monopolio della verità e di essere l'unico, il necessario e il solo mezzo di salvezza. Tali idee sono state utilizzate dai leaders della chiesa e dai popoli occidentali per giustificare la loro pretesa al diritto di invadere e conquistare altri popoli, occupare i loro territori e distruggere la loro religione "pagana".

La teologia cristiana ha inteso la missione della chiesa come la salvezza degli "infedeli" ottenuta convertendoli alla chiesa perfino con l'aiuto dei conquistatori coloniali. Così per molti secoli la teologia (sia dogmatica che morale), la spiritualità, la missiologia e il diritto canonico della chiesa hanno costituito un potente sostegno ideologico per le imprese coloniali dell'Occidente. Le interpretazioni della cristologia, della ecclesiologia e della missiologia sono state in genere tali da sostenere il colonialismo.

Nei paesi colonizzati i leaders cristiani, specialmente il clero, sono stati formati in conformità a questa teologia e metodologia fondamentalmente occidentali. Essi spesso hanno contribuito a interiorizzare e perpetuare tale impianto dei cristiani e delle chiese dai tempi coloniali ad oggi.

Affinché i cristiani e le chiese siano veri e credibili discepoli di Gesù Cristo, noi abbiamo bisogno oggi di ripensare profondamente le teologie dominanti, dando loro diversità di espressione, diversa spiritualità e apertura ai diritti umani. Il messaggio di Gesù presenta Dio come amore, la creazione come un bene, e la terra con le sue risorse come destinata a tutti gli esseri umani. La salvezza consiste nelle giuste relazioni che comportano amore, giustizia, libertà e uguale dignità umana per tutti. "Venga il tuo regno sulla terra come nei cieli". Possano tutti avere il loro pane quotidiano e possa esservi genuino perdono reciproco come Gesù ci ha insegnato a pregare.

In un mondo di crescente ingiusta globalizzazione noi dobbiamo ripensare accuratamente la nostra teologia, il nostro modo di intendere la missione e i nostri rapporti con tutti gli altri, al fine di realizzare questo obiettivo. Se noi non faremo questo urgentemente, effettivamente e globalmente, noi cristiani rischiamo di trovarci ancora una volta sostanzialmente dalla parte degli oppressori e non dalla parte della giustizia che Dio in Gesù ha promesso e vuole.

Il Giubileo è l'occasione per noi di proclamare una stagione di pentimento, di restituzione, e di guarigione di un mondo peccatore. I preparativi per il Giubileo sono in pieno svolgimento in quest'anno nel quale si contano i 500 anni dall'inizio del colonialismo moderno nei nostri continenti. Un Giubileo ha poco senso per noi se non viene riconosciuto lo stato di peccato, di ingiustizia e di povertà strutturale che sono connaturati alle nostre società coloniali, e se non si fanno sforzi per cambiare il sistema. L'umanità distrutta dei nostri popoli deve essere ripristinata. All'immenso danno fatto alle nostre ricchezze naturali e ai mezzi della nostra sussistenza si deve porre fine. L'attuale distribuzione della terra fra gli stati, che è basata principalmente sul passato coloniale, deve essere corretta. Ai popoli impoveriti dal colonialismo si deve offrire l'opportunità di emigrare in modo pianificato verso terre che possono ricevere più popolazione. Noi invitiamo con forza i nostri leaders a rinnovare l'appello di Pio XII che la gente senza terra ha diritto alla terra senza gente.

Le chiese dovrebbero svolgere un ruolo profetico nel proclamare questo Giubileo, nel riconoscere la nostra parte in questo peccato e nell'esigere che i paesi ricchi dell'Europa e del Nord America restituiscano all'Africa, all'Asia e ai popoli indigeni dell'America Latina e dell'Australia ciò che hanno rubato loro. Le chiese inoltre hanno il dovere di offrire riparazione ai nostri popoli per la parte che abbiamo svolto nella degradazione delle nostre culture e per l'atteggiamento negativo verso le altre religioni.

Cominciare col chiedere perdono, sarebbe mantenersi nella tradizione delle nostre chiese. La storia degli ultimi decenni mostra che i recenti romani pontefici hanno chiesto perdono in almeno 95 differenti occasioni per peccati come l'ingiustizia verso le donne, la schiavitù, gli ebrei, ecc. Il Consiglio Mondiale delle Chiese ha preso analoghe iniziative in varie occasioni. Riconoscere il colonialismo come un peccato e chiedere perdono per la parte che abbiamo avuto in esso sarà un ulteriore importante passo nel proclamare il pentimento e la libertà per la quale Gesù è venuto in questo mondo.

