INPS 2015
L'ANNO DEL COLLASSO È VICINO!
DOPO LE PENSIONI POTREBBERO ESSERE UN SOGNO
(a cura di Claudio Prandini)
STIPENDI D'ORO
Antonio Mastrapasqua, presidente Inps: 216.711,67 euro. Senza contare gli
altri incarichi che ricopre come ad esempio vice presidente di Equitalia.
INTRODUZIONE
INPS: dal 2015 non ci saranno soldi per pagare le pensioni
La situazione del nostro Paese sta raggiungendo livelli di pericolosità estrema: i furti sono in netto aumento, così come i disoccupati, gli esodati e i poveri che quest’anno raggiungeranno quota 4 milioni..
Oltre a ciò, sono presenti tanti altri problemi tra cui quello della sanità pubblica, in grave difficoltà economica, e quello dell’INPS: parliamo infatti dell’Istituto Nazionale Di Previdenza Sociale che, a partire dall’anno 2015,potrebbe non avere più i soldi necessari per poter pagare le pensioni.
Questo è ciò che si
evince dalla lettera inviata dal presidente dell’Inps, Antonio
Mastrapasqua, e indirizzata alla professoressa Fornero e a Grilli:
sulla lettera è presente il sigillo della Corte dei Conti,
e quindi dei magistrati contabili che analizzano il bilancio di previsione
2013.
Secondo questi ultimi il fatto di aver inglobato l’INPS con altri enti quali
Inpdap ed Enpals, manovra voluta dalla Fornero col decreto Salva Italia, avrebbe
portato gravi conseguenze all’interno delle casse dell’Istituto di Previdenza.
Nonostante un cospicuo aumento del
pagamento dei contributi obbligatori per l’anno 2013, i conti dell’INPS non
tornano: quest’ultimo deve pagare circa 265.8 miliardi e l’incasso dei nuovi
contributi è ipotizzato all’incirca a 213.7 miliardi.
Come si può notare, se si desidera che i conti siano in regola è
necessario varare qualche provvedimento.
Attualmente presso
l’Istituto di Previdenza Sociale si stanno facendo diverse prove e
calcoli per eventuali tagli, ma ciò che preoccupa maggiormente i
cittadini italiani è che il Consiglio dei Ministri possa inventarsi una nuova
riforma delle pensioni.
Intanto è stato deciso di non inviare più il CUD ai pensionati
tramite posta e, come già si evince, quelli che ci rimetteranno
principalmente saranno sempre i soliti.
Una
azienda con un patrimonio di 41 miliardi che nel giro di un paio d'anni ne
avesse persi così tanti da farlo scendere a soli 15, verrebbe considerata sana
oppure oppure desterebbe se non altro l'interesse di andarne a capire il motivo?
E ancora di più: nel caso in cui questa "azienda" fosse di importanza
fondamentale non solo per i suoi azionisti ma per l'intero Paese del quale fa
parte, sarebbe il caso, a livello informativo, di dare risalto alla notizia e di
farla entrare nel dibattito pubblico?
Le risposte sono scontate, ma le domande servono a introdurre l'argomento.
Perché lo Stato del quale parliamo è l'Italia, e l'"azienda" con questi conti
disastrati si chiama Inps.
L'istituto di previdenza, infatti, aveva a inizio 2011 un patrimonio di 41
miliardi, come detto, il quale si è ridotto a soli 15 in 24 mesi. Ma è a livello
tendenziale che le cose peggiorano e destano ancora più preoccupazione.
Ci sono due elementi importanti da tenere in considerazione più un terzo che è
addirittura determinante.
Inpdap profondo rosso
Il primo, motivo principale di questo calo del patrimonio, è relativo alla
fusione recente di Inpdap e Inps, cioè il fatto che il sistema pensionistico del
settore pubblico sia stato fatto confluire all'interno di quello del settore
privato (operazione datata appunto 2012). La fusione di questi due enti era
stata prevista trionfalmente, comunicando che, per via dei tagli alle spese che
tale operazione avrebbe comportato si sarebbero risparmiate alcune centinaia di
milioni di euro. Cosa puntualmente ancora non verificata, visto che sia la
prevista gestione unica degli immobili dei due enti sia la razionalizzazione del
personale è ancora di là dal venire.
