WALL STREET E LA
CITY DI LONDRA
I VERI AVVOLTOI DEL PANTANO AFGHANO
Come bestie immonde esse vivono sui morti e sulla sofferenza altrui, poiché hanno
fatto della droga afgana una parte importante del sistema finanziario occidentale,
ma di questo naturalmente nessuna tv o giornale ne parlerà mai!
(a cura di Claudio Prandini)
INTRODUZIONE
L'AFGHANISTAN E IL FANTASMA DEL VIETNAM
(di Claudio Prandini)
Vogliamo ritornare sul caso Afghanistan perché ci sembra importante riportare il dossier che Peace Reporter ha fatto dopo la morte dei nostri soldati. Per quanto ci riguarda non ci resta che ripetere quello che già abbiamo detto al riguardo e cioè che ci sono due cose da considerare nella tragedia afghana: i soldi che provengono dalla produzione del papavero da oppio che si trasforma poi in droga e le donazioni che provengono dai paesi del Golfo. Del primo si deve dire che ormai è diventato un affare a livello internazionale, tanto che il direttore del programma antidroga dell'ONU, il dott. Antonio Costa, ha più volte dichiarato che il flusso dei proventi della droga afghana oggi costituisce una parte irrinunciabile del sistema finanziario mondiale, specialmente dopo lo scoppio della crisi finanziaria e dell'esaurirsi dei flussi di liquidità interbancari. Come dire: della droga "talebana" il sistema finanziario occidentale non può più farne a meno. Ci sono troppi milioni (se non miliardi) di dollari in ballo. Wall Street e la City di Londra hanno tutti gli interessi che il pantano afghano rimanga ancora tale per molto tempo ancora. Loro, come bestie immonde, vivono sui morti e sulla sofferenza altrui!
Volete un esempio di cosa può diventare il mondo finanziario? Eccolo qui!
Ma è soprattutto il petrolio dei paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa, a finanziare i talebani. Ecco perché i nostri ragazzi devono tornare a casa il più presto possibile. Questa è una guerra sporca dove miliardi di dollari, provenienti dai proventi del petrolio, finiscono in Afghanistan in mano ai talebani. Noi occidentali paghiamo il petrolio ai paesi del golfo i quali, a loro volta, fanno delle sostanziose "donazioni" (li hanno adottati da tempo...) ai talebani in Afghanistan e Pakistan. Così siamo noi occidentali, in sostanza, a pagare gli esplosivi per uccidere i nostri soldati. Nel frattempo però non possiamo neanche brontolare con i paesi finanziatori perché sono loro, con il loro petrolio, a mantenere il nostro ormai striminzito benessere.
Questa è la chiusura del cerchio dell'ipocrisia e della stupidità dell'occidente, che pur di seguire chissà quali mire strategiche (la balla del terrorismo fa ormai ridere i polli) si è ficcato in un circolo vizioso da cui sarà difficile uscirne. E mentre il fantasma del Vietnam diventa sempre più concreto i nostri ragazzi continueranno a morire per un paese dove la democrazia non ci sarà mai, perché la democrazia è prima di tutto una "cultura" che non si esporta con bombe e soldati. Karzai, l'attuale presunto presidente dell'Afghanistan (messo lì da Bush e che comanda si e no solo a Kabul), non è un democratico secondo i canoni occidentali tanto è vero che è accusato di brogli nelle ultime elezioni, con tanto di video come prova. Ecco perché bisogna dire: BASTA E' ORA DI TORNARE A CASA!
full metal jacket - preghiera del soldato
"Missione di pace in Afghanistan?
Si finge solo in Italia: È sempre stata guerra"
Per cosa sono morti?
Per difendere la pace, la libertà, la democrazia in Afghanistan e la sicurezza internazionale come dicono i nostri politici?
Era partito per fare la
guerra, per dare il suo aiuto alla sua terra. Gli avevano dato le mostrine e le
stelle e il consiglio di vender cara la pelle. (...) Ora che è morto la patria
si gloria d'un altro eroe alla memoria. Ma lei che lo amava, aspettava il
ritorno d'un soldato vivo. D'un eroe morto che ne farà se accanto, nel letto, le
è rimasta la gloria d'una medaglia alla memoria.
