DARFUR,

UNA VERGOGNA PER

TUTTA L'UMANITà!

 

(A cura di Claudio Prandini)

 

 

 

 

Chissà perchè, in quasi tutto il mondo, se non ci sono interessi del genere (petrolio, diamanti, ecc.) le etnie e le religioni diverse convivono per centinaia di anni nello stesso territorio senza problemi, quando arriva qualche multinazionale ad estrarre il petrolio o i diamanti cominciano i problemi.

 

 

 

 

LA SITUAZIONE

 

 

Darfur: Washington Post, "Bush non

ha mantenuto le sue promesse"

 

di Redazione - 29/10/2007

 

Attacco durissimo del quotidiano americano contro il presidente Bush: le sue parole non sono state seguite da azioni concrete

Il presidente americano George Bush si è più volte accalorato sul dramma del Darfur, mostrando interesse e passione, ma le sue parole non sono state seguite da azioni concrete, rileva oggi il Washington Post. Gli Stati uniti sono l'unico paese al mondo a parlare apertamente di "genocidio" in corso nella regione sudanese, ma Bush "ha lasciato cadere diverse iniziative per inerzia", ed è stato "incapace di mobilitare sia la sua burocrazia che la comunità internazionale".

Malgrado tutti concordino che la forza di 7mila uomini dell'Unione Africana in Darfur sia insufficente, gli Stati Uniti non hanno voluto mandare truppe, né sono riusciti a convincere altri paesi a farlo, o a raggiungere una soluzione diplomatica. In privato Bush dice di avere le mani legate sul Darfur, perché dopo l'Iraq e l'Afghanistan non può "invadere un altro Paese musulmano". Già nel 2005, racconta il Post, il presidente aveva proposto ai suoi consiglieri l'invio di elicotteri americani contro le milizie arabe janjaweed che attaccavano i profughi, ma i suoi collaboratori, compreso l'allora capo del Pentagono Donald Rumsfeld, erano contrari.

Anche l'idea avanzata da Bush nel febbraio 2006 di usare forze della Nato in Darfur, si è arenata. Cosiì come, di fronte all'ostilità dei suoi collaboratori, è caduta l'ipotesi caldeggiata dal presidente di premere su Khartoum tramite la sua industria petrolifera, una mossa che avrebbe creato problemi con la Cina. A rendere meno efficace l'azione dell'amministrazione americana vi è stato anche l'avvicendamento di diversi consiglieri su questo tema, fra cui l'ex assistente del segretario di Stato Robert Zoellick e o l'assistente del presidente Michael Gerson.

 

 

***

 

 

LA  PROVOCAZIONE E LA PROPOSTA

 

 

 

 

 

 

Sudan, disinvestire fa bene
 

Fondazione britannica lancia appello

 per un boicottaggio 'etico'

 

Fonte web


Denaro 'sporco'. Dove finiscono i tuoi soldi? Potresti aver finanziato il genocidio in Darfur? Si apre con questo disturbante interrogativo il rapporto di una fondazione britannica, la Aegis, nel quale sono elencate le compagnie del Regno Unito che investono nel settore petrolifero sudanese. Poiché, tra le altre, figurano società che gestiscono fondi pensione e altri istituti che amministrano i risparmi di migliaia di persone, la Aegis ha lanciato una campagna di disinvestimento mirata il cui fine è quello di privare la leadership sudanese della principale entrata economica. Quella dei proventi dell'oro nero. Il 60 percento delle entrate del Paese africano provengono dalle royalties dell'industria del petrolio. Con questo denaro, secondo la Aegis, vengono armati i miliziani arabi janjaweed e condotte campagne militari nelle zone teatro del genocidio e a tutt'oggi sottoposte a violenze continue.

