STORIA CONTEMPORANEA:

QUANDO A REGGIO EMILIA

NACQUERO LE BRIGATE ROSSE

 

40 ANNI FA NASCEVA NEL REGGIANO IL GRUPPO

TERRORISTA CHE SCONVOLSE L'ITALIA

 

"E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui" (Brano di Papa Paolo VI tratto dall'Omelia del 13 maggio 1978 nella Basilica di San Giovanni in Laterano durante il rito funebre in suffragio dell'onorevole e amico Aldo Moro, ucciso qualche giorno prima dalle BR dopo 55 giorni di prigionia).

 

(di Claudio Prandini)

 

 

LETTERA DEL SANTO PADRE PAOLO VI
ALLE BRIGATE ROSSE


Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l'onorevole Aldo Moro. Io non vi conosco, e non ho modo d'avere alcun contatto con voi. Per questo vi scrivo pubblicamente, profittando del margine di tempo, che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciata contro di lui, Uomo buono ed onesto, che nessuno può incolpare di qualsiasi reato, o accusare di scarso senso sociale e di mancato servizio alla giustizia e alla pacifica convivenza civile. Io non ho alcun mandato nei suoi confronti, né sono legato da alcun interesse privato verso di lui. Ma lo amo come membro della grande famiglia umana, come amico di studi, e a titolo del tutto particolare, come fratello di fede e come figlio della Chiesa di Cristo.

Ed è in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi, che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l'onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa intercessione, ma in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità, e per causa, che io voglio sperare avere forza nella vostra coscienza, d'un vero progresso sociale, che non deve essere macchiato di sangue innocente, né tormentato da superfluo dolore. Già troppe vittime dobbiamo piangere e deprecare per la morte di persone impegnate nel compimento d'un proprio dovere. Tutti noi dobbiamo avere timore dell'odio che degenera in vendetta, o si piega a sentimenti di avvilita disperazione. E tutti dobbiamo temere Iddio vindice dei morti senza causa e senza colpa. Uomini delle Brigate Rosse, lasciate a me, interprete di tanti vostri concittadini, la speranza che ancora nei vostri animi alberghi un vittorioso sentimento di umanità. Io ne aspetto pregando, e pur sempre amandovi, la prova.

Dal Vaticano, 21 aprile 1978 - PAULUS PP. VI

 

 

INTRODUZIONE

 

Anche se i tempi sono diversi da quelli di 40 anni fa il terrorismo in Italia potrebbe tornare se la classe politica non farà, e presto, un salto di qualità. Un politica basata sulla rissa perpetua, sullo scandalo, sull'additare nell'altro il nemico politico da abbattere con ogni mezzo, lecito o illecito che sia (con una crisi morale, istituzionale ed economica che attanaglia sempre più il paese), non fa altro che preparare tempi ancora più duri per l'Italia. Se poi ci si mette anche il capo del governo, Silvio Berlusconi, con frasi del tipo: "Dimissioni? Piuttosto la guerra civile". Beh, la cosa si fa grave! Chi non impara dal passato è destinato a riviverlo!

 

***

 

Estate 1969. A Reggio, con un anno di ritardo, arriva il vento della contestazione studentesca e operaia. Un gruppo di giovani, in gran parte provenienti dal Pci e dalla Fgci, ma anche dal mondo cattolico e dall'area anarchica, comincia a ritrovarsi in una grande soffitta in via Emilia S. Pietro 25. E' il cosiddetto gruppo dell'appartamento. Un anno dopo, nell'agosto del 1970, in una trattoria di Costaferrata, nascono le Brigate Rosse. Ne fanno parte 8 giovani reggiani che frequentavano l'appartamento: Alberto Franceschini, Loris Tonino Paroli, Prospero Gallinari, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Roberto Ognibene, Fabrizio Pelli e Attilio Casaletti. In particolare Franceschini, Gallinari, Bonisoli e Ognibene avranno negli anni a venire un ruolo di primissimo piano nella storia della stella a cinque punte.
Attraverso le testimonianze dei protagonisti dell'epoca, Paolo Pergolizzi, vice caposervizio del Giornale di Reggio, analizza in particolare il rapporto fra la federazione reggiana del Pci e i futuri brigatisti fra il 1969 e il 1970: 'Il Partito comunista Italiano aveva un atteggiamento ambivalente - sostiene. - Controllava quei giovani, li spiava e poi passava le informazioni alla Questura. C'era un filo diretto. Anche se poi, sia il Pci, sia la Polizia sottovalutarono il fenomeno, non riuscirono a capire la pericolosità delle nascenti Brigate Rosse. E obiettivamente bisogna ammettere che non era facile'.
Il libro parte da una domanda ineludibile: come è stato possibile che una piccola città di provincia, priva di università e di grandi fabbriche, abbia fornito un così grande contributo alla lotta armata? L'autore individua essenzialmente tre risposte: la presa del mito della Resistenza tradita e l'insoddisfazione per la politica moderata del Pci, l'influenza del vecchio leader comunista Pietro Secchia e lo shock rappresentato dall'eccidio del 7 luglio 1960. (dal libro che rievoca la nascita delle Brigate Rosse a Reggio Emilia, “L’appartamento” del giornalista Paolo Pergolizzi)

 

 

Breve presentazione del film

 

Ognibene e Franceschini sul set del documentario

Il sol dell'avvenire - Un film documentario di G. Fasanella e Gf. Pannone per la regia di Gf. Pannone. Il film rivelazione sulla nascita della Brigate Rosse

Reggio Emilia, autunno 2007. Alcuni dei “ragazzi del 1969” si ritrovano dopo quasi 40 anni nello stesso luogo, un ristorante sulle colline, dove il gruppo dell’Appartamento compì il salto tragico e fatale nella lotta armata. Seduti intorno a un tavolo, con rievocazioni a tratti drammatiche, Franceschini, Paroli e Ognibene (tre ex brigatisti tornati alla vita normale dopo una lunga detenzione nelle prigioni di mezza Italia) insieme a Paolo Rozzi e Annibale Viappiani (che non aderirono alle Brigate rosse, e oggi sono impegnati il primo nel Partito Democratico, il secondo nel sindacato ) ripercorrono una sorta di viaggio a ritroso, alla ricerca delle motivazioni più profonde delle rispettive scelte. A integrare le ricostruzioni dei cinque protagonisti, due testimoni davvero sorprendenti, che in vario modo e a vario titolo parteciparono alla esperienza dell’Appartamento: Corrado Corghi, ex dirigente della Democrazia Cristiana ed esponente del cattolicesimo del dissenso, e Adelmo Cervi, figlio di Aldo, uno dei sette fratelli comunisti trucidati dai nazifascisti nel ’43.