(Fabrizio De André, La ballata dell'eroe)
L'Italia piange i suoi soldati morti a Kabul in un attentato della guerriglia talebana. Peacereporter dedica loro, e alle loro famiglie, questi versi di Fabrizio De Andrè.
Per cosa sono morti?
Per difendere la pace, la libertà, la democrazia in Afghanistan e la sicurezza
internazionale come dicono i nostri politici? No.
Non per la pace, perché i nostri soldati in Afghanistan stanno facendo la
guerra.
Non per la libertà, perché i nostri soldati stanno occupando quel paese.
Non per la democrazia, perché i nostri soldati proteggono un governo-fantoccio
che non ha nulla di democratico.
Non per la sicurezza internazionale, perché i nostri soldati stanno combattendo
contro gli afgani, non contro il terrorismo islamico internazionale: a questo,
semmai, stanno fornendo un pretesto per odiare e attaccare l'Occidente e anche
il nostro paese.
E allora per cosa sono morti?
La risposta l'ha data il generale Fabio Mini, ex comandante del contingente Nato
in Kosovo, intervenendo la scorsa settimana a un dibattito sull'Afghanistan
tenutosi a Firenze e organizzato da Peacereporter:
"Ufficialmente lo scopo fondamentale, il center of gravity, della missione non è
la ricostruzione, o la pacificazione né la democrazia: è la salvaguardia della
coesione della Nato in un momento di crisi della stessa. Questo è lo scopo
dichiarato, scritto nei documenti ufficiali della missione Isaf. La Nato è in
Afghanistan esclusivamente per dimostrare che è coesa: lo scopo è essere
insieme. Ecco perché gli Stati Uniti chiedono soldati in più: ma pensate davvero
che manchino loro le forze per far da soli? Credete davvero che i nostri soldati
o i lituani siano importanti? No! L'importante è che nessuno si sottragga a un
impegno Nato. Ecco perché vengono chiesti continuamente uomini agli alleati".
"Agli infami, vigliacchi aggressori che hanno colpito ancora nella maniera più
subdola diciamo con convinzione che non ci fermeremo", avverte il ministro della
Difesa, Ignazio La Russa.
E' stravagante definire ‘vigliacchi' uomini che sacrificano la propria vita per
uccidere il nemico. Forse questo giudizio andrebbe riservato ai piloti alleati
che da mille piedi di altitudine sganciano bombe che fanno strage di talebani e
civili, sapendo di non poter essere né visti né colpiti.
Anche chiamare ‘aggressori' i guerriglieri talebani che colpiscono le truppe
d'occupazione Nato è curioso. Siamo noi che abbiamo aggredito loro invadendo il
loro Paese.
"Non ci fermeremo", conclude La Russa in tono bellicoso. Altri soldati italiani
dovranno quindi sacrificare le loro vite e stroncare quelle di altri afgani,
combattenti e non. Da maggio, per la cronaca, le truppe italiane hanno
"neutralizzato" almeno cinquecento "nemici" nelle battaglie combattute
nell'ovest dell'Afghanistan con il massiccio impiego di carri cingolati ed
elicotteri da combattimento. E presto, come annunciato, anche con le bombe
sganciate dai nostri Tornado.
Secondo il ministro degli Esteri, Franco Frattini, bisogna "conquistare il cuore
degli afgani per fare terra bruciata di ogni complicità e omertà verso i
terroristi".
Ma finché l'occupazione e la guerra continueranno, con le stragi di civili, i
rastrellamenti, la distruzione dei villaggi, la terra bruciata si allargherà
attorno ai nostri soldati e la guerriglia afgana diventerà sempre più popolare.
La rabbia e il dolore di chi, a causa delle truppe occidentali, perde un
familiare, la casa, una parte del corpo o semplicemente la libertà e la dignità,
non fanno che portare acqua al mulino del "nemico". Un nemico che, infatti, più
la guerra va avanti, più si rafforza e guadagna consensi.
Afghanistan - Tra guerra e pace - 1
Afghanistan, una guerra
costosa e rischiosa
I costi umani ed economici di questa guerra, la ricostruzione che non c'è, il crescente coinvolgimento delle truppe italiane
La
guerra in Afghanistan, quella iniziata il 7 ottobre 2001, ha provocato la morte
di 21 soldati italiani, 1.400 soldati alleati, 6 mila soldati e poliziotti
afgani, circa 25 mila guerriglieri talebani e quasi 11 mila civili afgani (di
cui oltre 3 mila vittima degli attacchi talebani e almeno 7 mila uccisi dalle
truppe alleate - più di 3 mila civili morirono nei soli bombardamenti aerei del
2001-2002). In totale, quindi, almeno 43 mila vite umane sono state stroncate in
otto anni di guerra.