6. Il compito davanti a noi.

a) Il nostro compito principale è di lavorare per porre fine al presente mondo ingiusto. Noi ci impegniamo a unirci a tutte le vittime dell'oppressione nel Nord e nel Sud per perseguire questo scopo. Noi coordineremo le nostre azioni con i movimenti dei popoli e con le organizzazioni esistenti che possano dare qualche speranza di un mondo nuovo per la gente che sperimenta oppressione e ingiustizia.

b) Noi compiremo seri studi sui danni che i vari paesi nei nostri continenti hanno subìto. Dopo aver valutato i danni sofferti, noi presenteremo le nostre conclusioni ai nostri governi e a varie organizzazioni internazionali e a gruppi di diritti umani nel Sud e nel Nord del mondo, allo scopo di mobilitare l'opinione pubblica in favore della restituzione.

c) Nei prossimi due anni noi ci focalizzeremo soprattutto sulla cancellazione del debito estero dei paesi colonizzati, intesa come primo passo della restituzione. Ma teniamo ben fermo nella nostra mente l'obiettivo di lungo termine che è quello di cambiare le strutture che perpetuano l'ingiustizia.

d) Chiediamo che sia posta fine alla speculazione incontrollata del capitale finanziario e che sia stabilito un codice di condotta per le multinazionali.

e) Noi sosteniamo il principio della tassa Tobin, cioè il suggerimento di imporre una tassa dello 0,5% su ogni speculazione finanziaria trans-nazionale. La sua estensione è oggi di circa 600 miliardi di dollari. Questa tassa dunque produrrebbe circa 3 miliardi di dollari, che è circa il 60% del prodotto nazionale lordo di tutti i paesi del Sud del mondo. Questa somma può essere usata per cancellare il debito estero, per compensare le antiche colonie dei danni che hanno subito, e per investimenti in tali paesi, soprattutto in campo sociale. Questa tassa può anche ridurre i trasferimenti speculativi di capitali che hanno provocato crisi come quella recente in Asia Orientale.

7. Sfide alle Chiese

Tutte le nostre chiese devono giocare un ruolo nel loro ambito specifico. Oggi le vittime del colonialismo stanno portando la croce dell'oppressione, dell'impoverimento e della miseria. La croce di Gesù fu un segno di speranza. Con la sua vita, morte e risurrezione egli ha proclamato una vita nuova ed abbondante. Perché questa speranza di vita nuova diventi reale per le vittime del colonialismo, tutte le chiese devono riunirsi e svolgere il ruolo profetico di chiamare il mondo a pentirsi del suo stato di peccato. Esse possono unirsi a tutti gli uomini di buona volontà per creare una pubblica opinione in contrasto con questo mondo peccatore. Nel nome di Gesù, che è venuto per fare nuove tutte le cose, esse possono proclamare che noi lavoriamo per un nuovo mondo basato sulla giustizia. Noi vogliamo unirci ai nostri leaders, agli altri individui ed alle altre organizzazioni che si sforzano di portare speranza a coloro che sono privati dei loro basilari diritti umani e che rischiano di cadere nella disperazione.

In questo impegno noi siamo animati da Gesù, che fu inviato a predicare la buona novella ai poveri, a proclamare la liberazione dei prigionieri e a dare la vista ai ciechi. Come un passo verso il mondo nuovo, in cooperazione con tutti i popoli, e con tutti gli individui seguaci di differenti religioni che sono coinvolti nella lotta dei popoli:

a) noi cercheremo di sviluppare una teologia ed una spiritualità della liberazione che possa apportare un senso di speranza alla nostra gente che porta la croce della sofferenza, dell'impoverimento e dell'oppressione. Mentre noi traiamo la nostra ispirazione da Gesù, che venne a fare nuovo il mondo, noi ci uniremo a coloro che traggono ispirazione dagli elementi liberatori delle proprie religioni, specialmente dalla religiosità popolare degli oppressi. Noi auspichiamo con forza che i programmi educativi e formativi delle chiese siano aggiornati per venire incontro a tali necessità.

b) In questo sforzo noi chiederemo alle nostre chiese che la solidarietà ed il carattere universale che è connaturato ad esse siano resi effettivi nei rapporti fra i popoli e fra le nazioni. Noi dobbiamo probabilmente guardare con occhio nuovo a molti nostri investimenti, per assicurarci che il nostro denaro non sia investito in industrie che agiscono contro la gente, che sostengono la militarizzazione ovvero, in un modo o nell'altro, il sessismo e il razzismo; oppure che distruggono l'ambiente che è la fonte di sopravvivenza dei popoli indigeni.

c) Noi identificheremo le reti già attive nell'impegno di lottare per un mondo nuovo basato sulla giustizia e sulla eguaglianza di popoli e nazioni. In questa lotta noi ci uniremo agli altri gruppi e movimenti: di ispirazione religiosa, di lavoratori, e di altro tipo. Una priorità sarà riconosciuta ai gruppi oppressi che stanno ora cercando di liberarsi da un presente stato di oppressione e di immiserimento. Un'altra priorità sarà quella di prevenire ulteriore degrado umano ed ecologico.

