AMERICA 2011

TSUNAMI FINANZIARIO IN ARRIVO

«il 2011 sta cominciando ad assomigliare sempre di più al 2008 prima del collasso di Lehman Brothers, tranne che per i numeri  coinvolti che questa volta sono decisamente maggiori» (Simon Derrick, capo del monetario alla Bank of New York Mellon)

 

 

(a cura di Claudio Prandini)

 

 

 

INTRODUZIONE

AMERICA: "Recessione vicina, governo mente"

Lo ha detto Robert Reich, economista, democratico e ex ministro del lavoro

del governo Clinton, che ha lanciato accuse a Wall Street e ai partiti

 

Robert Reich in compagnia di Barack Obama

L'economista americano Robert Reich con Obama

Fonte web

Nessuno ha il coraggio di dire la verità agli americani, spiegando che siamo sulla strada di un ritorno alla recessione". E' il grido d'allarme lanciato da Robert Reich, ex ministro del lavoro ai tempi dell'amministrazione Clinton, dalle colonne dell'Huffington Post.

Autorevole economista e docente alla Berkeley University, vicino al Partito democratico fin dagli anni Settanta, Reich prende le distanze dalla politica del presidente Barack Obama, e non risparmia l'opposizione repubblicana e Wall Street, accusando entrambi di mentire e di avere interessi in comune.

L'ex ministro mette in evidenza che il 70% dell'economia Usa è legata ai consumi: "Gli aumenti dei prezzi di carburante e alimenti stanno facendo precipitare la fiducia dei consumatori, che è scesa di 10 punti nel mese di marzo, e in media ha raggiunto un punto più basso di quello toccato con la grande recessione degli scorsi anni". Quando c'è pessimismo tra i consumatori si spende di meno. "E ciò aggrava lo stato dell'economia", rimarca Reich.

L'economista stronca gli entusiasmi per la creazione di 192.000 posti di lavoro nel mese di febbraio. "Sono briciole rispetto ai posti di lavoro persi e a ciò di cui abbiamo bisogno", dice, "basti pensare che 125.000 nuovi posti di lavoro coprono appena la crescita del numero degli americani in età lavorativa".

Quanto alla crescita economica, che per quest'anno è stimata tra il 2,5 e il 2,9 per cento, "sono anche meno delle briciole", per Reich, "più il buco è profondo, più dovrebbe essere rapida la crescita". Come se non bastasse, "le paghe orarie diminuiscono, visto che con la disoccupazione alta i lavoratori non hanno potere contrattuale, e poiché sempre più persone non riescono a pagare i mutui, i prezzi delle case calano rendendo più poveri i proprietari".

"E allora perché non si dice la verità sullo stato dell'economia?", si chiede retoricamente l'ex ministro, che poi offre le sue risposte: "innanzitutto perché Wall Street si tiene a galla, tanto che nell'ultimo trimestre ha aumentato i profitti di 426 miliardi di dollari".

Poi gli affondi contro il mondo della politica. "La Casa Bianca e la maggior parte dei democratici vogliono far credere agli americani che l'economia è in ripresa", afferma l'economista, "i repubblicani temono che se dicessero come stanno le cose, gli americani richiederebbero un maggiore intervento del governo sull'economia, anziché un suo disimpegno".

L'attacco più duro arriva alla fine. "Si preferisce non parlare di lavoro e salari, e mettere l'accento sulla riduzione del disavanzo, diffondendo la menzogna che riducendo il deficit avremo più posti di lavoro e salari più alti", nota Reich, che conclude: "Mi dispiace dovervi dare la brutta notizia, ma è meglio sapere".

 

 

ECONOMIA AL COLLASSO

 

 

E ora sono gli Usa a temere il

crac, altro che Portogallo

Fonte web - 7 aprile 2011

A cinque minuti dall’inizio delle contrattazioni a Wall Street, ieri l’oro toccava il record di 1460,50 dollari l’oncia e l’argento flirtava con il punto di resistenza dei 40 dollari l’oncia, precisamente a 39,61.