 

 

Il rapimento di Moro - pagina tragica del nostro paese

 

 

FRA STORIA E MITO

Fonte web

Le Brigate rosse non nacquero dal nulla ma da una nebulosa nella quale si scorgevano l’insostenibile pesantezza del potere, e pure del 68, quello francese, soprattutto, con gli studenti che avevano alzato le barricate  e riempito dei loro sussulti i muri delle università. “vietato vietare. La libertà comincia con un divieto: quello  di nuocere alla libertà altrui “.

Un altro diceva: “ ogni comunista deve assimilare che il potere è in punta ai fucili” (Mao). Quel vento che spazzò l’Europa faceva pensare che tutto fosse possibile, a portata di mano, giusto.

A Trento gli studenti di Sociologia cedettero  di catturarlo nelle loro vele e lo stesso pensarono i proletari di Reggio Emilia, di Milano, di Genova, di Torino, della Toscana e poi di Napoli e di Roma. In Lotta continua e Potere Operaio militavano  troppi ideologi ascoltati  e seguiti da ragazzi convinti di cambiare il mondo con la pistola e le molotov.” Il nostro sabotaggio organizza l’assalto proletario al cielo”proclamò ne “ Il dominio e il sabotaggio” Toni Negri, pessimo fra troppi “cattivi” maestri..oggi “ravveduti?

Questi ragazzi gli cedettero! I militanti morti saranno 68/69. Fra  i primi gruppi clandestini quello genovese  chiamato XXII Ottobre, poi, naturalmente, Potere Operaio e Lotta Continua, quindi Azione Rivoluzionario , . Nuclei armati proletari, Prima Linea, Ucc, UdCC,  formazioni comuniste combattenti, per proseguire,  Pcc, XXVII Marzo. Insomma , i maggiori sono una trentina a cui vanno aggiunti altri 78 “minori”, fino ai giorni nostri con i Nuclei territoriali antimperialisti (NTA) che hanno firmato l’assassinio di Biagi.

Chi erano i protagonisti di quella rivoluzione invano annunciata? Che cos’era il “gruppo dell’appartamento”? Quanta parte ebbe nel delirio rivoluzionario di quell’inizio anni settanta l’editore rivoluzionario, idealista, Giangiacomo Feltrinelli? Chi era frate mitra? era un frate vero o un’invenzione dei carabinieri? Che ruolo ebbe il Gen Dalla Chiesa?

Renato Curcio chi era e che ruolo ebbe nelle prime fasi della lotta armata? Franceschini, Moretti e l’avv Giovan Battista Lazagna al quale per primo fu affibbiata l’etichetta di “grande vecchi” del terrorismo.

Negli anni 90 dalla nebbia emerse il nome di un altro possibile burattinaio del terrorismo, Igor Markewicth, il “principe”, un musicista russo di non discutibile talento trapiantato sui colli toscani, un “romantico”, un animo sensibile, racconteranno i suoi scelti amici dell’aristocrazia fiorentina, un po’ sorpresi che anni dopo la sua morte, avvenuta ad Antibes nel 1983, si parlasse di  lui, Igor l’artista, come del regista occulto del sequestro Moro,”Uno un po’ tenebroso e ombroso, un po’ rustico, molto di sinistra, anzi diceva di essere proprio comunista, ortodosso, un sovietico doc. Nato a Kiev nel 1912 aveva quattro anni quando con la famiglia si era trasferito in Svizzera, poi a Parigi, la  dimestichezza con Stravinskjj, Cocteau, e Ricasso.

In Svizzera dimorava in una villa in riva al lago di Ginevra, ma forse la sua patria vera fu Firenze, dove, fino al 45 visse ospite del grande critico e storico dell’arte Bernard Berenson nella villa  “I Tatti”. Partigiano  con i Gap raccontò l’esperienza nel libro autobiografico”Made in Italy” uscito in Francia e poi da Enauidi..

Questo signore raffinato, abituato alle dolcezze russe, un uomo quasi da salotto come lo ha ricordato Leonardo Pinzatiti ascoltato critico musicale della “La Nazione” di Firenze , ebbene questo signore avrebbe gestito, comandato, i brigatisti offrendo loro anche nascondigli sicuri e assolutamente insospettabili, questo secondo la procura della Repubblica di Firenze sorpresa, come i vecchi amici, dell’ipotesi che il brillante e attempato artista potesse essere il cervello della rivoluzione.

Le Brigate rosse sono un’organizzazione che prende  delle decisioni collettive, se ci fosse qualcuno che da fuori guida tutto, avrebbero dovuto saperlo tutti quelli che in questi anni  sono stati nella direzione strategica o nell’esecutivo. Cioè decine di brigatisti.

E altri interrogativi, da allora. Quale era il metodo inquisitorio del giudice istruttore torinese G. G. Caselli? E quello di Bruno Caccia, sanguigno procuratore di Torino? Quale, il primo attacco”al cuore dello stato”? Davvero fino al rapporto Mitrokhin, diffuso alla fine del 2000 si è ignorata l’esistenza dei campi per guerriglieri in Cecoslovacchia?

Si è creduto a lungo che le Brigate rosse fossero nate dopo un congresso all’hotel Stella Maria di Chiavari, autunno 1969. Ecco forse, in Liguria vennero decise clandestinità e lotta armata ma la scelta di dar vita a una società anonima del terrore era stata fatta altrove. Tonino Loris Paroli, militante della colonna  torinese delle bierre, nessuna condanna per fatti di sangue il che  non gli ha impedito come dice, di farsi “sedici anni di frigorifero” , ha raccontato la vera nascita del gruppo che avvenne” da Gianni” ristorante a Costaferrata di Casina, a 650 metri sui monti intorno a Reggio Emilia. Di fronte al castello di Matilde di Canossa. Fu un vero congresso, durò dal Lunedì al Sabato. Parteciparono una settantina di compagni che avevano preso alloggio nelle case del paese e chiesto aiuto anche al parroco, Don Emilio Manfredi. Il maresciallo dei carabinieri avvertito della riunione si informò se disturbassero e poi non si occupò più della faccenda. E pensare che fra i partecipanti molti sarebbero stati dei protagonisti negli anni successivi.

Come i duri di Reggio, quelli “dell’appartamento” quasi al completo Sinistra Proletaria, i compagni di Milano, di Torino, di Genova, due di Trento. Tutti ragazzi seri, anche troppo, taciturni. A volte stavano insieme, altre volte si dividevano in gruppetti per boschi e campi. Discussioni roventi, ma quando parlava Curcio piombava il silenzio,. Al contrario di Mara, sua moglie, non era un’oratrice: fece soltanto un mezzo intervento.

E verso l’una tutti da “Gianni” a mangiare dopo lunghe camminate fra i boschi come se fossero marce sulla Sierra Madre, con Fidel , Enesto Guevara o Camillo Cianfuegos. Soprattutto venivano letti il” diario del Che in Bolivia” e il piccolo  manuale del guerrigliero urbano del brasiliano  Carlos Marighella.