La spedizione militare in Afghanistan è costata finora ai contribuenti italiani
oltre due miliardi e mezzo di euro. All'inizio la missione aveva un costo annuo
medio di circa 300 milioni di euro, ma oggi - con il progressivo invio di più
uomini e mezzi - supera ampiamente il mezzo miliardo (il che significa quasi un
milione e mezzo di euro al giorno).
Per la tanto propagandata ricostruzione dell'Afghanistan, l'Italia ha speso
finora circa 40 milioni di euro.
Distruggere o ricostruire?
Queste cifre, che su scala maggiore sono le stesse per gli Stati Uniti e gli
altri alleati, sono il frutto della strategia adottata dalla Nato in
Afghanistan, soprattutto negli ultimi anni. Nel dicembre 2007 il capo del
Pentagono, Robert Gates, dichiarò che in Afghanistan “la Nato deve spostare la
sua attenzione dall’obiettivo primario della ricostruzione a quello di condurre
una classica controinsurrezione”. E così è stato. Si è deciso che prima
bisognava vincere la guerra e sconfiggere i talebani, e solo poi ricostruire il
paese. “Come nella seconda guerra mondiale – spiegava recentemente nel dibattito
di Firenze l’analista militare Gianandrea Gaiani – prima si sconfissero i
nazisti, poi si ricostruì l’Europa con il piano Marshall”.
“Io non condivido questa sequenza, prima la sicurezza e poi ricostruzione”, gli
aveva ribattuto il generale Fabio Mini, ex comandante delle truppe Nato in
Kosovo. “Oggi la sicurezza in Afghanistan non è assicurata da nessuno, tanto
meno dalle forze militari straniere. Controllare il territorio significa avere
il consenso della gente. Noi non potremo mai avere sicurezza fino a quando non
sarà garantita la sopravvivenza agli afgani. C’è bisogno di ricostruire
l’Afghanistan, anzi, di lasciarlo costruire a chi ha le forze: ai civili.
Lasciamo perdere i militari”.
I rischi per i soldati.
Fino a tre anni fa le truppe italiane schierate in Afghanistan erano concentrate
a Kabul, dove la situazione era ancora molto tranquilla, e non svolgevano azioni
di combattimento - se si escludono le forze speciali della Task Force 45
impegnate nell'operazione segreta ‘Sarissa'.
Dall'estate del 2006, con spostamento del contingente stato nelle regioni più
‘calde' dell'ovest, sono iniziati i primi scontri con i guerriglieri talebani,
ufficialmente solo ‘difensivi'. Dal gennaio 2009 le truppe italiane, mutate
nella loro composizione (non più alpini e bersaglieri ma solo parà della
Folgore), cresciute di numero (quasi 3 mila) e dotate di mezzi più aggressivi
(carri armati ed elicotteri da combattimenti), hanno ufficialmente iniziato le
azioni ‘offensive' penetrando in zone controllate dai talebani (Farah e Badghis).
Da allora i soldati italiani sono quotidianamente impegnati in azioni di
combattimento e in vere e proprie battaglie nelle quali hanno ucciso centinaia
di guerriglieri.
Anche le truppe rimaste a presidiare Kabul, ormai accerchiata e infiltrata dai
talebani, si sono trovate esposte a imboscate e attacchi, sia fuori che dentro
la capitale.
Afghanistan - Tra guerra e pace - 2
Cosa si nasconde dietro la
guerra in Afghanistan?
Le miniere d'uranio? Il gasdotto trans-afgano? Il posizionamento geostrategico? O forse il controllo del narcotraffico?
Perché, esattamente otto anni fa, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno invaso e occupato l'Afghanistan? Quali interessi si celano dietro le spiegazioni ufficiali di questa guerra? Le ipotesi avanzate in questi anni sono molteplici, ma nessuna abbastanza convincente. Tranne una, che però è alquanto difficile da dimostrare.