Brutti segnali, proprio brutti: anche perché solo un mercato artificiale vede le Borse salire dell’1% e contemporaneamente l’argento dell’1,09% e l’oro dello 0,55%: in America lo sanno e i segnali per una resa dei conti ci sono tutti.

Il 24 marzo scorso Warren Buffett, come vi ho riportato, dava non per impensabile la fine dell’euro: bene, il giorno seguente, dichiarò che «se mi chiedete se il dollaro manterrà il suo attuale potere d’acquisto da qui a 5, 10 o 20 anni, vi dico chiaramente di no». L’era del soft power è finita. Si sa che Buffett è il terzo uomo più ricco del mondo, un guru di Wall Street, ma soprattutto azionista di Moody’s, la stessa società di rating che in due giorni ha declassato prima il debito sovrano portoghese e poi sette banche lusitane nella speranza di affogare il Paese, destabilizzare l’Europa intera e permettere a Tim Geithner di piazzare i suoi 1,5 trilioni di T-bills.

Nonostante questa campagna di primavera, l’euro saliva e continuava a salire: pazzesco, quota 1,42 sembra ormai un mantra, un qualcosa di inspiegabile se non attraverso una teoria che potrebbe essere ritenuta folle. Ovvero, gli Usa sono di fatto in default. Non a caso, lo stesso Buffett ha progressivamente abbandonato gli investimenti a lungo termine in dollari preferendo assets più facilmente liquidabili. Oltre a questo, ha diversificato i suoi investimenti prevedendo che, malgrado la Fed lo neghi, il governo degli Stati Uniti dovrà inflazionare il dollaro per ridurre i propri debiti e aumentare le esportazioni: detto fatto, Buffett si è messo anche a investire in aziende che potranno avvantaggiarsi da questi politica forzata.

Ma cosa bolle nel pentolone degli Usa? Stando a quanto dichiarato da Bill Gross, fondatore di Pimco, il principale fondo obbligazionario del mondo, pare che il debito pubblico statunitense abbia un’extra debito “reale ma non riportato” pari a qualcosa come 75 trilioni di dollari (diverse volte il Pil americano). Alla fine, a parere di Gross, il default giungerà per un sommarsi di diverse concause: inflazione, deprezzamento delle valute, tassi d’interesse reali bassi e negativi. Insomma, i tanto amati 1,5 trilioni di T-bills di Tim Geithner diverranno sempre meno appetiti e appetibili fino ad arrivare a una situazione da zampe all’aria: o si taglia drasticamente la spesa, compresi i programmi sanitari, oppure i capolavori della Fed da Alan Greenspan in poi stanno per presentare il conto, esattamente come quel capolavoro di subprime “democratici” che sono i municipal bonds, con decine di città americane sull’orlo del fallimento o salvate in extremis dalle banche europee a prezzi non certo di saldo.

Non è un caso, quindi, che Simon Derrick, capo del monetario alla Bank of New York Mellon, abbia scritto nero su bianco nel suo ultimo report che «il 2011 sta cominciando ad assomigliare sempre di più al 2008 prima del collasso di Lehman Brothers, tranne che per i numeri coinvolti che questa volta sono decisamente maggiori». Guardate al future sul crude del Nymex per il prossimo mese, è trattato allo stesso livello dell’aprile 2008, le riserve FX stanno crescendo allo stesso passo a livello globale e l’euro comincia a essere in discussione in attesa di ciò che deciderà di fare la Bce. Persino il cross dollaro/yen sta rimandando sinistri echi del prezzo raggiunto quando Bear Stearns andò a zampe all’aria. Ripeto, l’unica differenza tra oggi e il 2008 e che in questi giorni i numeri coinvolti sono maggiori, visto che la battaglia si sta svolgendo nell’eurozona e sta coinvolgendo sia il livello sovrano che istituzionale.