Ci dicevano che la nostra giungla sarebbe stata la strada della città, Roma, Milano, Torino, Genova e non le selve del Vietnam, o della Bolivia.

Paroli  racconta le grandi mangiate, ma prima coro d’obbligo, tutti cantavano Bella Ciao poi giù con affettati misti, salame casalingo, salsicce, prosciutto crudo,  il tutto annaffiato da un frizzantino “capace anche di offuscare il ricordo di Lenin”.. Quindi tortelli di bietola, caserecci, lasagne, cannelloni cappelletti in brodo, secondi all’altezza, con arrosti misti coniglio faraona,, agnello e naturalmente cotechino…e tanto lambrusco per benedire il tutto. Prezzo proletario 4 mila . Per la prima volta tra quei  monti, Mara, Renato e gli altri proveranno le armi, Curcio non c’era tagliato, ma voleva fare tutto. (...)

 

 

 

 

 

Qui Brigate rosse

 Il racconto, le voci, Vincenzo Tessandori,

Baldini Castoldi Dalai (pp. 782, e22) marzo 2009

Fonte web

Vincenzo Tessandori, per anni inviato della Stampa, mette nero su bianco una «cronaca ravvicinata» della nascita, dello sviluppo e della sconfitta delle Brigate rosse. Riscostruisce le azioni, i progetti, le crisi del gruppo con una preoccupazione di metodo: «Ho cercato di lasciare fuori da queste pagine l’alluvione chiamata “dietrologia”, che certo ha un suo fascino e un suo forte sapore, ma nient’altro che la giustifichi».

Una trattoria sui monti del Reggiano con Curcio & C. - Qui nascono simbolo e il primo nome delle future Br

VINCENZO TESSANDORI

La nascita dell’organizzazione fu decisa altrove, sui monti del Reggiano. Quel luogo mi venne mostrato da Tonino Loris Paroli «Pippo», un operaio di Reggio Emilia, uno della colonna Mara Cagol, che ha scontato sedici anni di carcere, ma non per reati di sangue, divenuto più tardi apprezzato pittore. Riferii il suo racconto su La Stampa del 24 ottobre 1991: «L’incontro è “da Gianni”, a Costaferrata di Casina, sulle colline aspre fuori Reggio, quota 650, di fronte ai resti nobili del castello di Matilde di Canossa. Verde e tranquillità, atmosfera familiare, cucina invitante, lambrusco schietto e allegro: anche la rivoluzione ha le sue sane esigenze.

«Perché fra riunioni, dibattiti, discussioni, piani, confronti, litigi, orazioni, deliri, assemblee, canti, analisi, tesi, scazzi, sintesi, accuse, controaccuse, seminari, progetti, sogni e utopie nell’estate del 1970, un’era remota, al ristorante “da Gianni” nacquero le Brigate rosse. Tutto è rimasto come allora. Tonino Loris Paroli, che ha oggi 47 anni, in quei giorni c’era e ha un ricordo nitido. [...] “Quello fu un vero congresso, durò dal lunedì al sabato”. C’erano i duri di Reggio, quelli “dell’appartamento” e “c’era Sinistra proletaria” quasi al completo, i compagni erano venuti da Milano, da Trento, da Genova, due da Torino.” Come Curcio e Cagol, come Franceschini e Prospero Gallinari, alla fine del seminario anche lui avrebbe scelto la clandestinità. Fa parte del “gruppo storico” dell’organizzazione e nel 1975 viene arrestato a Torino, dove si è trasferito per svolgere il lavoro nel “fronte di massa”.

«È il primo brigatista rosso libero per “fine pena”. [...] Lo hanno condannato a trent’anni: “Un po’ per i fatti delle Br, soprattutto per le ingiurie ai magistrati durante i processi”, spiega. I cancelli del carcere si sarebbero dovuti aprire dopo il Duemila, ma la magistratura milanese ha riconosciuto la continuazione dei reati. Gli piace ridere, ha il carattere estroverso dei contadini emiliani: “Sono rimasto sedici anni in frigorifero”, scherza, ma subito puntualizza: “Non ci sono state parti civili contro di me, insomma, non ho né ferito né ammazzato”. Quando lo arrestano le Br hanno ucciso una sola volta, a Padova: “Era stato un incidente e, comunque, nessuno negò il fatto. Una caratteristica dell’organizzazione era rivendicare tutto, anche le cose che potevano risultare dannose. Insomma, come ha detto qualcuno, la verità è rivoluzionaria. Sinceramente non so se in situazioni diverse avrei sparato oppure no”.

«Quell’estate era calda. I “compagni”, una settantina, si erano sistemati in molte case del paese. Avevano chiesto aiuto anche al parroco, don Emilio Manfredi, allora quarantanovenne. “Ma poi la canonica l’avevano lasciata da parte”, ricorda il sacerdote. “Di quelle riunioni vennero avvertiti anche i carabinieri, il maresciallo s’informò se disturbavano, poi non si occupò più della faccenda. Mah!, e pensare che fra loro c’erano tutti quelli dei quali si sarebbe parlato per anni. In ogni modo, ragazzi seri, anche troppo, taciturni, a volte stavano tutti insieme, altre si dividevano in gruppetti, per boschi e campi.” Talvolta le discussioni sembravano risse. “Ma quando parlava Curcio piombava il silenzio. Al contrario, Mara, sua moglie, non era un’oratrice: fece soltanto un mezzo intervento.” Intorno all’una, tutti “da Gianni”, spossati: dalla fatica di preparare la rivoluzione, dalle lunghe ore trascorse al sole e dalle passeggiate sui colli che qualcuno viveva quasi fossero le marce attraverso la Sierra Madre in compagnia di Fidel, di Camillo Cienfuegos ma, soprattutto, del Che.

Il Diario del Che in Bolivia era un best-seller e il Piccolo manuale del guerrigliero urbano, del brasiliano Carlos Marighella, era un testo sacro. “La nostra giungla, dicevamo, sarebbe stata la metropoli e non la selva del Vietnam.” Più avanti, in una di quelle strette gole senza eco, Loris, Renato e Mara avrebbero provato le prime armi. I dibattiti dei futuri brigatisti partivano dalla crisi dell’estrema sinistra, dopo l’attentato di piazza Fontana. Entravano vocianti nel locale e subito il tono delle discussioni si affievoliva. Li attendevano Gianni Incerti e la moglie Anna. “Ma sì, ci avevano detto che erano venuti per motivi di studio e infatti davano l’impressione di esser studenti. Ma dopo un paio di giorni abbiamo dubitato un po’, ‘non ce la raccontano mica giusta’, ci siam detti. Dopo mangiato si ammucchiavano nel salone, chiudevano le finestre, parlavano da soli, fitto fitto, a voce bassa.” Ma pranzo e cena erano un momento di gloria collettiva. [...] Ricorda l’Anna che il menu era “robusto”. Appena dopo il coro di Bella ciao arrivavano gli antipasti misti: salame nostrano, salsicce, prosciutto crudo, i “ciccioli” micidiali e un frizzantino da far impallidire anche il ricordo di Lenin. Poi i primi: tortelli di bietola caserecci, lasagne, cannelloni, cappelletti in brodo.