Risorse
energetiche. Secondo un rapporto pubblicato nel dicembre del 2000 sul
sito Internet dell'Eia, l'agenzia di statistica del dipartimento per l'Energia
degli Stati Uniti (e poi rimosso), l'Afghanistan viene presentato come un paese
con scarse risorse energetiche (mai sfruttate) che, secondo i dati risalenti
ancora al tempo dell'occupazione sovietica, consistono in riserve petrolifere
per 95 milioni di barili (concentrati nella zona di Herat), giacimenti di gas
naturale per 5 trilioni di piedi cubi (nell'area di Shebergan) più 400 milioni
di tonnellate di carbone (tra Herat e il Badakshan).
Risorse troppo esigue per giustificare un'invasione militare costata finora, ai
soli Stati Uniti, quasi 230 miliardi di dollari.
Molti in Afghanistan parlano di giacimenti di uranio nel deserto della provincia
meridionale di Helmand, il cui controllo e sfruttamento sarebbe al centro di
un'aspra contesa tra forze britanniche e statunitensi. Ma per ora questa storia
non avuto alcuna conferma.
La
pipeline Trans-Afgana. Questa è considerata da molti la vera
motivazione che ha spinto gli Stati Uniti ad invadere l'Afghanistan nel 2001.
Il progetto di costruire una condotta lunga 1.680 chilometri per portare il gas
turkmeno di Dauletabad fino in Pakistan attraverso l'Afghanistan occidentale (Herat
e Kandahar) viene avviato nel 1996 dalla compagnia petrolifera statunitense
Unocal (per la quale lavoravano sia Hamid Karzai che Zalmay Khalizad) in
cooperazione con il regime talebano (nel 1996 la Unocal apre una sede a Kandahar
e l'anno dopo esponenti del governo talebano vengono ricevuti negli Usa).
L'idea viene accantonata alla fine degli anni '90 in attesa che "la situazione
politica e militare dell'Afghanistan migliori" (fonte Eia, dicembre 2000). Vista
l'impraticabilità del corridoio sud-asiatico, l'Occidente decide di puntare su
quello sud-caucasico, aprendo nel 2006 un gasdotto che porta il gas turkmeno in
Turchia via Mar Caspio, Azerbaigian e Georgia (e che dal 2015 verrà collegato al
gasdotto Nabucco).
Il progetto della pipeline trans-afgana, però, non viene abbandonato. I tre
paesi coinvolti riprendono a discuterne dal 2002 in poi, e nell'aprile 2008
firmano un accordo, anche con l'India, che prevede l'apertura del gasdotto entro
il 2018 (previsione eccessivamente ottimistica secondo gli analisti di settore).
A finanziare il progetto (7,6 miliardi di dollari) è la Banca per lo Sviluppo
Asiatico (di cui gli Stati Uniti sono i maggiori azionisti assieme al Giappone).
Le compagnie petrolifere interessate sono quelle statunitensi, britanniche e
canadesi.
Per quanto importante, appare azzardato individuare in questo progetto - di
difficilissima realizzazione e surclassato da altre rotte gasifere - la ragione
della prosecuzione dell'occupazione occidentale dell'Afghanistan.
Posizione
strategica. L'Afghanistan ha la sfortuna di trovarsi nel cuore del
continente asiatico, in una posizione strategica che consente a chi lo controlla
di monitorare da vicino tutte le potenze nucleari della regione, Cina, Russia,
India e Pakistan, e di completare l'accerchiamento dell'Iran, che in caso di
guerra con gli Usa si troverebbe a fronteggiare un attacco su due fronti: quello
iracheno e quello afgano.
Secondo molti analisti militari la volontà statunitense di controllare
l'Afghanistan va però letta soprattutto in chiave di contrapposizione alla Cina,
considerata dal Pentagono come la maggiore minaccia potenziale all'egemonia
militare ed economica globale degli Stati Uniti non solo in Asia, ma anche in
Medio Oriente, Africa e America Latina. Una minaccia divenuta più reale dopo la
creazione, nel giugno 2001, dell'alleanza politico-militare guidata da Pechino:
l'Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (Sco), che riunisce la Cina, la
Russia, le repubbliche centroasiatiche e presto, forse, anche l'Iran. E che in
futuro, vista la sua progressiva integrazione con l'Organizzazione del Trattato
per la Sicurezza Collettiva (Csto), l'alleanza politico-militare a guida russa,
potrebbe estendere la sua influenza fino all'Europa orientale (Bielorussia) e al
Caucaso (Armenia), diventando a tutti gli effetti un'alleanza contrapposta alla
Nato a guida Usa. Un Afghanistan sotto controllo statunitense rappresenta una
spina nel fianco per la Cina, in particolare per la sua prossimità allo Xinjang,
regione ricchissima di petrolio destabilizzata dal nazionalismo uiguro
(tradizionalmente sostenuto dalla Cia).