Pensate che i prestiti concessi a Northern Rock e Bear Stearns nell’area ammontarono a 72,5 miliardi di euro, ora solo il salvataggio della Grecia è costato di più. E l’Irlanda? E il Portogallo ormai alle corde? Siamo a un rapporto di 2,7 volte tra i due bail-out governativi e il salvataggio delle due banche. E basta guardare alle dinamiche dei prezzi nel mercato del debito sovrano per capire che Irlanda e Grecia non hanno ritrovato affatto la fiducia degli investitori. Il fatto che il rendimento del debito portoghese abbia ormai raggiunto quello pagato dall’Irlanda prima del salvataggio, ci dice chiaramente che il collasso delle fiducia verso i periferici sta prendendo forza, invece di stabilizzarsi». E, cari amici, la perdita di fiducia del mercato verso due nazioni sovrane è più importante e grave di quella verso due banche second-tier!

Insomma, l’Europa e l’euro stanno ancora in piedi soltanto perché gli Usa sono messi molto peggio: è un patto di mutua assistenza tra due malati terminali che però non pare destinato a poter durare in eterno. Vedremo se oggi la Bce deciderà davvero di alzare i tassi di interesse, come ha fatto per l’ennesima volta la Cina spaventata dall’inflazione galoppante e come reagiranno i mercati: una cosa però è certa, fin d’ora. L’ondata di crisi incubata dal disastro giapponese sta per spandersi a livello globale: molte fabbriche chiave, specie per le industrie automobilistiche ed elettroniche, sono ancora chiuse e la Toyota ha avvisato i sindacati Usa che tra una settimana potrebbero restare senza lavoro 25mila operai americani per mancanza di componenti da montare sulle macchine prodotte negli States.

Vuoi vedere che, tra crisi strutturale degli Usa e nuova tensione importata dal Giappone, anche i sogni di gloria di Sergio Marchionne e soci potrebbero andare a scontrarsi contro la volontà di sopravvivenza degli Usa e gli accidenti del mercato? Attenzione, poi, al Messico: il prossimo focolaio di crisi e tensione sociale è proprio lì, nel cortile di casa degli Usa.

 

 

Conseguenze del crollo.... un uso più utile della Banca Centrale Americana

 

 

Warren Buffett: arriva a giugno

il crollo del dollaro USA

Fonte web

Il 24 marzo Warren Buffet, il terzo uomo più ricco del pianeta (patrimonio di 50 miliardi di dollari) e soprattutto guru nel mondo dell’economia, nel corso di un’intervista ha sostenuto che la disintegrazione dell’euro non è un’ipotesi impensabile.

Warren BuffetIn precedenza l’agenzia di rating Moody’s (di cui Buffet è azionista di peso) aveva tagliato in un primo tempo il rating dell’Irlanda, quindi quelli della Grecia (il 7 marzo), della Spagna (il 10 marzo) e del Portogallo (il 16 marzo).
Successivamente Moody’s aveva avvertito che nemmeno il rating del Regno Unito sarebbe completamente esente da rischi, prima di andare addirittura a declassare il comune di Firenze e nello stesso giorno ad annunciare il downgrading del giudizio su 30 banche spagnole.

Moody’s è una società indipendente americana con sede a New York e gestisce circa il 40% del business del rating, ovvero della valutazione della forza e dell’affidabilità economica di imprese e amministrazioni pubbliche dei paesi di tutto il mondo. Le contendono il mercato la Standard & Poor’s (circa 40%) e la Fitch Ratings (circa 15%), pure esse americane. Queste tre società private esercitano una tale influenza a livello politico-economico globale da assumere un’importanza strategica di primo piano per il governo degli Stati Uniti.

L’osservazione d’insieme dei downgrading eseguiti da Moody’s può lasciare perplessi se si traccia un paragone con altre situazioni dove questa Signora del Rating non interviene malgrado sarebbe opportuno, come ad esempio negli stessi Stati Uniti, ritenuti da qualche analista un paese “che consuma esageratamente a scapito dell’indebitamento che esplode”.
Invece, gli USA continuano a capeggiare da tempi quasi immemorabili la classifica rating nonostante gli sviluppi catastrofici della loro economia dovuti alla politica monetaria, economica e energetica speculativa.

