Quel biodiesel è una truffa, le

cui conseguenze sono fame e

ulteriore inquinamento

(A cura di Claudio Prandini)

 

 

INTRODUZIONE

Uno studio di una società di consulenza mostra che i carburanti derivati dai semi di colza non emettono minori quantità di gas serra. Il carburante estratto dalla colza sembra infatti inquinare di più di quello tradizionale. Interessi forti (come per esempio le grandi compagnie petrolifere, con Eni in testa, che hanno fiutato grossi guadagni nel settore dei biocarburanti) sostengono una bufala affascinante e pericolosa.

Tra le vittime dell'allucinazione collettiva chiamata "biodiesel" non ci sarebbero solo i creduloni che travasano nel serbatoio della propria auto l'olio di colza comprato alla Lidl, ma probabilmente tutti i cittadini del globo con i loro rispettivi governi. Lo sfruttamento di vaste distese per produrre biodiesel toglierebbe terreno per produrre cibo, soprattutto nel terzo mondo, incrementando così ancora di più la miseria, l'impoverimento e il disboscamento di vaste aree della terra!

Non c'è alternativa: o si abbassano i livelli dei consumi nei paesi ricchi, con una ripartizione e una decrescita energetica a livello globale (che equivarrebbe ad una specie di economia di guerra), oppure la povertà, la miseria e le guerre diverranno tragicamente sempre più endemiche per il nostro pianeta! Già una sempre più larga fascia di popolazione appartenente al mondo del benessere si sta avvicinando a quel "disagio" economico che è l'anticamera della povertà, rendendo così la pace e la prosperità dei popoli un obiettivo sempre più lontano se non illusorio se non si cambierà in fretta...

 

 

Piantagione di Colza che serve per il biodiesel

 

 

 

 

 

Biodiesel:

soluzione o problema?

Fonte web

Come affrontare la decarbonizzazione dei nostri sistemi di trasporto? Poichè alcune forme di trasporto, come quello aereo, dipendono da combustibili ad alta densità (nel senso che contengono molta energia relativamente al loro volume), si tratta di una questione spinosa. Alcuni tentativi di risolverla prevedono la preparazione di combustibili speciali ricavati da biomassa o altre fonti rinnovabili. Questa via si sta però rivelando controproducente, in quanti i carburanti coltivati risultano più cari di quelli fossili, tanto che per arrivare al cliente necessitano di sussidi e di agevolazioni fiscali. Un dottorato di ricerca sull'impatto dei biocarburanti è stato recentemente concluso da Daniela Russi, presso l'università di Barcellona, e le conclusioni non sono certo confortanti [qui la presentazione all'Università di Pisa - pdf].

Secondo lo studio il risparmio effettivo delle emissioni di gas serra, dato dalla sostituzione del 5,75% dei carburanti fossili con biocarburanti (obiettivo fissato dall'UE entro il 2010), non raggiungerebbe nemmeno l'1%. Nel caso italiano, nelle ipotesi più favorevoli, per risparmiare l'1,3% di emissioni di gas serra si dovrebbe utilizzare il 30% del suolo agricolo (con altissimi costi di riconversione) e aumentare di un quarto le importazioni di grano. Questa modesta riduzione è dovuta a tutta una serie di concause, fra cui l'utilizzo di combustibili fossili per i macchinari necessari alla produzione, per il trasporto e per la fabbricazione di fertilizzanti e pesticidi. Inoltre per il consumatore non potrebbe risultare economicamente vantaggioso, in quanto il prezzo del biodiesel è legato a quello dei combustibili fossili, per i motivi sopracitati. Anche dal punto di vista della riduzione dell'inquinamento urbano i risultati non sono assolutamente incoraggianti, anzi, risulta svantaggioso rispetto a benzina, gpl e metano, come dimostrano le tabelle seguenti (ricavate dallo studio della dottoressa Russi):

 

 

 