La rilevanza geostrategica dell'Afghanistan è innegabile e ha certamente giocato
un ruolo importante nella decisione statunitense di occupare l'Afghanistan e di
impiantarvi basi militari permanenti.
Il
business della droga. Ma forse dietro la guerra in Afghanistan si
nascondono interessi ancor più grandi e inconfessabili: quelli legati al
controllo del traffico mondiale dell'eroina, ovvero di uno dei business più
redditizi del pianeta, con un giro d'affari annuo stimato attorno ai 150
miliardi di dollari l'anno.
Non è un mistero che il boom della produzione di oppio/eroina negli anni '70 nel
cosiddetto Triangolo d'Oro (Laos, Birmania e Cambogia) sia stato opera dalla
Cia, che con i ricavi del narcotraffico finanziava le operazioni anti-comuniste
nel Sudest asiatico. Lo stesso sistema - e questo è altrettanto risaputo - fu
adottato dalla Cia negli anni '80 in America Latina, per finanziare (con i
proventi della coca) la guerriglia antisandinista dei ‘Contras' in Nicaragua, e
in Afghanistan per finanziare (con i proventi dell'eroina) la resistenza
anti-sovietica dei mujaheddin. In Afghanistan il business continuò anche negli
anni '90 e si incrementò con l'avvento al potere dei talebani, notoriamente
sostenuti dalla Cia. Fino a quando nel 2000 il mullah Omar, allo scopo di
guadagnare sostegno internazionale al suo regime, decise di vietare la
produzione di oppio, che infatti nel 2001 crollò a livelli prossimi allo zero.
Produzione che nell'Afghanistan ‘liberato' e controllato dalle forze armate e
dall'intelligence Usa è ripresa a pieno ritmo fin dal 2002 (quando ancora i
talebani non erano tornati) polverizzando ogni record storico e trasformando in
pochi anni il paese sud-asiatico nel principale produttore mondiale di eroina
(93 per cento della produzione mondiale). Una situazione che le forze Usa
presenti in Afghanistan si sono sempre rifiutate di contrastare dicendo che
questo "non era compito loro" e lasciando che se ne occupasse il
governo-fantoccio di Kabul.
Secondo un numero sempre maggiore ed eterogeneo di esperti e di persone ‘ben
informate', la Cia avrebbe in sostanza appaltato produzione e lavorazione di
droga al ‘narco-Stato' guidato da Karzai, proteggendo le rotte di smercio via
terra (Pakistan, Iran e Tajikistan) e gestendo direttamente il trasporto aereo
all'estero.
Una
nuova Air America? Secondo un'inchiesta televisiva condotta
dal canale russo Vesti l'eroina afgana viene portata fuori
dall'Afghanistan a bordo dei cargo militari Usa diretti nelle basi di Ganci, in
Kirghizistan, e di Inchirlik, in Turchia. Spesso, ha scritto sul Guardian
la giornalista afgana Nushin Arbabzadah, nascosta nelle bare dei militari
Usa, riempite di droga al posto dei cadaveri.
"Penso che sia possibile che questo avvenga, anche se non lo posso provare", ha
diplomaticamente commentato l'ambasciatore russo a Kabul, Zamir Kabulov.
Il giornalista russo Arkadi Dubnov di Vremya Novostei, riportando
informazioni fornitegli da una fonte all'interno dei servizi afgani, ha scritto
che "l'85 per cento di tutta la droga prodotta in Afghanistan è trasportata
all'estero dall'aviazione Usa".
Quest'estate il generale russo Mahmut Gareev, un ex comandante delle truppe
sovietiche in Afghanistan, ha dichiarato a Russia Today: "Gli americani
non contrastano la produzione di droga in Afghanistan perché questa frutta loro
almeno 50 miliardi di dollari all'anno. Non è un mistero che gli americani
trasportano la droga all'estero con i loro aerei militari.".