Attraverso il peggioramento dei rating di singoli Stati e banche europei e forte del suo ruolo, Moody’s conduce una vera e propria campagna che penalizza l’euro e recentemente è andata vicino ad affossarlo, approfittando della crisi che pervade in particolare i PIIGS. Se non che, contro ogni previsione, finora la moneta unica europea ha resistito bene a questi attacchi, mentre a cedere sensibilmente è stato proprio il dollaro americano.

Il 25 marzo accade quello che nessuno si sarebbe mai atteso: Warren Buffet consiglia agli investitori di stare alla larga dagli investimenti in dollari (bonds) a lungo termine. Stessa linea nelle dichiarazioni della società americana Phoenix Capital Research, la quale prevede un collasso del dollaro tra giugno e luglio 2011 a causa della “spirale mortale inflazionistica” in atto negli Stati Uniti, un fattore che secondo queste previsioni potrebbe spingere la moneta USA in un’iperinflazione e trascinarla ad un minimo record entro il secondo semestre del 2011.

Nessuna menzione a cosa sia dovuta questa improvvisa ed epocale virata, intervenuta nel giro di appena 24 ore. Non è dato a sapere cosa sia accaduto per far sì che dopo aver tanto cospirato contro l’euro e averne predetto con tanta forza la fine, Buffett improvvisamente mette in guardia dal collasso del dollaro.

Di fronte all’evidenza ora non è più possibile nascondere ciò che molta gente bene informata già presentiva da tempo e nasce spontanea una domanda: fino a quando l’Europa si sottometterà ai giudizi e ai diktat di queste agenzie americane, con un atteggiamento di tale mancanza di autostima da accettare verdetti come quelli di Moody’s senza nemmeno porre qualche giustificata domanda critica?

 

 

Se continua così il dollaro diventerà carta straccia...

 

 

Default Stati Uniti vicino. 75

trilioni di dollari di debiti

Fonte web

Bill Gross, fondatore di Pimco, uno tra i maggiori fondi azionari al mondo, prevede che appesantiti da un “reale ma non riportato” debito di 75 trilioni di dollari (l’equivalente di circa 70mila miliardi di franchi svizzeri), gli Stati Uniti sono avviati inesorabilmente verso il default, ossia l’incapacità di far fronte al pagamento degli interessi o di rimborsare il debito giunto a scadenza. Una situazione che potrebbe avere come conseguenza pesanti turbolenze.

I più recenti segnali concreti di questa evoluzione ci giungono dall’inesistente recupero della moneta americana nei confronti dell’euro, in seguito ai tagli del rating sul Portogallo operati questa settimana sia da Standard & Poor’s che da Fitch Ratings (a quando il downgrading del rating degli Stati Uniti? ndr).

Secondo Gross, questa situazione di default giungerà per un sommarsi si diverse concause: inflazione, deprezzamento delle valute, tassi d’interesse reali bassi e negativi. Un contesto nel quale non conviene tenere buoni del Tesoro americani.
L’unica maniera che gli USA hanno per mitigare questo scenario di crisi, ritiene Gross, è una drastica revisione degli stanziamenti di spesa, in particolare le spese sanitarie , Medicaid e assistenziali, Social Security.

Nel sistema di numerazione statunitense, al quale fa riferimento Gross, un trilione equivale a mille miliardi. L’importo inimmaginabile di 75 trilioni equivale a quasi il 500% del Prodotto interno lordo degli Stati Uniti.

 

 

Sede americana della JP Morgan Chase

 

 

C’è una banca americana

pronta a fare crac

Fonte web

L’eco di questa notizia in Italia non è arrivato, ma state certi che a breve, quando la bolla esploderà in un modo o nell’altro, verremo travolti dalle grida belluine degli indignati speciali: se andate su guardate questo video di YouTube capirete cosa sta accadendo Oltreoceano nel silenzio generale. Ve lo riassumo brevemente: è una guida all’acquisto di argento fisico per mandare a gambe all’aria JP Morgan Chase e suoi sodali come la britannica Hsbc, autori di una politica manipolatoria sul prezzo del metallo prezioso.