Risultati simili sono stati ottenuti da scienziati dell'Università di Stanford e dalla rivista "Chemistry & Industry" (Petroleum diesel vs biodiesel di Eric Johnson and Russell Heinen), secondo cui il risparmio colplessivo di gas serra non sarebbe del 60%, ma fra il 25% e lo zero [link]. Inoltre secondo "Archives of Toxicology" i fumi di scappamento del biodiesel risulterebbero fino a 60 volte più cancerogeni degli altri: Compared to DF [diesel fuel] the two RSO [rapeseed oil] qualities significantly increased the mutagenic effects of the particle extracts by factors of 9.7 up to 59 in tester strain TA98 and of 5.4 up to 22.3 in tester strain TA100, respectively. In aggiunta al problema delle emissioni e del consumo di combustibili fossili c'è anche quello dei terreni coltivabili. Se l'Italia necessiterebbe di un terzo della propria superficie coltivabile, l'UE dovrebbe dedicare il 18% di tutte le sue terre arabili alle agrienergie. Cifre incompatibili con la disponibilità massima di terreni prevista per tali colture. Sarebbe quindi necessario che più dei due terzi di biocombustibili bruciati in europa vengano coltivati altrove.

Scelta che gioverebbe ad Eni e agli altri giganti del petrolio mondiale, che da tempo hanno messo le mani sulla manodopera a basso costo nelle coltivazioni della canna da zucchero brasiliana e il frutto della palma sudafricano. Il 27 marzo scorso, durante il soggiorno di Prodi a Brasilia, è stato firmato un "Memorandum of undestanding" tra Eni e Petrobras per la valutazione congiunta di alleanze strategiche nella produzione di biocarburanti e nella produzione di petrolio. Secondo comunicato stampa divulgato dall'Eni, le due società uniranno le proprie tecnologie esclusive per la produzione di biodiesel ed etanolo sia in Brasile che in paesi terzi.

Il rischio in cui incorrono i PVS nell'investire nelle agrienergie è la deforestazione, il degrado del suolo e lo spreco di quantità enormi di acqua. Senza contare il fatto che la crescente richiesta di questi raccolti andrebbe a danno della terra arabile per l'agricoltura alimentare, sacrificando la disponibilità di cibo (il mais necessario a riempire il serbatoio di un'auto sfamerebbe una persona per un anno). Comunque si faccia, non c’è speranza di conciliare le esigenze agricole tradizionali con la fame di carburante dell’attuale flotta di veicoli privati. Saziare la fame di questa orda di creature metalliche significherebbe affamare altre creature non metalliche, ovvero noi umani. Del resto, l’Europa agricola di un secolo fa non era neanche lontanamente in grado di nutrire un numero di cavalli equivalente a quello delle automobili attuali.

 

 

Quel biodiesel non sa da fare...

 

 

 

Energia: import biocarburanti

dall'Africa danneggia l'ambiente
E' quanto afferma la Coldiretti che, in riferimento alle

 dichiarazioni dell'amministratore delegato dell'ENI Paolo Scaroni
 

(Purtroppo questa ci sembra più che altro una guerra tra i colossi dell'energia che vogliono guadagni facili e senza grossi problemi di tipo ecologico o sociale - visto che operano soprattutto nel terzo mondo - e coloro che vedono il loro reddito diminuire sempre di più, cioè i contadini italiani. Litigare per poter produrre colza da biodiesel anche in Italia ci sembra più che altro un voler raschiare un barile che è sempre più vuoto, senza tener conto però delle ricadute negative nel comparto agro-alimentare del nostro paese, sia a medio che a lungo periodo... Nota del webmaster)
 

Fonte web - 16 Maggio 2007

L'importazione di biocombustibili dall'Africa provoca gravi problemi all'ambiente e alla biodiversità con la scomparsa degli animali selvatici e si scontra con un consumo aggiuntivo di energia per il trasporto e un inquinamento che in parte vanificano gli obiettivi prefissati.