Nel frattempo, però, questo matrimonio ha portato in dote al sistema
pensionistico del settore privato oltre 10 miliardi di rosso, contribuendo ad
affossare ancora di più le riserve originarie dell'Inps conteggiate a fine 2011.
Lo Stato moroso
Il secondo dato allarmante contiene una riflessione interessante, visto che,
come si dice, a pensar male si fa peccato ma spesso ci si prende. Dunque, il
grande buco dell'Inpdap - che, ribadiamo, era l'ente pensionistico dei
dipendenti del settore pubblico - dipende direttamente da un elemento chiave: le
pubbliche amministrazioni, da tempo e in modo diffuso, non stanno pagando del
tutto i contributi pensionistici dovuti dei propri dipendenti. Si tratta di una
somma stimata in circa 30 miliardi, che grava ovviamente sul bilancio già
fortemente compromesso dello Stato ma che, attenzione, non è ancora stato messo
agli atti, visto che proprio mediante la fusione con l'Inps è stato, per il
momento, occultato.
Ora, già il fatto che le amministrazioni pubbliche non stiano versando tutti i
contributi dei dipendenti, cioè che lo Stato sia moroso verso se stesso e i suoi
dipendenti, è cosa che dovrebbe chiarire da sola la situazione generale. Ma che
ora - ed eccoci alla riflessione poco ortodossa accennata poc'anzi - vi sia
stata questa misura di accorpamento tra Inpdap e Inps fa venire più di qualche
dubbio. È come se - meglio: è - lo Stato avesse scelto di prendere un proprio
ente in forte deficit (nel quale da una parte doveva far confluire alcune
proprie spese, cioè i contributi dei dipendenti, e dall'altra far uscire altre
spese, cioè l'erogazione delle pensioni) e lo avesse inserito, come un cavallo
di troia malefico, nell'altro ente (l'Inps) in cui sono i privati a far
confluire i propri contributi per unire il tutto in un calderone, prossimo al
collasso, sul quale far gravare un fallimento complessivo. Tra un po', in altre
parole, siccome l'Inps, con il patrimonio così drasticamente intaccato e con i
conti tendenziali in rosso, non potrà più erogare le pensioni, si prenderà atto
della cosa dimenticandosi che buona parte di questo scenario catastrofico
dipende proprio dai mancati versamenti del settore pubblico.
Baby boomers all'incasso (forse)
Il terzo elemento, anche in questo caso assente dal dibattito e dalle analisi
attuali, risiede nella constatazione che proprio in questi anni, e per il
prossimo quinquennio, c'è una enorme fetta del Paese a dover andare in pensione.
Si tratta della generazione dei baby boomers. Di quelli, per intenderci, che
negli anni Settanta tentarono la "rivoluzione" più celebrata che concreta. E
che, "una volta al potere", al posto delle rivoluzioni si sono invece premurati
di mettere al riparo i propri meri interessi. Oggi, in età pensionistica,
appunto, sono in procinto di passare all'incasso. Se questa massa di persone
fosse messa in grado di andare dritta in pensione così come giustamente
previsto, l'Inps crollerebbe in modo definitivo nel giro di qualche anno appena.
Ribadiamo, infatti, che già a fine 2013 il bilancio complessivo dell'Inps è
atteso a poco oltre 15 miliardi. Dai 41 di fine 2011.
Non solo: tutte le operazioni relative al sistema pensionistico degli ultimi
anni a questo punto possono - e devono - essere interpretate alla luce dei dati
che ora stanno venendo fuori, ma che evidentemente già anni addietro erano ben
presenti all'interno degli ambienti politici. Nel luglio del 2010, sul Mensile,
pubblicammo questo articolo: "In Pensione a 100 anni". Oggi bisogna aggiornarlo.