[...] «Così per giorni. Le Brigate rosse non erano ancora nate ufficialmente, ma qualcuno già si dava da fare per trovare simbolo e sigla della futura organizzazione». Si pensò alla stella. Ricorda Franceschini: «Come simbolo scegliemmo quella dei Tupamaros uruguayani. Ma non riuscivamo a farla regolare, ci veniva sempre sbilenca, tanto che un giorno proposi: “Perché non la lasciamo così?” Decidemmo d’inscriverla in un cerchio e, per il disegno, avevamo bisogno di qualcosa facilmente a portata di mano: si pensò alla moneta da 100 lire, nacque così il nostro “marchio”». Bisognava trovare un nome al gruppo. Un giorno di settembre del 1970, mentre a Milano rincasava in 500 col marito Renato Curcio, ragionando ad alta voce su come chiamare il gruppo, Margherita Cagol osservò che il primo «atto di guerriglia in Europa» era stata la liberazione di Andreas Baader, in Germania, ad opera della Raf, la Frazione Armata Rossa. «Nel nostro caso Armata mi sembra eccessivo. Ma brigata mi piace: brigata rossa.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le Brigate Rosse, dal PCI alla lotta armata

Paolo Pergolizzi, giornalista del Giornale di Reggio

Fonte web

Il libro che ho scritto, L'appartamento, nasce da una riflessione che mi è venuta spontanea dopo che facevo il giornalista da diversi anni nella mia città. Si svolgevano le elezioni amministrative del 2004 in cui si doveva eleggere il sindaco. In campagna elettorale fu tirato fuori un vecchio episodio che risaliva alla fine degli anni Sessanta e che coinvolgeva un politico che poi sarebbe diventato vicesindaco della città. Alberto Franceschini, reggiano, uno dei fondatori delle Br, raccontò in un libro intervista realizzato con il giornalista italiano Giovanni Fasanella, che il futuro vicesindaco di Reggio, quando aveva vent'anni, era andato nelle campagne reggiane con lui per andare e prendere un mitra che i partigiani avevano nascosto nel dopoguerra quando ancora c'era il mito di poter fare la rivoluzione. Quella dichiarazione fu smentita dal diretto interessato, ma i giornali locali, ovviamente, scrissero a lungo di quell'episodio che avvenne nel 1969, circa un anno prima che si costituissero le Br. Raccontarono che all'epoca, in città, c'era un luogo in cui i giovani fuoriusciti dalla Federazione dei Giovani Comunisti Italiani si riunivano che si chiamava l'Appartamento e di come molti degli appartenenti all'Appartamento sarebbero poi finiti nelle Brigate Rosse. Io, all'epoca, avevo due anni e non avevo mai sentito parlare di questo luogo, anche perché la genesi delle Br nella mia città è, come si può ben capire, un argomento tabù di cui la sinistra parla malvolentieri. Iniziai così a fare delle ricerche e da queste indagini venne fuori il libro l'Appartamento.

Il focus da cui sono partito è appunto dato da questo appartamento, un luogo in pieno centro a Reggio in cui, fra il 1969 e il 1970, si raccoglievano i giovani estremisti e non dell'epoca sognando di fare la rivoluzione. Rimasi colpito dal fatto che una buona parte di quei ragazzi sarebbero poi entrati nelle Br e avrebbero sconvolto l'Italia negli anni successivi. Così ho iniziato a cercare le persone che frequentavano, o comunque gravitavano intorno all'appartamento e ho iniziato a porre loro e a pormi delle domande sul perché proprio a Reggio siano nate le Brigate Rosse e su quale fosse il rapporto fra i giovani brigatisti e il PCI, il partito da cui erano fuoriusciti. Nel libro ci sono le risposte e le riflessioni di politici, ex brigatisti e persone che, a vario titolo, hanno frequentato l'appartamento. Diciamo che ne L'appartamento ho indagato il motivo per cui sono nate le Br reggiane e il tipo di rapporto che legava i futuri brigatisti al Partito comunista. Esistono particolari motivi storici e sociali per questa genesi? Come mai molti di questi giovani estremisti fuoriuscivano dal PCI e dalla FGCI? Il partito si rendeva conto che potevano essere pericolosi? E se lo sapeva, li controllava? Non ci fu, almeno nei primi anni, una sottovalutazione del fenomeno? Io una risposta me la sono data e credo che la nascita delle Br a Reggio non sia avvenuta per un fatto casuale.

ALBERTO FRANCESCHININon basta fermarsi al 1967-70. Bisogna andare anche più indietro e approfondire le ragioni di questo fatto che caratterizza e rende diversa una vicenda che pure si è svolta in molte FGCI, in molte organizzazioni di giovani comunisti in Italia, ma che a Reggio ha avuto un altro sbocco e un altro esito. Questo non per accodarmi al revisionismo montante in questo periodo storico in Italia e quindi per cercare responsabilità dirette del PCI che non ne ha avute e che, invece, ha sempre combattuto fermamente il fenomeno del brigatismo. Ho voluto capire come mai, in una terra dove il partito comunista era onnipresente, siano potuti germogliare e crescere i frutti avvelenati del terrorismo. Già, come mai?

Si deve partire da lontano per analizzarne le cause. Dal dopoguerra, appena dopo la Liberazione. Senza voler stabilire nessi di continuità, peraltro inesistenti, fra partigiani e futuri brigatisti, vi è da dire che questi giovani erano affascinati dal sogno della rivoluzione tradita. Volevano riprendere in mano quei disegni rivoluzionari che, all'indomani della Liberazione, nel 1945, erano stati frenati da Togliatti e dai dirigenti più avveduti del PCI di allora che avevano scelto la via democratica. Ma nel partito comunista degli anni Sessanta, anche se minoritaria, era ancora forte e ben nutrita (ed era rappresentata soprattutto da Pietro Secchia) una fronda di militanti che ancora inseguiva il mito della Resistenza tradita. Erano soprattutto ex partigiani che non si rassegnavano a veder tradito quell'ideale. Questa componente era ben presente anche a Reggio, città che ha dato tanto alla Resistenza e che, proprio per questo, contava un maggior numero di nostalgici di quegli anni. D'altronde è costante la presenza nei racconti degli ex brigatisti di personaggi appartenenti alla storia partigiana e del simbolico, e non solo, passaggio di armi da questi ex combattenti ai giovani estremisti. Parlo di passaggio non solo simbolico, dato che le armi dei partigiani emergono ancora nelle campagne emiliane e perché molti ex brigatisti raccontano di avere effettuato le prime rapine con armi dei partigiani. Dunque, anche se quello delle armi non è un aspetto da enfatizzare, dato che poi le Br usarono delle armi moderne, non è nemmeno un passaggio da derubricare a semplice curiosità dato che il legame fra brigatisti, ex partigiani e mito della Resistenza tradita è molto forte e dura tutt'oggi.