E' quanto afferma la Coldiretti che, in riferimento alle dichiarazioni dell'amministratore delegato dell'ENI Paolo Scaroni, sottolinea la necessità di vincolare le agevolazioni per lo sviluppo dei biocarburanti all'origine nazionale delle coltivazioni agricole impiegate per evitare di sostenere scelte sbagliate con bilanci energetici e ambientali negativi, soprattutto ora che l'Unione Europea ha chiesto all'Italia di tagliare del 6,3 per cento le emissioni di CO2 del piano nazionale per far fronte ai cambiamenti del clima. Se in Angola il recupero di terreni per le coltivazioni a fini energetici mette a rischio l'antilope nera e il bongo, nel Congo è in pericolo lo scimpanzé mentre in Brasile l'allarme estinzione riguarda il giaguaro e il tapiro. E - continua la Coldiretti - si tratta di un business che comporta lunghi trasporti che sono fonte di inquinamento ambientale e consumi energetici che compromettono l'efficacia dell'operazione. Ad esempio per l'olio vegetale di origine brasiliana - precisa la Coldiretti - il chilometraggio percorso con la nave è di oltre 9mila chilometri con un consumo energetico che corrisponde al 6 per cento dell'energia contenuta nei prodotti trasportati, mentre per quello in arrivo dal Congo per una distanza di oltre 5mila chilometri si consuma il 3,3 per cento dell'energia trasportata.

L'Italia dispone - sostiene la Coldiretti - dei terreni, delle professionalità e delle tecnologie adeguate a sviluppare all'interno dei confini la produzione di biocarburanti senza dover ricorrere all'importazione di olio di palma dall'estero da raffinare nei porti. La recente firma dell'accordo quadro di filiera per lo sviluppo di energie rinnovabili consentirà - prosegue la Coldiretti - per il 2007 la coltivazione di semi oleosi a fini energetici, come colza e girasole, per 70mila ettari di terreno dai quali è possibile ottenere circa 70mila tonnellate di biodiesel. La superficie coltivata - continua la Coldiretti - sarà incrementata negli anni successivi a 180mila ettari nel 2008 e a 240mila ettari nel 2009 che significa un risparmio di 250mila tonnellate di equivalente petrolio per permettere all'Italia di avvicinarsi all'obiettivo fissato dalla Commissione Europea con la prospettiva di aumentare entro il 2020 la proporzione di utilizzo fino al 10 per cento.

 

L'ultima legge finanziaria - riferisce la Coldiretti - prevede che i biocarburanti come il biodiesel o il bietanolo ottenuti dalle coltivazioni agricole devono essere distribuiti in Italia nel 2007 in una quota minima dell'uno per cento, di tutto il carburante (benzina e gasolio) immesso in consumo nell'anno solare precedente, che salirà al due per cento nell'anno 2008. Poiché al momento nemmeno l'ombra di biocarburante sembra essere presente nei normali distributori, anziché pensare all'estero, è evidente la necessità - sostiene la Coldiretti - di emanare al più presto il provvedimento che fissa le sanzioni amministrative e pecuniarie per il mancato rispetto di questo obbligo per consentire all'Italia di colmare il ritardo nello sviluppo di energie rinnovabili provenienti dall'agricoltura, dopo gli impegni assunti dal Vertice dei Capi di Stato e di Governo della Ue. Per il mancato raggiungimento di questo obbligo devono essere infatti fissate - sottolinea la Coldiretti - le sanzioni amministrative pecuniarie, proporzionali e dissuasive con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, il Ministro dell'ambiente e il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali.

 

I biocarburanti derivano dalle coltivazioni agricole che l'agricoltura italiana - continua la Coldiretti - produce in abbondanza e in particolare il bioetanolo che viene prodotto tramite processi di fermentazione e distillazione di materiali zuccherini, amidacei o sottoprodotti come cereali, barbabietola da zucchero e prodotti della distillazione del vino, mentre il biodiesel deriva dall'esterificazione degli oli vegetali ottenuti da colture come il colza e il girasole.

L'utilizzazione di biocarburanti Made in Italy - conclude la Coldiretti - offre un contributo concreto per contrastare i cambiamenti del clima e il riscaldamento globale con il biodiesel che consente di ridurre dell'80 per cento le emissioni di idrocarburi e policiclici aromatici e del 50 per cento quelli di particolato e polveri sottili.
 

 

 

 

 

Petrolio addio,

ecco le Transition Town

Fonte web

I ribelli contro i combustibili fossili si costituiscono in rete, cercando di sostituire l'azione politica, sinistramente e pericolosamente inattiva.

