L'IMMINENTE CRISI DELL'ECONOMIA MONDIALE
ASPETTANDO UN NUOVO "29" nel 2006-2007
di Claudio Prandini
"Il superfluo sarà loro tolto,... Che essi si esercitino da adesso a privarsi
di mille e una piccola comodità che la vita moderna fornisce loro
e la cui inutilità vitale non li sfiora nemmeno... i capi di stato non si
accorderanno e questo disaccordo sarà provocato da una crisi
economica internazionale... Il fallimento di ogni paese provocherà
delle sommosse interne e dei focolai di rivolta spunteranno in molti
luoghi del pianeta. Gli uomini si uccideranno gli uni gli altri, perché
la fame e la mancanza di soldi li renderanno folli..." (Profezia del XX secolo)
Non voglio fare la Cassandra di turno, ma stanno emergendo fenomeni e voci sempre più allarmanti per il futuro dell'economia mondiale. Partiamo da alcuni fenomeni indicativI, senza alcuna pretesa di completezza:
a) l'intera economia mondiale si fonda sui consumi della classe media americana: auto giapponesi o BMW, computer di Taiwan, vestiario cinese, ecc. Tuttavia, questa stessa classe media sta indebitandosi comprando a credito sulle sue numerose carte di credito. La Cina, dal canto suo, guadagna dollari con le sue esportazioni, e invece di liberarsene, se li tiene. Più precisamente, coi dollari compra Buoni del Tesoro USA in dollari: il che equivale a fare un prestito all'America. e in questo modo sostiene il valore del dollaro. E come fa la Cina così fanno gran parte dei paesi orientali e dell'Asia. In altre parole, gli Stati Uniti d'America stanno vivendo al di sopra delle loro reali possibilità e sono la nazione più indebitata della terra. Si trovano in una posizione peggiore dell'Indonesia quando un paio di anni fa implose economicamente, o in quella più recente dell'Argentina;
b) la tumultuosa e straripante crescita produttiva cinese non è affatto priva di rischi per l'economia mondiale. Primo perché essa sta producendo più di quello che riesce a vendere, vale a dire che aumenta il «magazzino» di beni finiti. Nel 2004 il magazzino degli invenduti in Cina valeva solo l'1 % della crescita del PIL cinese; oggi, primo semestre del 2005, vale già il 20%! Se a questo dato si aggiunge anche il problema delle campagne cinesi, sempre più povere e fonte d'instabilità sociale e di rivolte sempre più frequenti, abbiamo un quadro preoccupante non solo della stabilità sociale ed economica della Cina, ma delle ripercussioni che essa può avere sull'economia mondiale, ad iniziare dall'economia pompata dall'esterno degli USA.
Per quanto riguarda le "voci" sottopongo alla vostra attenzione due personalità, una americana e l'altra italiana, che hanno lanciato il loro grido d'allarme: Michael Wells Mandeville e Eugenio Benetazzo. Per quanto riguarda il primo i giornali americani si sono occupati molto di lui, ottenendo le prime pagine dei giornali economici, suscitando grande attenzione e scalpore per le sue tesi controcorrente rispetto al giornalismo economico ufficiale, anche grazie al fatto che alcune delle sue previsioni si sono già realizzate. Che cosa dice? Dice sostanzialmente che non più tardi del 2006 l'economia comincerà a scivolare verso il basso e il crollo potrebbe essere devastante come quello della grande depressione americana degli anni Trenta. Per sostenere la sua tesi, egli che è ricercatore geniale e poliedrico, ha scritto un libro che ha avuto un certo successo: IL CROLLO ECONOMICO DEL 2006-2007, Macro Edizioni, pagg. 311, Euro 12,90. La seconda voce è invece tutta italiana e appartiene ad un operatore di borsa, quindi un tecnico del mestiere. Del Benetazzo riportiamo qui sotto un suo recente articolo...
***
E la borsa si impenna?
No, tentenna e poi sprofonda...
basta solo aspettare
Eugenio Benetazzo
operatore di borsa indipendente
Uno scenario borsistico pesantemente ribassista ci attende, non per i prossimi
anni, ma per i prossimi mesi.
Le motivazioni macroeconomiche che trasmettono profondo sgomento e
preoccupazione su tutto il pianeta sono ormai abbastanza note, dalla difficoltà
del dollaro americano, al sovradimensionamento del deficit statunitense, alla
corsa del prezzo del petrolio sino all'affacciarsi sulla scena produttiva
mondiale di due giganti dalle risorse ed opportunità infinite.