Un altro episodio che rende l'humus della città di Reggio favorevole alla genesi del brigatismo è il tremendo ricordo dei martiri del luglio 1960, che voi avete messo come simbolo di questo convegno con la famosa foto degli scontri di piazza. Di quelle cinque vittime provocate dagli spari della polizia sulla folla che quel giorno protestava contro il governo Tambroni appoggiato dagli ex fascisti del Movimento Sociale Italiano. Gli scontri di piazza di allora lasciarono un ricordo indelebile della violenza della polizia e dello Stato contro i lavoratori in migliaia di adolescenti che si stavano avvicinando alla politica. Alcuni di loro, purtroppo, ne furono condizionati negativamente. D'altronde le vicende di quegli anni autorizzavano pensieri foschi sulla tenuta della democrazia in Italia. Questi fatti influirono sulle scelte di quei giovani estremisti, così come influì la strategia della tensione e la serie di bombe che esplodevano alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, causando vittime e dolore in tutta Italia. Per non parlare, poi, dei tentativi di colpi di Stato (il tentato golpe di De Lorenzo e poi quello del fascista Junio Valerio Borghese) e del quadro internazionale che vide, in rapida successione, il verificarsi della guerra in Vietnam, il colpo di Stato in Cile, l'ascesa al potere dei colonnelli in Grecia. Tutto questo contribuì a spingere sulla strada dell'eversione questi giovani già animati da propositi estremisti. La loro fu la risposta folle e assassina a un certo clima che, in quegli anni, montava in tutta Italia. A Reggio alcuni di quelli che poi insanguineranno il Paese con le loro gesta usciranno dalla FGCI e dal partito che non era più in grado di controllare queste pulsioni estremiste. E qui, forse, c'è un'altra specificità del caso reggiano.

1976 - L'arresto di CurcioA Reggio Emilia il PCI era tutto e conteneva infinite contraddizioni. Non c'era spazio, a sinistra del partito comunista, per formazioni extraparlamentari (e quando nacquero ebbero vita breve). Mancava un luogo di dibattito (allora non c'era l'università a Reggio Emilia). La FGCI di allora, dove molti di questi giovani estremisti militavano, era piuttosto viva ma dipendeva pur sempre dal PCI e a quello doveva rendere conto. L'unica scelta, per Franceschini, Gallinari e compagni, fu quella di fondare l'appartamento. Il partito li emarginò, li bollò come figli degeneri. Da lì a fondare le Br il passo fu breve, non ci volle neanche un anno. Eppure questi giovani erano sì schegge impazzite, ma pur sempre frutto della politica di quegli anni. Nei primi anni Settanta, mentre le Br muovevano i loro primi passi, da parte di PCI e DC ci fu probabilmente una sottovalutazione del fenomeno. Per il Partito comunista, forse, era dovuta a un certo imbarazzo per quelle che definiva sull'Unità le sedicenti Brigate Rosse e anche al bisogno di non farsi scavalcare a sinistra dai movimenti e dai gruppi extraparlamentari. Per la DC, probabilmente, fu anche frutto di un calcolo scellerato, dato che questi giovani estremisti fuoriusciti dal PCI facevano comodo per agitare lo spauracchio del comunismo in campagna elettorale. Fino a metà degli anni Settanta, ma secondo altri anche fino all'assassinio del sindacalista Guido Rossa (e siamo nel 1979), ci fu la percezione, di fronte all'emergere del partito armato, che fosse un fenomeno manovrato e manipolato da elementi esterni. Lo stesso Ugo Pecchioli, storico ministro ombra del PCI negli anni Settanta, in prima fila nella collaborazione con lo Stato nella lotta al brigatismo, nei verbali delle riunioni a Botteghe oscure, ancora nel 1977, parlava di ritardi e debolezze nel contrasto al terrorismo, soprattutto all'interno delle fabbriche. Nella base si parlava di compagni che sbagliavano, riferendosi alle Brigate Rosse.

Dalle testimonianze contenute nel mio libro, ma che si possono trovare anche in altre pubblicazioni, emerge come, almeno fino alla prima metà degli anni Settanta, in molti sapevano, anche dentro al PCI, come si stavano muovendo i giovani brigatisti. Il partito era al corrente che giovani estremisti andavano e venivano da Torino e Milano facendo proseliti in città. Eppure, nonostante una fitta ma sotterranea collaborazione fra questura e PCI, non accadeva nulla. Come mai? Io credo che, pur combattendo con vigore il brigatismo ed essendone pure vittima, il PCI non abbia mai fatto fino in fondo i conti con quella storia. Pur contrastando le sedicenti Brigate Rosse il partito comunista non ha mai analizzato fino in fondo il rapporto che lo legava a questi figli illegittimi e non ha mai tentato di capire la specificità di casi come quello reggiano.

Un'opinione condivisa all'epoca anche da Antonio Bernardi, segretario provinciale reggiano del PCI, che in un comitato federale del 1977 affermava:

Reggio ha visto un nucleo consistente di propri giovani che sono stati protagonisti della formazione delle Brigate Rosse, che del terrorismo rappresentano, io credo, il nucleo più efficiente, il cuore, comunque, in questa fase politica. La nostra città rimane un caso esemplare nella nascita delle Brigate Rosse e fondamentale, io credo, per capirne la natura, il modo di formarsi, l'ideologia che le ispira, i fini che perseguono. Senza esagerare il ruolo avuto da Reggio, tuttavia il nucleo reggiano nelle Brigate Rosse non rappresenta un fatto secondario nella vicenda e noi, io credo, non dobbiamo considerarlo un accidente, un fatto casuale.

Parole di Bernardi, nel corso del Comitato federale del PCI tenutosi il 21 dicembre del 1977 per discutere de L'impegno dei comunisti nella lotta per la democrazia contro le minacce eversive e il terrorismo. Dopo sette anni, finalmente, a Reggio il PCI prendeva coscienza che la maggior parte dei brigatisti arrestati nelle prima fase delle Br erano reggiani, si accorgeva che nella genesi e nella catena di comando delle Brigate Rosse i reggiani occupavano posti di primo piano e iniziava domandarsi il perché e a chiedersi se, per caso, vi fossero delle responsabilità da parte del partito in tutto questo.