Il tentativo neanche troppo velato, almeno per chi voglia accorgersene, è quello
di evitare proprio che persone possano andare in pensione. Il che si applica
facendole lavorare il più a lungo possibile, spostando sempre in là la data in
cui sarà possibile andare in pensione. Con questo si otterrà il risultato di
aver fatto lavorare tutta la vita le persone, facendogli versare montagne di
contributi, sino al punto in cui avranno davanti ancora pochissimi anni, una
volta andate in pensione, per avere indietro dallo Stato solo una piccola parte
di quanto versato. Sempre che non muoiano prima sulla scrivania del proprio
posto di lavoro.
I giovani sono completamente fuori
Parallelamente, il fatto che così tante persone non possano lasciare il posto di
lavoro sino di fatto alla vecchiaia comporta anche l'assoluta mancanza di
turnover, e dunque pochissimo accesso dei giovani al mondo del lavoro. Come
stiamo puntualmente verificando. Questi, già penalizzati dalle riforme Fornero
sul lavoro che hanno aumentato le già elevate sperequazioni precedenti, tra
contratti da fame a 500 euro al mese e senza alcuna possibilità di accedere a un
posto di lavoro degno di questo nome, in ogni caso, ora e domani, non saranno
comunque in grado di versare contributi in quantità bastante a pagare le
pensioni di chi, via via, in ritardo e alla fine, comunque (per ora: almeno
secondo le norme attuali) in pensione poco alla volta ci sta andando.
Il tutto, naturalmente, contribuisce a peggiorare il quadro già disastroso
dell'Inps.
Dobbiamo a questo punto necessariamente correggerci. A destare preoccupazione
sono le cose incerte. Mentre qui si può tranquillamente parlare di una certezza:
l'Inps sta finendo nel buco nero statale e dunque le pensioni non potranno
essere più erogate a breve. Molto a breve, a meno di stravolgimenti sistemici
(uscita dall'Euro e ripresa della sovranità monetaria, ad esempio) che per ora
comunque non sono all'orizzonte. Il che apre scenari non preoccupanti, ma
terrorizzanti. Nel silenzio generale di chi sa ma non vuole far sapere.
L'Inps in crisi, liste di mobilità bloccate e pagamenti
della cassa integrazione sospesi. Soldi finiti
Dopo i tagli decisi dal governo Monti, da gennaio i dipendenti licenziati dalle aziende non possono essere più iscritti nelle liste di mobilità. Interrotti i pagamenti per la cassa integrazione in deroga.
Liste di mobilità bloccate. Pagamenti della cassa integrazione in deroga del 2012 sospesi. Soldi finiti. L'Inps sta precipitando nel baratro. E insieme all'istituto di previdenza anche i tanti lavoratori che ad esso sono iscritti e che presto si troveranno senza tutele
La questione, seppur semplice, è
drammatica: i fondi ministeriali destinati all'Inps sono terminati. E anche se
qualcuno prova a grattare il fondo del barile, da qui in avanti si potrà solo
cominciare a scavare.
Dopo i tagli decisi dal governo Monti, da gennaio 2013 i dipendenti licenziati
dalle aziende non possono essere più iscritti nelle liste di mobilità. La storia
è questa: l'iscrizione a queste liste speciali agevola l'inserimento dei
lavoratori licenziati nel mercato del lavoro, favorendo una ricollocazione
congrua al profilo professionale dell'utente. Entro 60 giorni dal licenziamento,
i lavoratori si devono presentare al centro per l'impiego territorialmente
competente e chiedere l'iscrizione alle liste. La commissione regionale per le
politiche del lavoro deve poi approvare le domande, che inoltra al centro per
l'impiego il quale provvede a trasmettere il certificato di iscrizione alle
liste di mobilità al domicilio del licenziato.
Successivamente, ed è questa la cosa importante, le aziende che vogliono
assumere queste persone, ottengono agevolazioni, in quanto per un anno (in caso
di contratto a tempo indeterminato) o per 18 mesi (in caso di tempo
indeterminato) non devono versare contributi. Va da sé, che se il lavoratore
licenziato resta fuori da queste liste, le aziende che vorrebbero assumerlo non
beneficiano più di questi sgravi contributivi, pertanto, specie in tempi di
crisi, nessuna di loro avrà interesse a dare una nuova occupazione a quel
lavoratore. Che quindi è condannato alla disoccupazione forzata.