Come ho più volte sottolineato nel saggio
«Duri
e puri», le proiezioni sulla base di queste aspettative trasmettono uno
scenario pesantemente ribassista con il declino economico di una parte del
pianeta a fronte della prosperità e trasferimento di ricchezza per un'altra:
detonatore di questo mutamento di scenario dovrebbe essere proprio un nuovo 1929
sui mercati borsistici.
Stiamo assistendo, ormai da quasi tre anni, ad una emorragia
inarrestabile di capitali e posti di lavoro che migrano dall'occidente
all'oriente: la globalizzazione multinazionale, ormai vanto del capitalismo
sfrenato ed allo sbando senza più regole, comporta queste sfaccettature: il
denaro va dove è più conveniente che sia investito.
Proprio come più di settant'anni fa, si stanno disegnando con molta precisione
le condizioni che portarono i mercati americani al più grande crack della storia
economica: il 1929.
E sono noti quali siano i sintomi che viviamo oggi e che come allora rischiano
di anticipare un altro catastrofico shock borsistico, con successive
ripercussioni sulle variabili macroeconomiche: «saturazione del mercato
immobiliare, insostenibile debito pubblico in USA, rialzi di Borsa
ingiustificati ed irrazionali, povertà e limitazione del consumo di massa,
limitato potere di acquisto e diminuzione progressiva dei profitti aziendali».
Questi elementi accomunano due epoche così distanti, eppure così vicine, tanto
da confermare l'idea diffusa che i mercati abbiano memoria e ripropongano nel
tempo comportamenti e dinamiche con la stessa evoluzione.
Sulla base delle esperienza storiche della civiltà umana e in considerazione del
fatto che i mercati tendano a replicare un comportamento del passato (su questo
presupposto si basa l'analisi tecnica) possiamo valutare molto attendibile
l'ipotesi che un nuovo 1929 si riproponga sui mercati, magari con dinamiche del
tutto nuove ed inusuali.
E se
non volete credere a me, almeno date retta ai
grafici di Borsa ed alle leggi su cui si basano: come potrete voi stessi
desumere dal commento in essi contenuto le prospettive che vi aspettano sono
allarmanti.
Cercatevi una scialuppa, prima che non ce ne siano più in circolazione, o che
non siano alla portata di tutti: il continuo ed incessante rialzo dell'oro (che
ha come obiettivo i 750/800 USD l'oncia per la fine del 2006) è il termometro
che qualcosa non sta funzionando come dovrebbe.
La corsa al metallo giallo, unico bene reale su cui si basano le riserve delle
Banche Centrali, dimostra che molti operatori ed investitori, istituzionali e
non, stanno cercando rifugio e protezione con questo asset per i mesi a venire.
I mercati si sono apprezzati, dopo i minimi di due anni fa, più per ragioni
tecniche che razionali: adesso vi aspetta una drammatica discesa (forse direi
anche inaspettata) che spazzolerà per bene i vostri dossier titoli ed i vostri
portafogli (vi basta osservare il grafico che proietta l'indice italiano SPMIB40
ben oltre sotto i 30.000 punti).
Termino lanciandovi un ultimo allarme che darebbe ancor più adito alle
ipotesi di discesa: il rialzo dei tassi.
Il livello dei tassi di interesse, sia in America che in Europa, è tra i minimi
storici degli ultimi 30 anni: gli Stati Uniti, con Alan Greenspan, hanno già
iniziato a rialzarli velocemente, dopo una drammatica discesa negli ultimi
quattro anni.
L'Europa presto inizierà a seguire questa strada, per forza di cose.
Ma a quel punto i mercati obbligazionari a breve termine diventeranno un'
attrattiva molto stuzzicante, che drenerà liquidità dai mercati azionari.
Questo meccanismo osmotico di migrazione dei capitali attraverso switch di
portafoglio diventa un elemento aggiuntivo che può confermare la tendenza a
scendere, per i prossimi anni, dei mercati azionari.
Ricordo, infatti, che
proprio a causa della discesa dei livelli di rendimento dei BOT, dal
1997 al 2001, Piazza Affari è stata invasa da un'ondata di liquidità inaspettata
che ha consentito di alimentare la speculazione irrazionale sui rialzi dei corsi
azionari negli anni passati (e ci ricordiamo tutti come andò a finire).
Non posso fare a meno di pensare che si possa verificare anche l'opposto quando
i BOT si riporteranno magari al 5 % di rendimento dagli attuali miseri due
punti.
L'abbaglio per il denaro facile e per il profitto indiscriminato ci insegna che
***
Che cosa fare in vista di tale scenario? Ecco alcuni consigli...