Chiesa e petrolio. La crisi in Darfur ha provocato tra 200 e 400 mila morti. Il primo responsabile - denuncia la Aegis - è il governo di Khartoum, che si è dimostrato indifferente alle pressioni politiche esercitate per porre termine alle uccisioni, a disarmare i janjaweed, a cooperare col tribunale penale internazionale, accettando solo ieri il dispiegamento di una missione mista (Onu e Unione Africana) di 20 mila peacekeepers (che verrà inviata nella regione solo il prossimo anno). I profitti del petrolio sono schizzati da 62 milioni di dollari nel 1999 ai 4.5 miliardi del 2006. Quali sono le compagnie petrolifere straniere che versano le royalties a Khartoum? Quali, nel Regno Unito quelle che posseggono quote azionarie di queste compagnie? I cinesi, innanzitutto. A godere delle generose concessioni di estrazione, PetroChina e Sinopec fanno la parte del leone. Poi c'è la malese Petronas, la svedese Lundin, l'indiana Oil and Natural Gas Company e la britannica Petrofac. Tra i più consistenti investitori figura, sorprendentemente, la Chiesa d'Inghilterra. Gli anglicani possiedono 850 mila azioni della Petrochina e poco più di un milione della Sinopec. Poi ci sono i fondi pensione, o altri istituti d'investimento, come la Barclays Bank, terzo istituto di credito del Regno Unito.


Peter Hain
Intervento autorevole. Sostegno alla campagna di disinvestimento è stato offerto da un importante personaggio politico: Peter Hain. Segretario di Stato dell'Irlanda del Nord, già attivista contro l'apartheid sudafricano e uno dei fautori del recente accordo di Belfast tra unionisti e nazionalisti, Hain è uno dei candidati alla vicepresidenza dei Labour. Istituendo un parallelismo tra i potenziali effetti del disinvestimento in Sudan e i risultati ottenuti attraverso il boicottaggio economico durante la battaglia anti-apartheid in Sudafrica e un'analoga politica di sanzioni adottata in Irlanda del Nord, Hain ha dichiarato che la finalità della campagna della Aegis è di "colpire il governo del Sudan e la sua élite direttamente nel portafoglio e al tempo stesso utilizzare la cautela e la cura necessarie a minimizzare le conseguenze umanitarie di tali azioni". Otto Paesi, Australia, Canada, Germania, Irlanda, Italia, Sud Africa, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno cominciato a intraprendere campagne di disinvestimento mirato. Quattro aziende - la Abb (Svizzera), Siemens (Germania), Rolls Royce (Regno Unito), Chc Helicopter (Canada) si sono ritirate dal Sudan. Un'azienda, la francese Schlumberger, si è impegnata nella promozione e nell'attuazione di programmi umanitari di sostegno alla popolazione.
 

 

 

 

Cartina del Sudan - Il Darfur è l'ovest del paese

 

 

 

 

ANALISI VARIE

 

 

Il Darfur, storia di un genocidio dimenticato

Fonte web

Il Darfur è una regione situata all'ovest del Sudan, nel deserto del Sahara. È in maggioranza costituita da popolazioni mussulmane, come nel resto del nord della nazione. Il territorio è suddiviso in tre province: Gharb Darfur con capitale Al-Genaina, Chamal Darfur con capitale Al Fachir e Djanoub Darfur con capitale Nyala. A lungo governato dai mussulmani, il sultanato del Darfur raggiunse la massima potenza tra la fine del XVII ed il XVIII secolo. Inglobato nell'Egitto nel 1874, fu coinvolto nella rivoluzione mahdista, ottenendo, nel 1898, una certa indipendenza.

Dal 2003 il Darfur è teatro di un feroce conflitto che vede contrapposti la locale maggioranza nera alla minoranza araba (maggioranza nel resto del Sudan). Quest'ultima è però appoggiata dal governo centrale, che è accusato di tollerare le feroci scorribande della tribù nomade-guerriera dei Janjaweed, anch'essa di origine araba. Il Darfur copre una superficie di circa 490 000 km², la popolazione è stimata in circa 6 milioni di abitanti. Gran parte del territorio è formata da un altopiano.