Anche il motivo è semplice, seppur drammatico. Nella legge di Stabilità 2013
varata dal governo Monti non viene più rifinanziato il provvedimento che
consentiva ai lavoratori e alle lavoratrici licenziati individualmente per
motivi economici, senza diritto all'indennità di mobilità (soprattutto
dipendenti di piccole imprese), di usufruire dello sgravio contributivo in caso
di nuova assunzione.
Secondo queste disposizioni decadono dal diritto ad usufruire dello sgravio
contributivo anche coloro che erano già iscritti nelle liste di mobilità del
2012 e ancora in attesa di una nuova occupazione. Una legge che costava meno di
30 milioni di euro l'anno per tutto il territorio nazionale e che rappresentava
praticamente l'unica possibilità per queste persone, espulse dal ciclo
produttivo, di poter rientrare nel mondo del lavoro.
Le liste di mobilitazione, dunque, sono state chiuse col finire dell'anno e i
lavoratori licenziati che si sono rivolti ai centri per l'impiego si sono visti
respingere la loro iscrizione nelle liste per il mancato inserimento nella legge
di Stabilità della proroga annuale. Quasi come una beffa, è stato spiegato loro
che non è certo se questa mancata proroga della lista, sia da addebitare ad una
precisa volontà da parte del governo o ad una dimenticanza.
La portata della mancata proroga in realtà è ben più grave. Dal 1° gennaio 2013
è venuto meno anche lo stanziamento necessario a finanziare gli incentivi per
l'assunzione dei lavoratori già iscritti nelle liste di mobilità. La decisione,
o dimenticanza, del governo Monti e del ministro Fornero tradisce così le
promesse fatte in Parlamento. Dopo il pasticcio "esodati", insomma, siamo di
fronte ad un altro provvedimento che colpisce i lavoratori più deboli e le loro
famiglie.
L'altro tema che cuoce a fuoco lento è quello delle pratiche bloccate della
cassa integrazione in deroga. Con una circolare ministeriale, e una dell'Inps, è
stata comunicata l'interruzione nei pagamenti delle pratiche di cassa
integrazione in deroga del 2012.
"Insomma, in questo momento migliaia di lavoratori e lavoratrici sono in attesa
del trattamento di integrazione salariale o di mobilità a cui hanno diritto, pur
essendo stato richiesto nei termini di legge, e si ritrovano senza alcun reddito
o con una riduzione della loro paga, per una burocratica prescrizione che ha
bloccato decine di migliaia di pratiche di cassa integrazione in deroga e
mobilità in tutta Italia", spiega l'esperto di contabilità Samuele Rinaldi.
L'Inps che, con un'incredibile solerzia, ha subito vietato l'accesso al sistema
informativo per l'inserimento delle pratiche, sostiene che questa disposizione è
giustificata dalla necessità di un monitoraggio efficace. "Ma da quando una
necessità contabile viola la legge e produce un blocco di richieste legittime
che possono e devono essere esaudite?", si chiede Luigi Ceglia, Femca-Cisl
Firenze. Che aggiunge: "Non ci rendiamo conto della gravità della situazione.
Così non fanno altro che alimentare malessere. Diventerà un problema di ordine
pubblico perché di questo passo andremo allo scontro sociale".
Ed è chiaro a tutti quali siano state le ragioni di questi blocchi: i fondi per
gli ammortizzatori in deroga sono finiti.
Infine, alle normali difficoltà di reperimento dei Cud Inps, mancato o ritardato
invio, indirizzi sbagliati, etc., da quest'anno si aggiungerà - sempre sulla
base di quanto disposto dalla legge di Stabilità di Monti - l'ulteriore
difficoltà per il pensionato Inps di dover scaricare il proprio Cud da solo,
accedendo con un numero pin personale al portale dell'istituto e senza più
l'invio di supporti cartacei. La giustificazione data dall'Inps è che non ha più
soldi per inviare le raccomandate.