***
Crack in vista (e cominciano a dirlo)
(di Maurizio Blondet)
Fino
a ieri, i giornali finanziari anglo-americani non
facevano che esaltare la continua salita delle borse, il «trionfo» e i
«successi» del sistema capitalista globale, il «miracolo» della eterna ripresa
americana, che si regge nonostante l'astronomico debito pubblico e privato.
Ciò è normale: bisogna attrarre gli ingenui alla giostra della finanza creativa
e tenerli legati al Luna Park globale, perché i pescecani possano spolparli
ancora un po'.
Solo, da alcune ore, il clima è cambiato.
Ora, non parlano più di «successi» né di «miracolo».
Anzi, il Financial Times ha un allarme esplicito: «chiudere le paratie
stagne prima dell'uragano economico» (1).
E questo non è normale.
Vuol dire che l'uragano in arrivo sarà così tremendo, che conviene ormai far
passare agli ingenui il messaggio: ve l'avevamo detto.
Non vi abbiamo ingannato.
Se siete rovinati, è colpa vostra: non avete «diversificato».
Probabilmente, il crack mondiale sarà tale, da far temere rivolte di massa.
Un segno sinistro
nei giorni scorsi: i frutti dei Buoni del Tesoro americano a scadenza
decennale sono scesi sotto i frutti dei BOT USA biennali.
Di solito, sono i BOT decennali a «dover» rendere di più, a compenso del rischio
e degli incerti di un prestito a tasso fisso prolungato nel tempo.
Quando accade il contrario, quando sono i tassi dei bond a breve a salire, vuol
dire che gli speculatori si aspettano che i tassi d'interesse crollino: ciò che
avviene in caso di recessione e, perciò, di bassa inflazione.
A prima vista ciò è impossibile: la Federal Riserve è obbligata a retribuire chi
presta all'America con tassi d'interesse crescenti, quanto più cresce il debito
USA, a scanso di una rovinosa fuga di capitali dal dollaro.
Ma questa tendenza al rialzo è anche insostenibile, e bisogna che i tassi
americani, ora altissimi (5%) prima o poi scendano.
Ecco qui un esempio lampante dei vicoli ciechi, delle contraddizioni
impossibili, in cui si è avvolto il capitalismo finanziario terminale.
Quello della finanza sarà, nel 2006, un mondo più fantastico de «Le Cronache
di Narnia», rileva sarcastico Frank Partnoy, ex banchiere della Morgan
Stanley che s'è messo al sicuro facendo il docente di diritto alla San Diego
University (2).
Per esempio, dice, nel 2006 il mercato dei «prodotti derivati»
crescerà vorticosamente fino a raggiungere la cifra di mezzo quadrilione di
dollari (mille trilioni, una cifra con 14 zeri).
Ciò rappresenta dieci volte il prodotto interno lordo del pianeta.
Ironizza Partnoy: anche ammesso che i fautori della finanza derivata abbiano
ragione a dire che i loro fantasiosi «derivati» siano un bene per l'economia, e
servano soprattutto ad assicurare contro i rischi finanziari e a disperderli fra
masse di clienti (hedging), non si vede perché qualcuno voglia «coprirsi» dal
«rischio» rappresentato dal prodotto lordo globale del pianeta più di una volta.
La verità è che questa finanza non ha più alcun rapporto con l'economia reale,
ma è una minaccia reale per tutti: perchéquell'enorme flusso di derivati da
mezzo quadrilione è, in ultima analisi, un immenso debito, o accumulo di
montagne debitorie, per nove decimi inesigibile.
Così, nel 2006, la speculazione globale sintetizzerà una nuova generazione di
animali fantastici, chimere e OGM della finanza, per celare ancora per qualche
settimana la sua insolvenza colossale. Spunteranno, per offrirli a risparmiatori
e pensionati, «fondi d'investimento virtuali»: ossia fondi che non possiedono
alcun attivo finanziario, né azioni né obbligazioni, ma usano i derivati
per «simulare» di averli.
Già sono nati in laboratorio due prodotti, i «portable alpha» e le «obbligazioni
con collaterale a debito sintetico», che pretendono di replicare le rendite dei
Buoni del Tesoro, senza possedere Buoni del Tesoro.
E già sono sul mercato gli «Ecaps», ibridi di azioni e obbligazioni: centauri,
ircocervi e chimere inesistenti nel mondo reale, «scatole nere» illusioniste di
effetti imprevedibili sui mercati.
Voi magari non li comprerete.
Ma li compreranno in tutto il mondo i fondi d'investimento e soprattutto i fondi
pensione, e persino le Banche Centrali.