Il conflitto, iniziato nel febbraio del 2003, vede contrapposti i Janjaweed, un gruppo di miliziani reclutati fra i membri delle locali tribù nomadi dei Baggara, e la popolazione non Baggara della regione (principalmente composta da tribù dedite all'agricoltura). Il governo sudanese, pur negando pubblicamente di supportare i Janjaweed, ha fornito loro armi e assistenza e ha partecipato ad attacchi congiunti rivolti sistematicamente contro i gruppi etnici Fur, Zaghawa e Masalit.

Le stime sul numero di vittime del conflitto variano a seconda delle fonti da 50.000 (Organizzazione Mondiale della Sanità, settembre 2004) alle 450.000 (secondo Eric Reeves, 28 aprile 2006). La maggior parte delle ONG reputa credibile la cifra di 400.000 morti fornita dalla Coalition for International Justice e da allora sempre citata dalle Nazioni Unite.I mass media hanno utilizzato, per definire il conflitto, sia i termini di "pulizia etnica" sia quello di "genocidio". Il Governo degli Stati Uniti ha usato il termine genocidio, non così le Nazioni Unite.

A seguito della recrudescenza degli scontri durante i mesi di luglio e agosto del 2006, il 31 agosto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la Risoluzione 1706, che prevede che una nuova forza di pace, composta da 20.000 caschi blu dell'ONU, sostituisca o affianchi i 7.000 uomini dell'Unione Africana attualmente presenti sul campo. Il Sudan ha avanzato forti obiezioni nei confronti della risoluzione e ha dichiarato che le forze ONU che dovessero entrare in Darfur sarebbero considerate alla stregua di invasori stranieri. Il giorno seguente i militari sudanesi hanno dato il via ad un'imponente offensiva nella regione.
Sono state finora approvate diverse risoluzioni dal Consiglio di Sicurezza, inviata sul posto una missione dell' Unione Africana (AMIS) e discusso il caso presso la Corte penale internazionale dell'Aja. Le aree più critiche sono i territori del Darfur occidentale, lungo il confine con il Ciad e oltre, dove l'assenza di condizioni di sicurezza hanno ostacolato anche l'accesso degli aiuti umanitari.

 

 

Madre che allatta il suo bambino in un luogo

dove la mortalità infantile è elevatissima.

 

 

 

 

 

Dove comincia la crisi del Darfur

 

Interessi internazionali su una zona fra le più ricche di petrolio del continente africano e ataviche rivalità fra etnie africane e popolazioni nomadi arabe sono alla base di un conflitto che dopo aver riempito le pagine dei giornali è stato subito dimenticato

 

di Francesco Stefanini

Il Sudan,

oltre a essere il più grande paese del continente africano, con un'area di oltre 2,5 milioni di kilometri quadrati, fa anche da frontiera tra il mondo arabo e l'Africa nera.
Dal giorno dell'indipendenza, nel 1957, sono solamente dieci gli anni in cui la popolazione sudanese ha vissuto in pace: per il resto del tempo il paese è stato sempre attraversato da conflitti più o meno gravi ed estesi. Il Sudan sembra affetto da una situazione cronica di conflitto: sulla distanza a volte incolmabile tra il governo centrale arabo e islamico di Khartoum e le periferie sudanesi popolate da numerose etnie nere africane, hanno potuto così attecchire motivi di conflitto innescati da variabili economiche, politiche e anche religiose.
Secondo le stime dell'ONU più di un milione di sfollati interni, quasi 200mila profughi, e migliaia di morti, dai 5mila denunciati dal governo sudanese ai 30/50mila indicati dall'Onu stessa: sarebbero questi i numeri della crisi del Darfur, ultima in ordine temporale, una crisi, che ha assunto proporzioni talmente ampie da imporsi nelle cronache di mezzo mondo. In meno di due anni, tra il 2003 e il 2005, gli scontri tra ribelli e governativi e le violenze dei Janjaweed (bande armate di predoni arabi) hanno causato una crisi umanitaria di proporzioni sconcertanti su cui si rincorrono i numeri, più o meno gonfiati a seconda della fonte e degli interessi mediatici: per ora le stime dell'ONU sembrano le meno condizionate.