Continuava Bernardi:

La strage di via Fani e il rapimento di MoroReggio dunque, compagni, rappresenta un punto delicato nella vicenda delle Brigate Rosse. Questo ci costringe a misurare ciò che qui accade, il senso delle vicende politiche, del nostro agire, pure di singoli episodi. E noi dobbiamo saperlo questo, dobbiamo discuterne senza complessi da un lato, ma anche senza reticenze... Allora occorre affermare con assoluta chiarezza che i brigatisti rossi, e questo significa la vicenda reggiana, nascono anche al nostro interno da un processo di crisi e di rottura del rapporto di alcuni giovani con la linea generale del partito, con la storia del partito e con la sua organizzazione.

Bernardi nel 1977 invitava ad aprire un dibattito che nella mia città, ma potrei affermare con la certezza di non sbagliarmi anche in Italia, non c'è mai stato. La sinistra italiana, o almeno quel che resta della sinistra italiana, considera ancora la nascita delle Br come un accidente della storia. Una disgraziata genesi che ha partorito figli illegittimi che non sono mai stati riconosciuti dal PCI e dalla sinistra italiana. Figli che, invece, fanno parte della storia di quel partito che aveva nel suo DNA il mito della rivoluzione proletaria che, infatti, secondo molti partigiani era stata tradita da Togliatti e dai dirigenti del PCI di allora. Il problema dei legami fra terrorismo e PCI, semplicemente, è stato rimosso. Una rimozione che potrebbe costare cara, dato che il problema non è mai stato affrontato e che potrebbe riflettersi in modo assai negativo anche sull'oggi dato che, a quanto sembra, l'esperienza del terrorismo in Italia è ben lungi dall'essersi conclusa.

È proprio questo l'argomento del secondo libro che ho scritto sulle Nuove Br e che è uscito pochi giorni fa nelle librerie italiane. Nel libro faccio riferimento agli arresti di un anno fa a Milano quando sono finiti in carcere 18 presunti brigatisti il cui processo si sta celebrando in questi mesi a Milano. Nel libro mi pongo la domanda se gli anni di piombo potrebbero tornare e se c'è un filo rosso che lega le nuove e le vecchie Br. Molti commentatori dicono che queste nuove Brigate Rosse non hanno nulla a che spartire con le altre e che oggi non c'è questo rischio dato che la pericolosità dei nuovi brigatisti non è paragonabile a quella dei vecchi estremisti. Se guardiamo alla struttura delle Brigate Rosse alla fine degli anni Settanta, quelle che rapirono Moro 30 anni fa, per intenderci, è indubbiamente vero. Quegli estremisti avevano un'organizzazione infinitamente più potente e capillare. Ma se osserviamo la nascita delle Br nei primi anni Settanta e facciamo il raffronto con quello che sta accadendo oggi, allora troviamo alcune similitudini inquietanti.

Ci accorgiamo che le risposte di chi sottovaluta il risorgere dell'estremismo in Italia sono molto simili ai commenti distratti di chi quarant'anni fa vedeva sorgere le prime Brigate Rosse, quelle di Curcio e Franceschini. Anche la pericolosità di quei giovani venne sottovalutata dalle forze politiche di allora (più o meno consapevolmente, mi verrebbe da dire). Il PCI li bollò come figli degeneri, schegge impazzite e non seppe drenare il brodo di cultura della violenza che pure non era estraneo a molti compagni della base del partito comunista che non disdegnavano del tutto le azioni delle Brigate Rosse, soprattutto quando ancora non erano particolarmente violente. La sottovalutazione del fenomeno durò, come molti concordano, fino al rapimento di Moro e all'omicidio del sindacalista Guido Rossa. Poi, anche fra i compagni della base e nelle fabbriche, fu chiaro che i brigatisti erano solo dei delinquenti e degli assassini.

Fino al rapimento di Moro e all'assassinio di Guido Rossa l'atteggiamento del PCI fu altalenante e andava dalla sotterranea e diffidente collaborazione con le forze dell'ordine nel denunciare i compagni brigatisti, alla sprezzante definizione di "sedicenti Brigate Rosse" che non coglieva, forse per un certo imbarazzo, come quei giovani fossero pur sempre frutti degeneri dei lombi della cultura del partito comunista.

La Democrazia cristiana, dal canto suo, non aveva particolare interesse, soprattutto nei primi anni del terrorismo, a stroncare un fenomeno che gettava discredito nei confronti del PCI. La strategia della tensione con le sue bombe, nelle piazze, sui treni e nelle stazioni, faceva il resto dando agli elettori la sensazione di un Paese allo sfascio, insicuro, in cui l'estremismo la faceva da padrone e in cui non ci si poteva certo permettere di dare la maggioranza al partito comunista, né di mandarlo al governo. Si assisteva a una democrazia bloccata, in cui il più grande partito comunista d'Europa non poteva andare al governo e la DC, pur di restarci, faceva accordi con gli altri partiti per escludere il PCI (la cosiddetta conventio ad excludendum).

Di fronte a questa situazione molti giovani estremisti videro la lotta armata come unica possibilità per uscire da questa situazione e rispondere con uguale violenza alle cosiddette stragi di Stato. L'apice dell'attacco al cuore dello Stato arrivò proprio con il rapimento Moro nel momento in cui il PCI si preparava ad appoggiare, dal punto di vista parlamentare, il governo di solidarietà nazionale. Le istituzioni, all'epoca, erano deboli. La democrazia era nata in Italia da poco più di un quarto di secolo. Gli scandali politici si moltiplicavano (ENI, Petroli, Lockheed), insieme a quelli finanziari (il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e della Banca Privata di Michele Sindona). Nasceva la P2 e i servizi segreti erano deviati.

La conflittualità esplose nelle fabbriche, si legò al movimento operaio, infiltrò il sindacato e deflagrò dando origine alle Brigate Rosse e ad altri gruppi di estremisti che insanguinarono l'Italia negli anni seguenti. I partiti non seppero dare una risposta adeguata all'insorgere dell'insoddisfazione fra i giovani e nella classe operaia. Si sguarnirono a sinistra e a destra, lasciando spazio agli estremisti degli opposti schieramenti. Il punto più drammatico, come si è detto, fu toccato con il rapimento e l'omicidio di Moro mentre il compromesso storico fra cattolici e comunisti stava dando i suoi primi frutti. Davvero questo scenario non vi ricorda nulla di quello che sta accadendo in Italia oggi?

Oggi come allora l'insoddisfazione sociale cresce fra i giovani e nelle fabbriche per i bassi salari e il precariato. Certo, allora c'era anche la contestazione studentesca ad alimentare il dissenso, ma la storia, anche se ciclica, non si ripete mai allo stesso modo. Oggi come allora le istituzioni sono deboli e screditate.