d) Noi invieremo questa Dichiarazione, con una lettera di accompagnamento, a:

1- il Sinodo dei Vescovi dell'Asia ora riunito a Roma

2- l'Assemblea Generale del Consiglio Mondiale delle Chiese 1998

3- la Conferenza di Lambeth della Chiesa Anglicana 1998

4- la Federazione Mondiale Luterana

5- la Conferenza Metodista Mondiale

6- la Conferenza delle Organizzazioni Cattoliche Internazionali

7- Università e Centri di Ricerca

8- Seminari e Istituti di Formazione Cristiani

e) Noi iniziamo due campagne di raccolte di firme:

1- Per la Riparazione ai Popoli colonizzati, che saranno inviate alle nazioni Unite e ai Governi del mondo

2- Per i Diritti dei Lavoratori Emigrati, che saranno inviate ai Governi a ad altre importanti organizzazioni

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Firmatari:

prof Ramathate Dolamo, Sud Africa

Prof Jude Julius Ongonga, Nairobi, Kenya

Sig.a Lilian Chirairo, Harare, Zimbabwe

P. Brian MacGarry SJ, Harare, Zimbawe

P. Joseph, Komakoma, Lusaka, Zambia

Prof M.A. Oommen, New Delhi, India

Dr. Felix N. Sugirtharaj, Chennai, India

P. (Dr.) Walter Fernadez SJ, New Delhi, India

P. Emmanuel Asi, Pakistan

Sig.a Afshan Irum, Pakistan

Basil Fernado, Hong Kong

Sanjeewa Liyanage, Hong Kong

Rev. Djoko Priyatno, Indonesia

Rev. Elisabeth s.Tapia , Filippine

P. Tissa Balasuriya OMI, Sri Lanka

P. Oswald B. Firth OMI, Sri Lanka

Sr. Marlene Pereira FMM

Sig.a Kanthi Shirani de Silva, Sri Lanka

Dr. Shirey Lal Wiyesinghe, Sri Lanka

Aloysius Devasagayam, Sri Lanka

Stefan Gigacz, Belgio

Don Wedd, Chicago, USA

Gerd Wild, Eschborn, Germania

Per favore diffondete questo messaggio dal Sud del mondo: una voce a favore degli oppressi negli ultimi 500 anni.

 

 

APPROFONDIMENTO

 

 

CARESTIA? NO, GLOBALIZZAZIONE COL TRUCCO

Benedetto XVI: “La fame e la malnutrizione sono inaccettabili”, ha detto il Papa al vertice Fao, “in un mondo che dispone di livelli di produzione, di risorse e di conoscenze sufficienti”. .... In altre parole, la crisi alimentare mondiale è in gran parte un problema nostro che si scarica… dove può, comunque sugli altri. Qualche esempio? Nel 2001 i produttori americani di cotone ottennero dal loro Governo sussidi per 3,6 miliardi di dollari, pari a 3 volte gli aiuti Usa all’intera Africa. Forti di quel “minimo garantito”, i cotonieri americani aumentarono le esportazioni, facendo cadere il prezzo mondiale del cotone del 25% e mettendo sul lastrico una parte degli 11 milioni di africani che appunto vivevano della coltura del cotone. Nello stesso periodo i sussidi governativi erano pari al 48% del valore di tutta la produzione agricola negli Usa e al 46% in Europa. Nel 2006, secondo l’ong inglese Oxfam, i Paesi sviluppati hanno regalato ai loro contadini sussidi per 125 miliardi di dollari, contro solo 4 miliardi di aiuti offerti all’agricoltura dei Paesi in via di sviluppo. Come usare il cannone contro un avversario che dispone sì e no di un bastone.

 

Il «neocolonialismo» della globalizzazione

«L’Africa, continente assai ricco di materie prime, soffre pesantemente la fame e il sottosviluppo, mentre le sue risorse rimangono in mano a ristrette élite nazionali in accordo con società multinazionali: la longa manus degli ex stati colonizzatori permane attraverso lo sfruttamento economico e mediante convenienti concessioni territoriali».

 

La legge del più forte nell'epoca

della globalizzazione

 
Quante volte avete sentito dire in televisione o nei media ufficiali che la globalizzazione porta benessere in tutto il mondo, anche nei Paesi meno fortunati, e che perciò va difesa a tutti i costi? La globalizzazione è come una nuova religione e, chiunque la contesti, è un eretico che va messo al rogo. Ma se l'Occidente vive in questa specie di "delirio morale", l'Africa ed altri Paesi del Terzo Mondo muoiono letteralmente dinanzi ai nostri occhi senza che neppure lo veniamo a sapere. Troppo spesso, infatti, quando si parla di globalizzazione si dimentica cosa essa significhi in realtà e quale sia il suo lato più perverso. Ed è questo che proviamo oggi a raccontarvi.