La lotta

per le aree verdi, che col passare degli anni e l'avanzare della desertificazione sono andate sempre più restringendosi; le differenze, che restano forti, tra arabi e non arabi (come molti studiosi e antropologi di solito classificano le popolazioni sudanesi), differenze che passano anche per le attività pastorizia e di agricoltura a cui questi due gruppi si dedicano: sembrano queste le ragioni di un conflitto permanente che valgono per il resto del Sudan e si sommano per il caso del Darfur. Gli arabi, nomadi e prevalentemente dediti alla pastorizia, si spostano per la regione in cerca di pascoli secondo la stagione delle piogge, o comunque il susseguirsi delle stagioni; i neri africani vivono di agricoltura, sono stanziali e le loro rivendicazioni di proprietà su quelle terre affondano le radici nella storia e nei sultanati indipendenti che per secoli si sono avvicendati al potere, ultimo proprio quello dei Fur (Dar-fur vuol dire "proprietà tribale" o "territorio" dei Fur), l'etnia nera principale dell'area insieme agli Zaghawa, ai Masalit e a un'altra decina di gruppi minori. Tuttavia è stato sempre il codice tribale a mantenere gli equilibri tra i due gruppi e a risolvere le dispute per il controllo e l'utilizzo della terra: per quanto le ragioni dei conflitti possano sembrare ataviche e istintive, grazie al rispetto di questo codice gli scontri per la terra non risultano essere la costante della storia del Darfur. Col passare del tempo però le due anime del Sudan, quella araba e quella non araba, sono andate sempre più allontanandosi, e all'abbandono politico economico in cui Khartoum ha condannato le periferie del Paese si è sommata una nuova presa di coscienza delle popolazioni nere. La guerra combattuta dall'Esercito popolare di liberazione del Sudan (Spla) contro Khartoum per l'indipendenza, l'autonomia o anche la secessione del Sud Sudan ha approfondito - aggiungendo motivazioni politiche e soprattutto economiche - un solco già netto tra i due Sudan; la presenza del petrolio e di importanti interessi internazionali ha fatto il resto.
La crisi del Darfur e l'esasperazione delle tensioni e differenze di cui la sua storia è intrisa mostrano un evidente legame con le tormentate vicende del Sud del Paese. Khartoum è stata praticamente costretta dalla comunità internazionale a trovare un accordo con i ribelli dello Spla e del Sud Sudan a causa del petrolio che si trova nelle zone contese e in cui da anni operano aziende americane, indonesiane, cinesi e di varie altre nazionalità. Gli accordi siglati prevedono che a sei anni dalla firma della pace definitiva, il Sud Sudan tenga un referendum per decidere se diventare indipendente o meno. Il governo sudanese rischia così di perdere il controllo diretto di una vasta fetta di territorio, ma soprattutto crea un precedente preoccupante rispetto alle altre popolazioni nere dell'Ovest e dell'Est del Paese.