Abbiamo già parlato di questo argomento, ma lo ritengo importantissimo: questo video, dimostra, come nel suo piccolo la gente possa ribellarsi allo strapotere dei giganti. Ovviamente è una battaglia persa, perché comunque la Fed - vera mandante della politica di manipolazione del prezzo dell’argento - sarà sempre pronta a intervenire in soccorso dei “too big to fail”, ma come diceva Brecht, anche un granello di sabbia può inceppare - almeno per un po’, facendo più danni possibile - il meccanismo più potente e sofisticato. Solo che qui, il meccanismo è veramente diabolico e spiega anche tante cose rispetto a quanto sta accadendo in Libia.

Andiamo con ordine e partiamo dalle novità sul fronte della battaglia per l’argento, fino a venerdì scorso sempre sui massimi, nonostante i tentativi della Fed e della Borsa in cui si trattano i metalli di rallentarne artificialmente la corsa. Pochi giorni fa si è scoperto che la Cina, nel solo mese di febbraio, ha importato 245 tonnellate di argento fisico, solo un poco meno di quanto ne aveva importato l’anno scorso nello stesso mese, ma al doppio del prezzo. In pratica, questo febbraio i cinesi hanno convertito il doppio di dollari in metallo sonante rispetto allo scorso anno. Con la zecca americana e quella canadese che hanno dichiarato esaurito l’argento fisico e il prezzo di quest’ultimo che si avvicinava al punto di rottura dei 40 dollari l’oncia, floor che potrebbe dar vita al rally vero e proprio, JP Morgan comincia a sentir davvero tremare la terra sotto i piedi.

Il perché è presto detto: la grande banca americana è short per 4 quadrilioni di dollari sull’alluminio e su 3,3 miliardi di once di argento al prezzo di 21 dollari l’oncia (ieri il valore dell’oncia era 36,46 dollari dopo aver toccato, la scorsa settimana, il record da 31 anni a questa parte a quota 38,13 dollari). Come fare quindi a evitare che il prezzo continui a salire? Detto fatto, per la sesta volta venerdì scorso il Cme - Chicago Merchantile Exchange, la Borsa dove si trattano i futures di oro e argento - ha alzato ancora una volta i margini iniziali e di mantenimento per trattare un contratto future sull’argento, portando il margine iniziale da 11.138 a 11.745 dollari e il mantenimento da 8.250 a 8.700 dollari. E non basta, l’annuncio dei nuovi margini è stato fatto a mercato aperto in modo da ottenere una discesa (temporanea) dei prezzi visto che in parecchi - soprattutto le “mani deboli” - si sono spaventati e hanno chiuso.

Ma siccome questo, come già detto, non è servito a sgonfiare il prezzo del metallo, in contemporanea JP Morgan Chase ha giocato su due tavoli. La banca d’affari, infatti, ha ottenuto in tempi record la licenza per detenere legalmente nei propri caveau oro e argento a garanzia di contratti futures trattati al Cme, la cosa strana - che sa di manovra disperata - è che normalmente per avere tale licenza sono necessari almeno 45 giorni per le verifiche dell’idoneità strutturale e contabile del richiedente: bene, Jp Morgan ha ottenuto la licenza in due giorni! Stranamente, in contemporanea scopriamo che il premio per comprare una quota dello Sprott Physical Silver Fund è ai massimi storici, chiaro segnale della fame di oro fisico fuori dai caveau degli istituti. Insomma, JP Morgan Chase, con ogni probabilità, stava per andare a zampe all’aria con le sue scommesse sull’argento.

Ma non solo JP Morgan è a forte rischio di default per i suoi contratti sull’argento, molto probabilmente anche l’ETF SLV - che ne replica fedelmente l’andamento del prezzo - è a corto d’argento, altrimenti il colosso bancario americano avrebbe preso il metallo di cui aveva bisogno proprio da lì: invece JP Morgan paga premi dal 50% all’80% ai suoi possessori di contratti sull’argento per non prendere la consegna! Insomma, c’è l’argento di carta ma non quello reale. Servirebbero un paio di avvenimenti, meglio se in contemporanea, per fare in modo che nel breve periodo l’argento continui a scendere di prezzo, facendo scottare acquirenti di materiale fisico e detentori occasionali di futures: un rafforzamento del dollaro e una buona quantità di metallo che torni disponibile sul mercato.