Istituzioni «tecnicamente in bancarotta», dice Portnoy, che vi fanno credere di
essere ancora in grado di pagarvi la pensione, e per reggere l'illusione ancora
per un po' acquistano questi cloni e ibridi: ciò che equivale a «fare
scommesse a rischio crescente».
Come il giocatore rovinato, che aumenta le puntate alla roulette con denaro
preso in prestito, nella illusione di «rifarsi».
Cerca di essere tranquillizzante Adam Posen, analista massimo dell'Institute for
International Economics di Washington, paragonando il crack imminente
all'uragano Katrina che ha devastato New Orleans: non possiamo farci niente,
arriverà; ma almeno possiamo alzare qualche diga per ridurre le perdite umane.
Naturalmente lui, da liberista selvaggio, propone come medicina dosi più alte
dei noti veleni.
Gli preme soprattutto tenere aperto il mercato globale del nulla finanziario,
ciò che teme è «un grave trauma» prodotto «da un rinnovato
protezionismo e da un aggiustamento del dollaro», dove «aggiustamento» è un
eufemismo per «crollo».
La bolla immobiliare americana unita ai deficit pubblici produce una situazione
«insostenibile», che mette a rischio «l'intero sistema commerciale».
Posen riconosce la «fragilità finanziaria» (la
colossale insolvenza mondiale) che è «l'elemento primario per cui collassi
limitati (di qualche banca o fondo) possono diventare crisi
macroeconomiche» (leggi: crack globale tipo '29).
Basta un rialzo anche piccolo dei tassi di altri Paesi, per far defluire dagli
USA di colpo tutti i capitali prestati all'America.
Ciò può portare a «un istantaneo declino degli attivi» (leggi: immobili, azioni
e obbligazioni non valgono più nulla per mancanza di compratori) e «perciò del
settore finanziario» (bancarotte a catena).
Perciò, consiglia le Banche Centrali di USA, Europa e Giappone di obbligare le
banche ad accantonare maggiori riserve.
La Banca Europea dovrebbe premere a fondo sugli «stabilizzatori automatici»:
insomma Posen propone una più spietata applicazione del famigerato tetto del 3%
del deficit pubblico, misura di per se recessionaria.
Ma il fatto è che i debiti sono già troppi, e i finanzieri consigliano di
salvare i loro business, prima delle vite delle popolazioni.
Le Banche Centrali devono salvare gli speculatori, anzitutto, impedendo «eccessivi
movimenti dei prezzi verso l'alto o vero il basso»; quanto alla gente
comune, basterà approntare «sussidi di disoccupazione sufficienti» in
USA e Giappone.
Posen prevede dunque milioni di disoccupati dai primi mesi del 2006.
Prevede selvagge fluttuazioni dei prezzi: o rincari (inflazione) o ribassi
eccessivi (deflazione).
Il grave è che non sappia prevedere la direzione dei movimenti.
Non lo sa nessuno.
Una recessione come quella che si aspettano i finanzieri, con milioni di nuovi
disoccupati nei Paesi avanzati, provocherebbe mdeflazione, calo dei prezzi.
Ma c'è in giro tanta di quella massa monetaria, con i trilioni di dollari
stampati dagli USA per pagare i suoi consumi a forza di carta straccia, che
l'effetto probabile sarà l'inflazione. Un'inflazione esplosiva, tipo Germania
anni 20, quando un francobollo costava 30 miliardi di marchi.
Potremmo vedere persino uno scenario inaudito di deflazione-inflazione
contemporanea: calo (deflazione) dei prezzi immobiliari e rincaro (inflazione)
del petrolio.
I poveri esseri umani, messi alla fame da pensioni tagliate e salari scomparsi,
e in più senza risparmi (volatilizzati nel crac o, come in USA, da tempo
sostituiti dai debiti per il consumo) non avranno più nemmeno il beneficio
deflazionistico dei prezzi generalmente calanti.
Un paesaggio economico atroce, mai prima sperimentato.
La fine del capitalismo terminale.
Persino la Banca d'Inghilterra, tempio dell'ortodossia liberista, ritiene
opportuno invitare alla prudenza, con parole inaudite: «l'affannosa caccia
al profitto finanziario a breve (yeld) può indurre alcuni investitori a
sottovalutare il rischio. Le mattuali condizioni possono aver generato un
eccessivo ottimismo sul rischio sottostante certi prodotti finanziari».
Fuori di eufemismo: sotto quei prodotti non c'è nulla.
Allegria, allegria,
dice il Financial Times: dopotutto, la crisi imminente avrà almeno un vantaggio:
toglierà di mezzo i fondi speculativi sui derivati «meno efficienti e che
rendono meno».