Il giornalista statunitense Dave Gibson di Newsmax ha citato una fonte
anonima dell'intelligence Usa secondo la quale "la Cia è sempre stata implicata
nel traffico mondiale di droga e in Afghanistan sta semplicemente portando
avanti quello che è il suo affare preferito, come aveva già fatto durante la
guerra in Vietnam".
L'economista russo Mikhail Khazin in un'intervista ha dichiarato che "Gli
americani lavorano duro per mantenere in piedi il narcobusiness in Afghanistan
attraverso la protezione che la Cia garantisce ai trafficanti di droga locali".
"Gli Stati Uniti non contrastano il narcotraffico afgano per non minare la
stabilità di un governo sostenuto dai principali trafficanti di droga del Paese,
a cominciare dal fratello di Karzai", scrive il noto giornalista statunitense
Eric Margolis sull'Huffington Post. "Le esperienze passate in Indocina
e Centroamerica suggeriscono che la Cia potrebbe essere coinvolta nel traffico
di droga afgana in maniera più pesante di quello che già sappiamo. In entrambi
quei casi gli aerei Cia trasportavano all'estero la droga per conto dei loro
alleati locali: lo stesso potrebbe avvenire in Afghanistan. Quando la storia
della guerra sarà stata scritta, il sordido coinvolgimento di Washington nel
traffico di eroina afgana sarà uno dei capitoli più vergognosi".
Narcodollari per salvare le banche in crisi? Antonio Maria Costa, direttore generale dell'Ufficio delle Nazioni Unite per la Droga e la Criminalità (Unodc), in un’intervista al settimanale austriaco Profil ha dichiarato: “Il traffico di droga è l'unica industria in espansione. I proventi vengono reinvestiti solo parzialmente in attività illecite. Il resto del denaro viene immesso nell'economia legale con il riciclaggio. Non sappiamo quanto, ma il volume è impressionante. Ciò significa introdurre capitale da investimento. Ci sono indicazioni che questi fondi sono anche finiti nel settore finanziario, che si trova sotto ovvia pressione dalla seconda metà dello scorso anno (a causa della crisi finanziaria globale, ndr). Il denaro proveniente dal traffico di droga attualmente è l’unico capitale liquido da investimento disponibile. Nella seconda metà del 2008 la liquidità era il problema principale per il sistema bancario e quindi tale capitale liquido è diventato un fattore importante. Sembra che i crediti interbancari siano stati finanziati da denaro che proviene dal traffico della droga e da altre attività illecite. E' ovviamente arduo dimostrarlo, ma ci sono indicazioni che un certo numero di banche sia stato salvato con questi mezzi”.
Ospedale di Emergency in Afghanistan
Vittime da curare o
da interrogare?
Mentre si piangono i morti italiani, un chirurgo di Emergency a Kabul racconta che fine fanno i feriti afgani. Non si capisce il perché. O forse il perché è ben chiaro, ma è troppo ripugnante per crederci.
In una città come Kabul, di quattro milioni e passa di abitanti, durante eventi violenti come quello di oggi non esiste la minima possibilità di coordinare le risorse di chi fa attività sanitaria e si occupa di feriti civili, perché buona parte dei pazienti viene trasferita con mezzi militari nell'unico ospedale militare della città: le zone colpite vengono infatti cordonate da militari afgani e di ISAF e alle ambulanze civili non è nemmeno permesso entrare.
Ai rappresentanti dello stesso Ministero della Sanità afgano è stato impedito oggi di entrare nell'Ospedale militare di Kabul e, quindi, solo il ministero della Difesa ha potuto render conto del numero delle vittime civili.
Dopo il tragico attentato di oggi, oltre a piangere la morte di alcuni ragazzi italiani, dovremmo piangere la morte e il pessimo trattamento ricevuto da alcune decine di pazienti afgani che sono stati forzatamente trasferiti ed ammassati nella struttura sanitaria dell'esercito, che solo in occasioni come questa si ricorda che può trattare anche civili. Se la motivazione fosse la possibilità di garantire un trattamento migliore, lo si potrebbe comprendere: purtroppo la motivazione vera e non troppo nascosta è che così i pazienti possono essere "interrogati meglio". Nell'Afghanistan democratico, non è tanto importante quanto sei ferito ma quanto sei utile alle indagini.