Veniamo quindi a come questa colossale macchinazione sull’argento, capace davvero di mandare in default la prima banca Usa, possa essere contestualizzata all’attuale guerra in Libia (a proposito, da domenica sappiamo che i ribelli detengono il petrolio e che sono pronti a commercializzarlo, ma guarda che strano!). Da mesi, i metalli preziosi sono sugli scudi e se non si tiene sotto controllo il loro prezzo, salta il banco: ovvero, non si ha più controllo sulla situazione, i tassi d’interesse diventano ingestibili, il sistema benefica più della fiducia di mercati e investitori e nemmeno la stessa valuta cartacea - il dollaro in questo caso - che potrebbe perdere definitivamente il suo ruolo di moneta rifugio, insieme ai bond in esso denominati.

E come ottenere le due condizioni poco fa elencate? Nei caveau libici di metalli preziosi ce ne sono a bizzeffe. Nonostante le sanzioni della comunità internazionale, Gheddafi può infatti contare su circa 143,8 tonnellate d’oro (ma si pensa siano molte di più), un controvalore di circa 6,3 miliardi di dollari al prezzo corrente. Tripoli è tra i primi 25 detentori di oro al mondo e tutto il metallo fisico è detenuto dalla Banca Centrale libica sul territorio nazionale (prima della crisi a Tripoli, ora a Sebha, città al confine con Ciad e Niger), non a Londra come fanno le banche centrali di molti paesi. Stati Uniti ed Europa hanno sì congelato gli assets libici in dollari, ma non l’oro: il quale, se trasportato fuori dalla Libia, può essere facilmente venduto attraverso contratti swap visto l’appetito di molti governi verso il bene rifugio per antonomasia. Il valore dell’oro, infatti, non dipende dalla stabilità dei governi come accade invece per obbligazioni, assets e titoli. Stesso discorso per l’argento, ragione che potrebbe vedere gli Stati Uniti molto interessati a mettere le mani su quel vero e proprio tesoro. E se l’argento dei caveau della Libia trovasse la sua via fino a quelli della JP Morgan?

Secondo punto, il dollaro e la sua necessità di rafforzamento. Il biglietto verde è al collasso, ma il combinato congiunto dell’evento bellico insieme ai guai della signora Merkel alle elezioni di domenica, ieri ha garantito un netto apprezzamento sull’euro: la via è quella, visto che già paesi come quelli del Bric scaricano dollari e comprano metalli preziosi come hedging. Ora come non mai il dollaro deve essere sostenuto affinché mantenga lo status di valuta di riserva globale con cui si possa commerciare una delle merci più importanti, quel petrolio che i ribelli anti-Gheddafi sono pronti a estrarre ed esportare.

Non è un caso che da giorni la Fed di St. Louis continui a ogni piè sospinto a rendere pubblici giudizi entusiastici sullo stato di salute dell’economia Usa, escludendo un possibile terzo ciclo di quantitative easing e, anzi, prevedendo la fine anticipata del secondo entro giugno. E il dollaro sale, sale e il prezzo dei metalli scende. Controllare il prezzo dei metalli preziosi è fondamentale poiché è un indicatore di salute delle valute, ricordate: e quando una valuta come il dollaro è così inflazionata si è costretti a scegliere fra due opzioni, iperinflazione o depressione. Ecco perché è vitale controllare il petrolio e perché è necessario manipolare il prezzo dei metalli preziosi: per il dollaro. Non ci credete? Guardate questo grafico, che rappresenta la base monetaria Usa.