Distruzione creativa, allegria.
Un accenno fuggevole al problema più preoccupante per lorsignori: l'enorme
crescita, nell'ultimo anno, di fusioni e acquisizioni (M&A) «finanziate dal
debito».
Queste fusioni sono un bella cosa, le banche d'affari che le preparano, trovando
il denaro a credito, ci guadagnano miliardi in commissioni.
Ma il troppo stroppia.
Comprare un'azienda concorrente con denaro preso in prestito prosciuga la cassa
e può avere «un impatto deleterio nella diffusione e nella qualità del
credito»; lo dice persino Standard & Poors.
Certo, tali debiti sono «coperti» dal valore delle aziende comprate, e che si
possono rivendere a pezzi e bocconi.
«Ma non c'è patrimonio meno liquido di un'azienda che nessuno vuol più
comprare», come accadrà quando la crisi sarà tra noi.
Insomma: i privati hanno comprato a carissimo prezzo case che varranno molto
meno; e i grandi manager hanno strapagato aziende che fra poco varranno nulla.
E gli uni e gli altri, stanno pagando interessi sui debiti contratti per quelle
operazioni (3).
Debiti insostenibili, appena i tassi d'interesse saliranno.
Allegria, allegria.
Sta per crollare
tutto?
«Non ancora, ma diversificate», consiglia la rivista Bloomberg in un
articolo che vuole essere allegro (4).
Cita una newsletter della finanziaria Liman-Gregory che dice, per rassicurare:
«attualmente i rischi più grossi coinvolgono scenari di collasso economico
assoluto (meltdown scenarios: dunque è vero, sta per crollare tutto), il più
pericoloso dei quali è un periodo di prolungata e grave deflazione. Riteniamo
questo rischio reale, ma abbastanza remoto da non doverci coprire contro di esso
attivamente».
Per ora.
Cosa volete farci, sorride Bloomberg: «questa è la vita dell'investitore nel
21mo secolo, sempre sull'orlo del disastro».
Allegria, allegria.
La vera questione, per chi ha messo quattrini nei fondi d'investimento, «non
è se questi rischi esistono, ma cosa fare. Per fortuna, esistono strategie che
possono aiutarci».
Quali?
«Diversificare».
Un po' meno azioni e un po' più BOT e attivi monetari.
Anche oro, benché ormai sia caro.
Investire ancora in Cina?
«Economia cresciute troppo rapidamente sono suscettibili di crescenti dolori»:
un po' tardi, ma finalmente lo si dice.
Non sembrano consigli particolarmente sagaci.
E non lo sono.
Il fatto è che nessuno sa cosa consigliare, di fronte al ciclone in arrivo.
«Diversificare» ormai, di fronte alla prospettiva di un crack del sistema
complessivo, è un consiglio scemo, e persino Bloomberg se ne rende conto: «non
esiste una copertura perfetta» da ogni rischio. E ricorda: «a volte,
gli investitori più diversificati devono fronteggiare problemi simultanei in
molti mercati diversi».
Crack contemporanei su tanti mercati diversi: è l'esatta descrizione del
collasso sistemico, del «meltdown», della fusione del nocciolo di una centrale
atomica, contro cui non si può far niente se non attendere l'inevitabile innesco
della reazione a catena.
Se hanno cominciato a dirlo, vuol dire che sta per accadere.
Anzi che sta già accadendo, e lorsignori si sono messi in qualche modo al
riparo; non restano scialuppe di salvataggio per le persone comuni.
Note
1) Adam Posen, «Batten down the hatches in
case the economic storm hits», Financial Times, 28 dicembre 2005.
2) Frank Partnoy, «Investing in fantasy land»,
Financial Times, 28 dicembre 2005.
3) Può in parte consolare che gli italiani sono meno indebitati
degli altri, il che è un bene in tempi di crack sistemico. Solo il 10 % delle
famiglie italiane fa debiti per concedersi consumi, contro il 50% dei
britannici, il 28 % dei francesi e il 16 % dei tedeschi. L'indebitamento degli
italiani è pari «solo» al 40% del loro reddito disponibile (per lo più mutuo per
la casa), contro i francesi che sono indebitati per il 62% dei loro redditi, e i
tedeschi per il 100%. La «crescita» europea, per quanto asfittica, è tutta a
credito. Il «successo» americano, meno asfittico, è dovuto all'indebitamento
colossale per consumi; e così il «successo» britannico.
4) «Is the sky falling? Not yet, but diversify»,
Bloomberg News, ripreso dall'Herald Tribune, 28 dicembre 2005.