Il Centro chirurgico di Emergency a Kabul riceve quotidianamente decine di feriti che vengono da tutte le province vicine, ma quando una bomba esplode a 500 metri dall'ospedale, ai pazienti viene reso impossibile esercitare il proprio diritto ad essere curati: per motivi che chi fa attività sanitaria, come me, trova difficile comprendere.
Marco Garatti
Marco Garatti, chirurgo d'urgenza, lavora con Emergency da dieci anni, molti dei quali passati in Afghanistan. Attualmente è coordinatore medico del Centro chirurgico di Emergency a Kabul.
Afghanistan - Tra guerra e pace - 3
Afghanistan, vittime civili
Le testimonianze dei civili afgani ricoverati nell'ospedale di Emergency a Lashkargah, Helmand
Queste testimonianze sono estratte dal reportage che verrà pubblicato sul numero di ottobre della rivista mensile di Peacereporter. Raccontano storie, sono cariche di rabbia e sono le voci dirette di chi sta soffrendo gli effetti della guerra in corso in Afghaniostan. L'attentato di Kabul, oltre alle dieci vittime italiane, di cui sei morti, ha fatto dieci morti fra i civili e altri cinquantacinque feriti.
"Quando
abbiamo sentito arrivare gli elicotteri stranieri, noi civili siamo scappati via
perché avevamo paura, ma dagli elicotteri ci hanno sparato contro con i
missili", racconta Karim, occhi azzurro cielo e baffi arricciati in punta.
"Molti di noi sono stati feriti e almeno cinque o sei sono morti".
Il giovane Rashid è seduto in carrozzina con un'amputazione al ginocchio. "Me ne
stavo seduto con due amici davanti a casa mia quando i blindati stranieri
appostati in cima alla collina di fronte hanno sparato un colpo contro di noi.
Io sono rimasto ferito alle gambe, ma i miei due amici sono morti".
"Gli elicotteri stranieri hanno bombardato il mio villaggio. La mia stalla ha
preso fuoco e mentre cercavo di spegnere l'incendio per salvare i nostri animali
hanno bombardato ancora. E io sono rimasto ferito. Ho perso la mano destra: ora
chi me la ridà?", protesta Farid, grande e grosso, indicando il moncherino
fasciato.
Wali fissa le pieghe delle lenzuola, parlando come se fosse in trance. "Riempivo
le taniche per irrigare il nostro campo quando sono arrivati i soldati stranieri
e mi hanno sparato. Sono caduto a terra e ho alzato una mano per dirgli di non
sparare, ma loro hanno fatto fuoco un'altra volta. Dicono che ci vogliono
difendere dai talebani e poi sparano a noi civili: bel modo di aiutarci!".
Abdul, un bellissimo ragazzo dai capelli ricci, ha perso un braccio in un
attacco suicida dei talebani a Grishk. "La presenza delle truppe straniere non
ci aiuta. Anzi, ci mette tutti in pericolo. L'attentato suicida nel quale sono
rimasto ferito non sarebbe avvenuto se nel mio villaggio non ci fossero stati i
soldati stranieri".
"Questi attacchi suicidi che colpiscono anche noi civili sono fatti contro i
soldati stranieri", dice Saad agitando l'indice contro il soffitto. "Tutto
questo non accadrebbe se loro non ci fossero. Sono venuti promettendoci la pace,
ma ci hanno portato solo guerra. In questi otto anni non hanno fatto niente per
noi!".
Beppe Grillo - "Perché siamo in Afghanistan?"
Gino Strada: La guerra è la più grande vergogna degli uomini
Strage. Massacro. Inferno. Reagire
Quali sono le parole che vengono iniettate negli occhi della platea di lettori, del pubblico.
Strage. Massacro. Inferno. Reagire. Chi si ferma in edicola a comperare un quotidiano e scorre veloce i titoli a caratteri cubitali dei nostri quotidiani può provare a chiudere gli occhi: nel buio vedrà quelle parole ritornare. Alla vigilia della manifestazione che non c'è più, domani, per la libertà di stampa spostata al 3 ottobre per i militari morti a Kabul, viene da riflettere su come vengono scelte le parole da chi la stampa la costruisce quotidianamente. Osservazioni critiche – ognuno sceglie di scrivere e pubblicare come meglio ritiene, ci mancherebbe – che però hanno a che vedere con quali sono le parole che vengono iniettate negli occhi della platea di lettori, del pubblico.