 

In termini più semplici, ci dice quanto denaro la Fed ha pompato nel sistema. Notate facilmente che durante la crisi finanziaria globale la Fed non è intervenuta pesantemente fino all’autunno del 2008, quando pompò circa 1 trilioni di dollari nel sistema. Notate altresì che c’è solamente un’altra occasione nella quale la base monetaria è schizzata a livello assolutamente verticale: il 26 marzo scorso. Dall’inizio del 2011 la Fed ha pompato circa 500 miliardi di dollari e non giustificate questi dati con il fatto che si tratti del programma di QE2, visto che in quel caso la base monetaria sarebbe dovuto schizzare nel 2010, non quest’anno. Si tratta del fatto che la Fed è terrorizzata per il sistema bancario Usa, al pari del 2008, anno del crollo di Lehman Brothers: c’entra qualcosa JP Morgan Chase e il suo mare di contratti futures sull’argento che non detiene, nonostante apra un caveau d’emergenza in soli due giorni? O magari quel caveau è davvero necessario, visto che del metallo fisico potrebbe arrivare a breve dalla Libia?

Una cosa è certa, prepariamoci a qualche sorpresa: non bella. Quando i grandi media cominceranno ad accorgersene e a parlarne, sarà già in pieno svolgimento: vai con lo swing, come vi dico da settimane Stati Uniti ed Europa non possono più coesistere nei loro attuali assetti sullo scenario mondiale. Forse anche la Germania si è accorta di questo, almeno così io leggo la tardiva proposta italo-tedesca per la Libia: è una guerra per il dollaro prima ancora che per il petrolio. E gli Usa non faranno prigionieri. Ecco perché la confusionaria repentinità di questa guerra, ecco perché l’atteggiamento ondivago e spacca-Europa degli Usa, ecco perché si lascia che la Siria esploda e si attende il casus belli tra Iran e Arabia Saudita (non a caso Teheran, che ha fiutato l’agguato, da giorni e giorni è silente). Tutto qui.

P.S. Brutte notizie per la Germania e le sue banche: il governo irlandese ha deciso di tagliare il debito senior di Allied Irish e Bank of Ireland, i due istituti nazionalizzati. Ecco spiegato il rendimento del bond decennale irlandese sopra il 10%! E perché? Semplice, la Banca centrale europea si è opposta al taglio del debito senior delle banche irlandesi nazionalizzate, di fatto condizionando gli aiuti per Dublino (sottoscritti dal vecchio governo) al fatto che questi venissero usati per ripagare i detentori di asset falliti. Gli aiuti europei, nei fatti, servirebbero quindi a coprire solo una parte del buco, il resto lo dovrebbero pagare i cittadini irlandesi. Che attraverso il nuovo governo hanno detto NO! Le banche francesi e tedesche, in caso l’haircut si concretizzi, si preparino a un bel bagno di sangue.

 

 

Capitol Hill, sede del Congresso americano

 

 

Deficit governo federale primo semestre

sale a 830 miliardi di dollari

 

La notizia arriva mentre i partiti negoziano il bilancio 2011

Fonte web

Nei primi sei mesi dell’anno fiscale 2011, il governo federale ha riportato un deficit di bilancio di 830 miliardi di dollari. Lo dice un rapporto del Congressional Budget Office, ufficio budget del Congresso, che spiega che entrate ed uscite sono cresciute rispettivamente del 7 per cento (ovvero di 66 miliardi di dollari a 1.019 miliardi) e dell’11 per cento (ovvero 179 miliardi di dollari a 1.850 miliardi). Il deficit è di 113 miliardi di dollari superiore al buco fatto registrare nello stesso periodo del 2010.

Secondo alle stime, che si basano sui dati mensili del dipartimento del Tesoro, con entrate per 150 miliardi di dollari e uscite per 339 miliardi, a marzo il debito pubblico ammontava a 189 miliardi di dollari, o 124 miliardi più di quanto fatto registrare nello stesso periodo dell’anno precedente.

Gli interessi netti sul debito pubblico sono aumentati del 13 per cento, o di 14 miliardi di dollari, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

L’ufficio budget ha spiegato che la crescita della spesa pubblica nei primi sei mesi del 2011 è legata alle revisioni delle stime sui costi del Troubled Asset Relief Program, il piano salvataggio da 700 miliardi di dollari varato dagli Stati Uniti in seguito alla crisi finanziaria del 2008.

Il rapporto dell'ufficio budget viene mentre leader parlamentari e Casa Bianca stanno trattando per trovare un accordo che eviti la paralisi finanziaria delle attività correnti del governo federale. Gli Stati Uniti operano in un regime di finanziamento provvisorio dopo che il Congresso non ha mai approvato la finanziaria per il 2011 proposta dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Senza un nuovo provvedimento-tampone, gli Stati Uniti andrebbero in stallo questo venerdì.