Gli interessi petroliferi

hanno consentito ai ribelli del Sud di fare il salto di qualità ottenendo fondi, armi e appoggi logistici e politici, e niente vieta che chiunque possa strumentalizzare il malcontento dei neri africani del resto del Sudan per lottare contro Khartoum. Infatti, mentre il governo centrale faceva la pace col Sud, ad ovest si apriva un nuovo focolaio. In fondo, non è sorprendente. C'è una parte delle istituzioni sudanesi che non vedono di cattivo occhio il fatto che i predoni arabi (a quanto pare maggiormente legati al governo centrale) si espandano in Darfur ai danni degli agricoltori neri, bilanciando così le proporzioni fra la popolazione nera ora prevalente e l'etnia araba minoritaria in quella zona ma maggioritaria nel governo, sottolinea una fonte diplomatica occidentale. Arabizzazione o meno, in Darfur, così come accadde per il Sud Sudan, sembrano pronti a entrare in gioco anche importanti interessi internazionali. "È un caso l'improvvisa e martellante copertura mediatica internazionale? È comunque evidente che va di pari passo con la recente attenzione internazionale per il Darfur, inclusa quella di capitali potenti e lontane che d'improvviso scoprono e gridano allo scandalo per una crisi che era già in corso da più di un anno e che fino a poco fa, per esempio prima della visita del segretario di Stato americano Colin Powell, sembrava destinata ad entrare nel folto club delle guerre dimenticate. Anche in Darfur, come per il Sud Sudan, qualcuno spiega l'attenzione mondiale con la chiave del petrolio: secondo alcuni questa regione semidesertica sarebbe ricca di giacimenti, secondo altri invece rivestirebbe un'importanza chiave per l'utilizzo dei giacimenti presenti a sud. Una delle ipotesi maggiormente accreditate è quella che vede alcuni gruppi di potere e di pressione interessati a creare un oleodotto che colleghi direttamente i pozzi del sud e centro Sudan (quelli contesi per vent'anni da Khartoum e Spla) con il gigantesco oleodotto, costruito dalla Banca Mondiale e dal Fondo monetario internazionale, che porta il greggio dai giacimenti del Ciad meridionale fino al porto di Kribi sulle coste atlantiche del Camerun per un totale di oltre 1100 chilometri di tubazioni. Questo collegamento dovrebbe avvenire proprio passando attraverso la regione del Darfur, che potrebbe, dovrebbe, i condizionali in questo caso si sprecano, ospitare il raccordo. Per il momento il petrolio sudanese prenderebbe la strada opposta dirigendosi verso oriente e la costa sudanese sul Mar Rosso e quindi l'Oceano indiano dove il 40% del greggio sudanese partirebbe per la Cina, presente in loco con le sue due imprese nazionali di idrocarburi da anni", così l'agenzia di stampa MISNA esamina il caso Darfur.

Ad oggi in Darfur

non sono presenti i "peace keepers", i soldati di pace dell'ONU: sono invece presenti circa 7200 soldati dell'Unione Africana (l'Africa inizia a curarsi i propri mali ma con pochi strumenti). Per qualche ragione non proprio evidente il governo del Sudan non accetta l'intervento dell'Onu a differenza di quanto è accaduto per l'altra parte del paese: al termine del conflitto tra il nord e il sud del Sudan infatti, nel 2005, era stata approvata una missione di pace delle Nazioni Unite. Sembra quindi che il governo apra le porte all'ONU e alla comunità internazionale solo a una parte del paese, quella dell'est, precludendone invece l'accesso al nord, nella regione del Darfur.

Il Sudan resta uno dei principali produttori potenziali di greggio: a oggi il Sudan produce circa 500mila barili di greggio al giorno. La Nigeria, che è il principale produttore dell'Africa subsahariana, collocandosi al 7°/8° posto fra i principali produttori al mondo, esporta ogni giorno dai 2,3 ai 4 milioni di barili, nonostante i 2/3 della sua popolazione vivano con meno di due dollari al giorno.