Soldi che evidentemente, però, non ha problemi a reperire per il suo presidente,
Antonio Mastrapasqua, il quale continua a percepire stipendi d'oro per i suoi
numerosi incarichi. Nella recente lista stilata dal ministero, compare solo il
suo compenso da presidente Inps, ovvero 216.711,67 euro. Ma in questo conteggio
non c'è il compenso che Mastrapasqua riceve in qualità di vicepresidente di
Equitalia e quelli per gli altri 22 incarichi che possiede. Il suo reddito
complessivo annuale sarebbe stato stimato in un milione e duecentomila euro.
Viva l'Italia.
Imprese senza soldi: 350 non pagano i contributi all’Inps
Nel 2012 numerose le aziende in crisi economica In aumento del 36% i lavoratori in nero smascherati
BELLUNO.
Imprese sempre più carenti di liquidità, tanto che sono già più di 350 quelle
che nel 2012 non hanno versato i contributi previsti all’Inps. Lo dicono i dati
dell’Istituto di previdenza del Veneto, nel report relativo all’attività dello
scorso anno.
«Ogni mese l'azienda presenta una dichiarazione mensile (Dm) dei contributi
versati, col numero dipendenti e le quote versate dai lavoratori e quelle di
competenza dell'azienda», precisa Franco Piacentini, membro del consiglio
dell’Inps veneto. Nel 2012, le dichiarazioni mensili parzialmente insolute (dove
l’azienda ha versato l’8% dei dipendenti, ma non il 25% di propria spettanza)
sono aumentate del 19.23% (da 286 a 341), mentre gli insoluti totali (ovvero non
è stata versata nessuna quota) sono cresciuti del 19.24% (da 2942 a 3508),
registrando il trend più alto di tutto il Veneto. «E questo perché non hanno la
liquidità per pagare i versamenti dovuti. Siamo di fronte a una situazione
preoccupante», continua Piacentini, che aggiunge: «Sia che siano parzialmente o
completamente insolute, le aziende possono contattare l'Inps e chiedere una
dilazione del versamento in 24 mesi. La situazione di grave crisi potrebbe
ripercuotersi sul lavoratore, che potrebbe non vedere riconosciuti i mesi di
lavoro di cui non sono stati versati i contributi, se non è in possesso delle
buste paga e del libretto di lavoro. Quello che giunge da questi dati è un grido
di allarme importante e la politica non può non raccoglierlo».
Un altro segnale della crisi è l’aumento dell’utilizzo dei voucher, passati da
38.511 a 79.802, soprattutto a carico della committenza pubblica, Comuni che,
non potendo sforare il patto di stabilità e avendo per contro bisogno di
manodopera, devono ricorrere a questi tipi di contratti. In crescita l’uso dei
voucher anche nel settore turistico e del commercio oltre che dei servizi.
«I voucher valgono 10 euro: 7.5 euro netti vanno al lavoratore, il resto sono
per contributi e assicurazioni Inail», spiega Piacentini.
In aumento anche il lavoro nero, cioè la presenza di personale non registrato
nel libro matricola dell'azienda. Le ispezioni dell’Inps sono passate dalle 190
del 2011 alle 270 del 2012: durante questi controlli sono stati scoperti 124
lavoratori in nero, «per lo più stranieri e nel campo edile», precisa
Piacentini, con un incremento di irregolarità del 36,26%, pari a 683 mila euro
di contributi non versati (+131.53% rispetto al 2011)
Il quadro del 2012 è preoccupante anche per quanto riguarda la lievitazione
delle domande di cassa integrazione e di mobilità registrate. L’anno scorso,
infatti, sono state autorizzate in provincia di Belluno 4.139.730 ore di cassa
ordinaria, con un aumento del 74.3% rispetto al 2011, quando erano 2.375.273.
Leggera crescita anche per la Cig straordinaria, passata da 1.075.379 ore a
1.288.455 (+19.8%); raddoppiano le ore richieste per la cassa in deroga (da
810.798 a 1.228.915 ore).
Per quanto riguarda la disoccupazione, l’aumento ha toccato il 31.4%.
APPROFONDIMENTO
Gli stipendi d’oro dei manager pubblici, la lista