Non mancano neanche gli scandali politici degli anni Settanta, i crack finanziari, le logge massoniche e i servizi segreti deviati. Oggi gli scandali, che spesso coinvolgono politici e industriali, si moltiplicano allacciandosi a scalate truffaldine alle banche, ad intercettazioni illegali (spesso messe in atto da pezzi dei servizi segreti che non si sa bene a chi rispondano e i cui ex dirigenti sono stati indagati) in cui politici e banchieri parlano con fare disinvolto di come ridisegnare alleanze strategiche ed economiche a destra e a sinistra. Un quadro che mina la fiducia dei cittadini nelle istituzioni come testimoniato da innumerevoli sondaggi.

Il governo Prodi è appena caduto dopo le dimissioni di Mastella, ma ha passato due anni sul filo del rasoio. Basta scorrere le pagine dei giornali dei mesi passati per vedere le quotidiane difficoltà che ha incontrato per restare a galla. Al suo posto è tornato Silvio Berlusconi con il PDL, ma personalmente nutro qualche dubbio che riesca a ridare autorevolezza e credibilità all'azione di governo. Anche negli anni Settanta i governi erano deboli. Oggi come allora i partiti cercano spazio al centro lasciando libere le parti più estreme. L'esperienza del Partito democratico, con l'abbraccio cattocomunista fra ex DC ed ex PCI, è un remake evoluto di quello che Moro tentò di fare giusto 30 anni fa.

A questo si aggiunga l'aggravante che, dopo le ultime elezioni, la sinistra italiana non avendo ottenuto neanche un seggio in Parlamento è, di fatto, una forza extraparlamentare dal futuro incerto. Serve ricordare che anche negli anni Settanta esistevano grosse e cospicue forze extraparlamentari negli anni Settanta in Italia che fomentarono la violenza di quegli anni. Ora io non so se quello che intendano fare i dirigenti dei partiti che componevano la Sinistra Arcobaleno. Certo è che crea non poche preoccupazioni osservare come qualche milione di cittadini in Italia (le forze della Sinistra si aggiravano sul 10% dell'elettorato) si trovi sprovvisto di una rappresentanza parlamentare.

Ma torniamo ai 18 presunti brigatisti arrestati in Italia l'anno scorso. Le critiche che i nuovi brigatisti fanno agli ex comunisti (basta andarsi a leggere i loro documenti) sono le stesse che le Brigate Rosse degli anni Settanta facevano al PCI. Li chiamano borghesi, servi dei padroni, imperialisti e schiavi del Vaticano. Perfino le armi utilizzate dai nuovi brigatisti sono le stesse dato che due pistole trovate nell'arsenale delle Nuove Br appartenevano alla storica colonna milanese Walter Alasia. Anche il linguaggio utilizzato dai capi delle Nuove Br assomiglia terribilmente a quello dei vecchi brigatisti.

Come si fa a non vedere che agli albori del nuovo millennio la storia si sta ripetendo drammaticamente a distanza di nemmeno 40 anni? Mancano il contesto internazionale e la ribellione studentesca, le stragi di Stato e la paura del golpe, il contesto internazionale con il colpo di Stato in Cile, la Spagna di Franco, i colonnelli in Grecia e la guerra in Vietnam. Tutto questo è vero. Sono considerazioni giuste e condivisibili, anche se alla lacuna del quadro internazionale potrebbe sopperire in parte il movimento antiglobalizzazione con le sue frange più estreme.

ALDO MOROPerò gli altri ingredienti ci sono tutti: governi e istituzioni deboli, partiti litigiosi che cercano spazio al centro lasciando libere le frange più estremiste, corruzione politica e finanziaria, malcontento nella base sociale, sfiducia di cittadini nella politica. Una situazione in cui potrebbe trovare terreno fertile il movimentismo che sta alla base dei nuovi brigatisti. Basso profilo militare per militanti che sono o vogliono essere parte integrante delle lotte sociali e sindacali. E per questo più pericolosi.

Dopo la sconfitta delle Br-PCC del gruppo Lioce-Galesi è l'area movimentista di quelli che sono stati arrestati recentemente che ha preso maggiore forza e vigore. I movimentisti cercano di costruire un progetto rivoluzionario infiltrandosi nelle fabbriche, nei centri sociali, negli scontri di piazza. Lavorano stando dentro le lotte sociali e sindacali. Lo facevano anche le Br nei primi anni Settanta. Il loro basso profilo militare costituisce un elemento di maggiore pericolosità perché, proprio per questo, riescono ad infiltrarsi meglio nelle situazioni di conflitto. La presenza di elementi giovani, al suo interno, è un ulteriore campanello d'allarme. Gli obiettivi sono gli stessi delle Brigate Rosse di una volta che si consideravano giustizieri proletari: il dirigente di fabbrica, lo sfruttatore di immigrati, il fascista, il giornalista considerato borghese e di destra. Le stesse persone che vengono abitualmente insultate tutte le volte che si mette piede in un centro sociale. Cosa sarebbe successo oggi, in questi ambienti, se una di queste persone fosse stata gambizzata? Forse qualche commento ufficiale di rammarico sarebbe emerso ma, sotto sotto, in certe fabbriche e in certi centri sociali non sarebbero rimasti più di tanto sconvolti.

Le Nuove Br sono un miscuglio di vetero-comunismo e tentazioni anarcoinsurrezionaliste che come nuovo nemico hanno la globalizzazione ma, come le vecchie, si propongono di abbattere lo stato borghese. Anche la loro ideologia, leggendo gli scritti del loro leader Alfredo Davanzo, non è molto diversa. Si muove sui binari di una rigida ortodossia marxista e maoista che rimanda, per quel che riguarda la costruzione dei periodi e le frasi, all'armamentario ideologico delle vecchie Br. Basta scorrere le lunghe e burocratiche lettere dell'ideologo Davanzo per incontrare le parole chiave guerra di classe, instaurazione di dittatura del proletariato per combattere la borghesia imperialista. Un insieme di concetti che erano già vecchi trent'anni fa, dato che già allora non c'erano le condizioni per la rivoluzione, e che oggi farebbe solo sorridere se non ci fossero di mezzo le armi e gli attentati contro persone inermi che quel gruppo stava progettando.