 

 

La morte violenta è di casa nel Darfur

 

 

 

In affari con Khartoum

di Francesco Terreri

Mentre nel Darfur infuriano le violenze, c'è chi con il regime al potere in Sudan fa buoni affari in campi come il petrolio, le armi, le tecnologie sensibili: dalla Cina alla Malaysia, dal Canada alla Russia, dalla Gran Bretagna all'Italia. Che risulta il terzo cliente della produzione petrolifera sudanese, mentre la joint venture italo-britannica Alenia Marconi Systems fornisce a Khartoum sistemi radar per il controllo del traffico aereo. Apparecchiature da 22 milioni di euro installate in aeroporti che sono anche militari.
In Sudan, e in particolare nella regione occidentale del Darfur, è emergenza umanitaria per le migliaia di profughi che fuggono dalle loro case, raggiungendo anche il vicino Ciad, a seguito della campagna di violenza e di terrore contro i civili da parte delle milizie armate Janjaweed sostenute dal governo di Omar al-Bashir. Dall'inizio della crisi nel febbraio 2003 - ci informa Medici Senza Frontiere che opera in zona nei campi profughi (www.msf.it) - almeno un milione di persone ha abbandonato la propria casa e di esse circa 130 mila sono scappate in Ciad.

Il governo sudanese, che deve farsi perdonare altre guerre interne (2,2 milioni di morti dal 1983 secondo stime Onu) e una lunga convivenza con il terrorismo islamista e Osama Bin Laden, è sotto pressione da parte di Nazioni Unite, Unione Africana, Stati Uniti, ma nessun provvedimento è stato finora adottato. L'11 luglio è stato raggiunto un generico accordo col governo del Ciad in cui Khartoum si impegna a "prevenire le violenze". L'Unione Europea, dal canto suo, sembra fredda sul problema dei profughi, come ha mostrato l'atteggiamento di Italia, Germania e della neo-entrata Malta nel caso della nave tedesca Cap Anamur.
Nel campo degli affari invece la situazione dei diritti umani in Sudan non sembra ispirare particolari cautele. Dal 1999, dopo anni di esplorazioni e di limitata produzione per l'interno, è attivo il più importante bacino di estrazione petrolifera per l'esportazione, quello di El Muglad, 800 km a sud-ovest di Khartoum. La produzione, trasportata al terminale di Suakin sul Mar Rosso da una pipeline di 1.600 km, fa capo al consorzio Greater Nile Petroleum Operating Company (Gnpoc) che ha come soci le compagnie di stato cinese China National Petroleum Corporation (40% del capitale) e malaysiana Petronas (30%), la società privata canadese Talisman Energy (25%) e la Sudan National Petroleum Corporation (Sudapet) del governo di Khartoum con il restante 5%. Un secondo consorzio che sta attivando campi petroliferi in un'area vicina comprende la International Petroleum Corporation, controllata dalla svedese Lundin Oil (40,375%), di nuovo la Petronas (28,5%), l'austriaca Ömv Sudan (26,125%) e la Sudapet (5%). Mentre la Talisman è stata penalizzata in Borsa dai fondi di investimento socialmente responsabili per la sua attività in Sudan, Lundin e Ömv hanno espresso molti dubbi sulla possibilità di proseguire le operazioni se non migliora la situazione dei diritti umani e delle violenze nel paese.

L'italiana Eni era stata tra le prime compagnie a cercare il petrolio in Sudan nella seconda metà degli anni '50. Apparentemente si è sfilata dalla partita proprio quando stavano arrivando i risultati: nel 1999 l'Agip Sudan è stata ceduta alla Gapco, Gulf Africa Petroleum Corporation, una società di Mauritius controllata da due uomini d'affari tanzaniani, i fratelli Kotak. Apparentemente, appunto. Perché negli anni successivi l'Italia è diventato il terzo cliente della produzione petrolifera sudanese.
Secondo i dati Istat sul commercio con l'estero, l'Italia ha acquistato tra il 1999 e il 2003 petrolio da Khartoum per oltre 144 milioni di euro: 24,6 milioni nel '99, 14,4 milioni nel 2000, 13,2 milioni nel 2001, 54,8 milioni nel 2002 e 37,1 milioni nel 2003. Il Sudan è entrato tra i primi venti fornitori del nostro paese. Ma tra i clienti dello stato africano siamo al terzo posto. Secondo le statistiche doganali Onu (Comtrade), le entrate sudanesi da esportazioni di petrolio superano ormai il miliardo di dollari. Nel 2002, ultimo dato disponibile, il primo cliente è stata la Cina per quasi 940 milioni di dollari, seguita da Singapore con 65 milioni mentre gli acquisti italiani sono valutati 52 milioni di dollari e il partner successivo, gli Emirati Arabi Uniti, è a 45 milioni di dollari.