Scala mobile, metropolitana gialla di milano. Sono tutti in fila pazienti per arrivare alla banchina sotterranea. Hanno tutti in mano una free-press popolare. Il titolo: STRAGE INFINITA, tutto maiuscolo. La parola inferno torna, ha un immaginario perfetto per evocare lo scoppio, le fiamme, il dolore. Ma c'è qualche cosa che non funziona e non solo il giorno dopo l'attentato di Kabul. Ricordo i funerali delle vittime di Nassirya, il vialone romano che portava alla basilica, tutto addobbato con bandierine italiane, la predica politica di Camillo Ruini, il vessilo italico stampato in fretta e furia per addobbare tutti i balconi che si affacciavano sul percorso. “Eroi”, la parola che tornava sempre più spesso e che torna ancora oggi.
Il comunicato del sindacato dei giornalisti che ha pompato per settimane una manifestazione e che si ritrae per cordoglio. Scelta discutibile, ma il testo del comunicato ha un valore in sé, per le parole scelte. “Con profondo rispetto verso i caduti, nell’espressione di un’autentica, permanente volontà di pace quale condizione indispensabile di una informazione libera e plurale capace di rappresentare degnamente i valori della convivenza civile, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, ha deciso, di rinviare ad altra data la manifestazione per la libertà di stampa programmata a Roma per sabato prossimo. In un momento tragico come questo ci stringiamo attoniti accanto ai nostri morti in Afghanistan. Sono morti dell’Italia che paga oggi un pesante tributo nella frontiera della sicurezza internazionale e della lotta al terrorismo. Il nostro rispettoso pensiero va subito ai soldati caduti, alle loro famiglie,alle Forze Armate che, in un Paese martoriato, rappresentano la nostra comunità in ossequio a risoluzioni dell’Onu, in una complicata ricerca di una via di uscita dell’Afghanistan dal terrore verso la democrazia”. C'è qualche cosa che non torna: ci sono due modi soli di scrivere un messaggio come questo. Quello in cui si dice: spostiamo per lutto. Punto e basta, retorico e d'occasione se si vuole. Oppure si devono calibrare le parole, perché in quel messaggio non c'è solo l'aspetto umano, ma ci si spinge sul fattore politico. E allora non si capisce come razionalmente si possa mettere insieme una missione di “pace” con la permanente volontà di pace, non si capisce perché parlare della frontiera di sicurezza internazionale e della lotta al terrorismo, come avrebbe potuto ben scrivere il ghost writer dell'ex presidente Bush, più che un sindacato di categoria.
I
giornali, i titoli, il cubitale che inevitabilmente oggi ritorna. Le parole, il
significato delle parole, hanno solo due modi di impiego: quello rispettoso del
pensiero che esprimono, come se fossero un ideogramma che si scolpisce nelle
caselle che abbiamo imparato a decodificare fin dall'infanzia. Oppure la perdita
di significato per cattivo utilizzo, per logoramento, per mistificazione, per
sciattoneria, o per spettacolarismo. E, viste le immagini che hanno accompagnato
la notizia dell'attentato con cadaveri, feriti, distruzione, non si capisce
perché voler far volare l'iperbole letteraria. C'è un altro motivo, cinico, che
porta all'orgasmo di mezzi, parole, strutture verbali ed enfasi spinta. Il caso
mediatico, già grave, molto grave, già doloroso per chi lo ha vissuto, già
significativo anche a livello politico e sociale, diventa una leva che cerca di
spingere l'emozione, lo stupore, la compassione.
La notizia si droga, è dopata e così regge e deve reggere almeno – oggi lo
sappiamo- fino a lunedì e ai funerali di Stato. Certo, ci sono gli editoriali,
le analisi e i commenti. Ma quelle parole tornano negli occhi: strage, massacro,
inferno, reagire. Mentre scorrono sulla rete attentati, bombardamenti e morti di
fame, che di caratteri cubitali non vedranno nemmeno l'ombra.
APPROFONDIMENTO VIDEO
Afghanistan: battaglia a Bala Morghab - Parte I
Afghanistan: battaglia a Bala Morghab - Parte 2