Il dato finale relativo a febbraio sottolinea un deficit da 223 miliardi di dollari, con entrate per 111 miliardi e spese per 333 miliardi.

 

 

L'oro sale troppo e questo non è un buon segno...

 

 

Valori rifugio. Oro e argento

salgono a livelli storici

Fonte web

In un mercato sempre più inquieto per gli scenari geo-politici del mondo arabo, per la crescita del costo del greggio e della crisi persistente dei debiti pubblici dei paesi della Zona euro, martedì sera l’oro ha marcato il passo ed è salito sopra la soglia di 1’450 dollari l’oncia. Il record era dello scorso 24 marzo, quando si era fermato a 1’447.82 dollari l’oncia.

L’argento è salito a 39.22 dollari l’oncia, il livello più alto dal febbraio 1981, approfittando del suo doppio statuto di metallo prezioso e metallo per uso industriale, stimolato dalle prospettive di ripresa economica sulla scala mondiale.

Entrambi i metalli hanno approfittato di un indebolimento del dollaro USA, sopravvenuto a seguito di un deludente indicatore di attività per gli Stati Uniti.

Per quanto riguarda il costo del petrolio, martedì a Londra il barile costava 122 dollari, il prezzo più alto dall’agosto 2008. Un aumento suscettibile di alimentare tensioni inflazionistiche contro le quali i metalli preziosi sono abitualmente considerati dei beni rifugio da chi cerca attivi solidi.

 

 

APPROFONDIMENTO

 

Cinesi e Brasiliani più capitalisti degli Americani

La fede nel libero mercato crolla tra gli americani, ma registra un'impennata nella Cina comunista e nel Brasile guidato da Dilma Rousseff, esponente del Partito Operaio. Sono i paradossi del terremoto globale, a tre anni dallo scoppio della crisi economica, cristallizzati nello studio di GlobeScan, agenzia internazionale specializzata in ricerche e sondaggi d'opinione.

 

I compensi agli amministratori delegati

tornano ai livelli pre-crisi

Dopo la riduzione dei salari ai top manager durante la crisi economica cominciata nel 2008, dal 2009 gli stipendi degli amministratori delegati delle 200 più grandi società americane sono saliti del 12 per cento, un ulteriore segnale della ripresa economica negli Stati Uniti. O meglio, più che ripresa vera e propria, qui si tratta dell'effetto "miraggio" di una ripresa che non c'è. Nel senso che è vero che i compensi dei top manager aumentano ma il loro aumento non dipende dal fatto che vi sia una vera e propria ripresa dell'economia, quanto piuttosto che il potere d'acquisto della classe media americana si riduce sempre di più e la ricchezza tende così ad essere sempre più a favore di pochi privilegiati. E' la legge della giungla: il forte mangia il più debole. E meno abbondanza c'è sul piatto e più il forte cercherà di accaparrarsi la fetta di torta più grande, lasciando le briciole agl altri.

 

Dipendenti Ikea contro l'azienda: "Ci sfruttano"

Tre anni fa, lo sbarco di Ikea in una cittadina della Virginia colpita duramente dalla crisi economica era stato salutato come un toccasana. Oggi, i dipendenti della fabbrica Ikea di Danville stanno lottando contro l'azienda per cercare di formare un sindacato e protestano contro le condizioni di lavoro. Danville, dove sorge la fabbrica di Swedwood, la controllata Ikea che produce i mobili, ha un tasso di disoccupazione di ben il 10 per cento, e il comune aveva incoraggiato l'arrivo della fabbrica di mobili. .... Bill Street, che ha cercato di dare vita all'organizzazione sindacale, sostiene che Ikea sta cercando di usare a suo vantaggio la minore tutela dei lavoratori negli Stati Uniti rispetto alle norme svedesi: "La situazione suscita ironia: Ikea guarda agli Stati Uniti nello stesso modo in cui gli americani guardano al Messico".