Eppure, oggi come trent'anni fa, c'è una vasta area di consenso attorno a questi nuovi brigatisti. Nel giro di poco più di due mesi, dopo il 12 febbraio 2007, giorno degli arresti, sono state denunciate una cinquantina di azioni importanti in cui complici e simpatizzanti delle Nuove Br hanno rilanciato nelle aziende, sui muri delle fabbriche e in altri luoghi delle città minacce e simboli in favore della lotta di Seconda posizione. Manifestanti sono andati, senza essere fermati dalla polizia, sotto il carcere dell'Aquila a testimoniare solidarietà alla compagna Nadia Desdemona Lioce che secondo loro sarebbe prostrata dal carcere duro, impostole dato che è stata condannata all'ergastolo per l'omicidio di Biagi e D'Antona. C'è chi a Padova ha manifestato in favore degli arrestati del 12 febbraio. Poi c'è Internet. La rete è diventato un mezzo straordinario, per i nuovi estremisti, per comunicare e per inneggiare alla lotta armata e alla rivoluzione. In questo, bisogna ammetterlo, sono diversi dalle vecchie Br. Franceschini e Curcio il web non ce l'avevano. Su internet si può leggere di tutto. Si arriva addirittura alla esaltazione del gesto del compagno Mario Galesi, sul sito svizzero di Soccorso rosso, che ha steso il poliziotto Emanuele Petri, il 2 marzo 2003 sul Roma-Firenze prima di essere ammazzato lui stesso da uno degli agenti della Polizia ferroviaria. Quasi un martire questo Galesi. Nessuno di questi siti, in cui si parla regolarmente di lotta armata, è stato oscurato dalla polizia postale.

Profetica, a mio parere, una provocatoria intervista che il giornalista italiano Carlo Bonini fece su Repubblica il 31 ottobre 2003 al fondatore di Prima Linea, l'ex terrorista Sergio Segio.

La storia - diceva Segio - si ripete con le sue antiche miopie. E nessuno, per convenienza e conformismo, ha il coraggio di scandire una semplice verità...

Continuava Segio:

Esattamente 31 anni fa moriva di leucemia Fabrizio Pelli, uno dei tanti brigatisti cresciuti nel cuore dell’Emilia rossa, uno del «gruppo dell’appartamento» di Reggio che poi, a metà degli anni Settanta, abbracciò la lotta armata.Le Brigate Rsse, sebbene ne siano componente ultra-minoritaria, sono e coabitano nel Movimento, hanno infiltrato il sindacalismo di base. Sono interne ai loro luoghi, alle loro sedi, al loro dibattito politico. E non sono affatto "nuove". Sono la fotografia di un passaggio di testimone tra generazioni nell'assoluta continuità di una matrice ideologica che non ha rifiutato il concetto di violenza politica, ma la conserva come opzione concreta, se non assoluta.

Secondo il fondatore di Prima Linea

nessuno vuole vedere questa verità. Perché farlo - diceva Segio - significa rinunciare a un paio di comodi luoghi comuni. Utili alla sinistra per rinviare sine die un dibattito politico in ritardo di vent'anni, per continuare a dichiarare la scelta brigatista politicamente estranea alla propria storia, al proprio dna. Cosa, questa, semplicemente non vera. Conosco questi "tic". E non dimentico quel che il PCI e il sindacato dicevano di noi e delle Brigate Rosse. "Sedicenti rosse". Fu un tragico errore che, fatte le debite proporzioni, vedo ripetersi.

L'intervista di Sergio Segio è di qualche anno fa, ma potrebbe benissimo essere stata fatta all'indomani degli arresti del 12 febbraio 2007 tanto fotografa la situazione da vicino.

Le sue dichiarazioni hanno ovviamente suscitato polemiche. Perché c'è ancora chi si ostina a non vedere, a chiudere gli occhi e a dire che le vecchie Br erano un'altra cosa e che le nuove non sono così pericolose. Dicono che il contesto è diverso. È vero. Però bisognerebbe anche ammettere che, insieme alle differenze, ci sono pure tante somiglianze con quello che accade oggi e ciò che è avvenuto allora. Perché la storia si ripete, ma con modalità diverse. Quello che accade in Italia deve far riflettere le forze politiche e i governanti. Giusto per non trovarsi impreparati. Per non far sì che un altro uomo, magari senza scorta, una notte scenda dalla propria bicicletta, appena arrivato davanti a casa sua, e si trovi di nuovo di fronte la canna di una pistola. I magistrati e la polizia, con gli arresti del febbraio 2007, hanno fatto la loro parte. Ora tocca alla politica fare la sua.

 

 

APPROFONDIMENTO

 

Milano, quartiere del Lorenteggio. Nella primavera del 1970 appaiono dei volantini firmati Brigate rosse. Vi è disegnata una asimmetrica stella a cinque punte. E' nato un progetto di guerra civile, ma l'opinione pubblica non se ne accorge. Lo Stato stesso lo sottovaluta. Non ci si allarma neppure nell'ultima settimana di agosto quando, all'interno dello stabilimento Sit-Siemens di piazza Zavattari, a Milano, viene rinvenuto un pacco di ciclostilati. Il testo, in cui ci si riferisce soprattutto a situazioni aziendali, contiene pesanti insulti a "dirigenti bastardi" e a "capi reparto aguzzini" da mettere - cosi' è scritto - fuori gioco. Ma quella sigla, Br, è pressoché sconosciuta alla direzione di fabbrica e molto di più non ne sa neppure la questura di Milano. 17 settembre 1970, via Moretto da Brescia, una tranquilla strada residenziale del quartiere Città Studi. Ore 20,30. Due bidoni di benzina esplodono contro il box di Giuseppe Leoni, direttore centrale del personale della Sit-Siemens. Sulla porta del garage la scritta: Brigate Rosse. E' la prima azione cosiddetta punitiva delle Brigate rosse in ottemperanza allo slogan: "colpiscine uno per educarne cento". Ma gli inquirenti ritengono che si tratti di un atto teppistico, e che la rivendicazione sia soltanto una copertura.  Sergio Zavoli, "La notte della Repubblica
 

I PERSONAGGI

Una prima indicazione sulle dimensioni del fenomeno armato di sinistra in Italia tra il 1969 e il 1989 è quella relativa alle persone inquisite per "banda armata", "associazione sovversiva" o "insurrezione": si tratta di un vero e proprio esercito, costituito da oltre 4 mila persone, prevalentemente uomini (76,9%) ma anche da numerose donne (23,1%). Un numero particolarmente significativo, soprattutto se si considera l'aspetto totalizzante, anche in termini personali, che la scelta della clandestinità e del ricorso allo scontro armato rappresentava.

 

I DOCUMENTI

Ampia la produzione documentale brigatista. Risoluzioni, comunicati, opuscoli e volantini. Passaggio obbligato per quanti si apprestano ad uno studio serio e "scientifico" della storia delle BR. Presenti inoltre numerosi saggi e documenti di approfondimento.

 

Il caso Moro

Il sequestro di Aldo Moro definito dalla BR "Operazione Fritz" è un caso unico non solo nella loro storia, ma in tutta quella della guerriglia in Occidente, comprese quelle semisecolari dell'IRA irlandese e dell'ETA basca. Un caso unico per cui sono stati scritti decine di libri...

 

Movimento del '77. Per un bilancio politico

Alcuni lo hanno ricordato, altri celebrato, altri ancora ignorato. Congediamo il trentennale del millenovecento settantasette con una breve riflessione sulla genealogia del movimento."