Rischia di diventare il fenomeno internet dell'anno: un'organizzazione dal basso, formata da privati cittadini, con un sito collaborativo (wiki), si propone di colmare un vuoto lasciato dalla politica ufficiale, inerme e schiava delle pressioni dei petrolieri, e progettare la civiltà del dopo-petrolio, nel segno della "decrescita energetica".

L'iniziativa è partita l'anno scorso da due cittadine anglosassoni: Kinsale, in Irlanda, e Totnes, nel Devon; ora sta lentamente contaminando varie municipalità del Regno Unito. Si chiama Transition Towns (città di transizione) e sta guadagnando sempre maggiore visibilità nella rete. Le comunità che hanno aderito sono per il momento una quindicina, ma ciò è comprensibile, dato il notevole impegno richiesto.

Come ogni movimento che si rispetti, ha un capo carismatico: il docente universitario Rob Hopkins, che fa da coordinatore. Sulle riserve petrolifere Hopkins è uno dei pessimisti, uno di quelli che pensano che entro cinque anni il petrolio raggiungerà il picco di Hubbert, ovvero l'inizio del declino della capacità estrattiva.

Secondo questa previsione, non c'è un "piano B". L'era del petrolio sta volgendo precipitosamente verso la fine. Poiché non abbiamo ancora trovato un'altra fonte di energia sufficiente a sostituirlo, la sola risposta razionale è progettare la nostra decrescita energetica. Occorre pensare a una vera e propria economia di guerra: "La vita del dopo-petrolio sarà molto diversa da quella attuale", sostiene Hopkins.

"È bene evitare di riporre speranze in soluzioni impossibili", incalza Hopkins, "come l'idrogeno, per esempio". Per far circolare a idrogeno o a batteria le auto di una nazione come la Gran Bretagna occorrerebbero sessantasette centrali nucleari, oppure una centrale eolica più grande dell'intero Galles.

I biocombustibili? Altra bufala: servirebbero venticinque milioni di ettari di terreno coltivato a colza, vale a dire quasi cinque volte la superficie coltivabile del Regno Unito. E bisogna pur mangiare.

L'agricoltura attuale, più che produrre combustibili, sembra sia più votata al loro consumo: fertilizzanti sintetici derivati dal petrolio, pacciamatura con teli di plastica, pure derivati dal petrolio, e un sistema di produzione accentrato in grossi distretti monocolturali, che riforniscono interi continenti, tanto per consumare un po' di carburante in più.

Non tutti la pensano come Hopkins: George Monbiot, editorialista del Guardian, vicino al movimento dei townies, è convinto che il picco di Hubbert sia soltanto "relativamente vicino". Potremmo avere da dieci a trent'anni davanti a noi, tenuto conto anche delle riserve di carbone. Ma il cambiamento climatico, dovuto all'eccesso di CO2 in atmosfera, si farà sentire pesantemente ben prima del picco.

Al di là dei leader, è l'iniziativa dei singoli a costituire la forza del sistema. Ogni comunità sviluppa le proprie proposte, e le mette a disposizione di tutti, in pieno rispetto della filosofia hacker.

Vi sono agricoltori e commercianti biologici che si interessano anche del tragitto dei loro prodotti, associazioni di cittadini che progettano di interrare tubi per estrarre dal sottosuolo calore d'inverno e frescura d'estate.

Le proposte fioccano: vietare la pubblicità che stimola i consumi, installare pale eoliche, chiudere gli ipermercati, isolare termicamente le abitazioni, convertire appezzamenti inutilizzati in orti, piantare alberi come i noci, in grado di costituire fonte di cibo per eventuali emergenze alimentari, di abbattere efficientemente grandi quantità di anidride carbonica, ed essere eventualmente bruciati per produrre energia.

Ma non ci si limita alla bio-architettura. Le proposte abbracciano anche profondi cambiamenti nelle relazioni economiche, come l'introduzione una moneta sociale, che possa essere spesa solo per prodotti dell'economia locale, a minimo chilometraggio, oppure l'assegnazione a ogni prodotto di un punteggio, in relazione al peso del carburante impiegato per produrlo e portarlo a destinazione.

 

 

APPROFONDIMENTO

 

ATTUALITÀ BIODIESEL