Al tempo stesso Khartoum si approvvigiona di armi da Russia, Iran, Cina ma anche Lituania (altra new entry nell'Ue), Gran Bretagna, Svizzera. Nel 2001 sono arrivati in Sudan dalla Federazione Russa, via Bielorussia (che l'ha comunicato al Registro Onu dei trasferimenti di armi convenzionali), 20 carri armati T-55M. Nello stesso anno, secondo i dati Comtrade, la Gran Bretagna ha fornito 420 mila dollari di munizionamento. Nel 2002 armi e munizioni sono stati esportati da Svizzera (4,3 milioni di dollari), Cina (2,2 milioni), Iran (1,5 milioni). Sempre nel 2002, secondo gli istituti di ricerca specializzati, tra Sudan e Russia sarebbe stato siglato un accordo di cooperazione militare e Khartoum avrebbe ordinato 12 cacciabombardieri MiG-29s, mentre dalla Lituania sarebbero arrivati elicotteri Mi-8.
Il 20 febbraio 2001 Alenia Marconi Systems, la joint venture paritetica tra la britannica Bae Systems e l'italiana Finmeccanica, annuncia di aver ricevuto una commessa da 15 milioni di sterline (oltre 22 milioni di euro) dalla Sudanese Civil Aviation Authority per la seconda fase del Programma di implementazione del sistema radar civile, dopo aver concluso tre anni prima la prima fase, cioè la fornitura di attrezzatura radar per l'aeroporto di Khartoum. La seconda fase prevede l'installazione di radar di sorveglianza e di controllo del traffico aereo negli aeroporti di El Obeid, al centro del paese verso la zona petrolifera, Port Sudan, sul Mar Rosso, e Juba, all'estremo sud.

Nel 2002 l'Italia risulta la prima fornitrice di radar al Sudan con materiale del valore di 4 milioni di dollari. Ma sulla natura solo civile dei sistemi forniti sorgono forti dubbi sollevati anche nel Parlamento britannico, ad esempio il 4 novembre 2002 alla Camera dei Lord dall'interrogazione di Lord Alton che mette in relazione la fornitura dei radar e quella russa dei velivoli MiG-29. Sia El Obeid, sia Port Sudan, sia Juba sono aeroporti utilizzati dalla Sudan Air Force. E l'aviazione di Khartoum bombarda anche i villaggi del Darfur: il 4 giugno un mediatore del Ciad racconta all'Agenzia France Presse dell'attacco di aerei ed elicotteri su Tabet, nel nord. Obiettivo: il mercato in piazza.
 

 

Campo profughi del Darfur

 

 

 

 

LE ULTIME news

(autunno 2007)

 

 

La metamorfosi dei ribelli darfurini, da

portavoce degli oppressi a ostacolo per la pace

Fonte web

La pietra tombale sui colloqui di pace per il Darfur, cominciati questo weekend (fine ottobre 2007) a Sirte, in Libia, l'hanno messa i gruppi ribelli riunitisi a Juba nell'ultima settimana. Ideato dai mediatori per permettere alle formazioni armate del Darfur di trovare una posizione negoziale comune, l'incontro di Juba è andato fin troppo bene. Tanto che sei delle sette fazioni del Sudan Liberation Movement, compresa quella guidata dal leader storico Abdel Wahid al Nur, hanno comunicato che non si recheranno in Libia, così come il principale gruppo armato della regione, il Justice and Equality Movement. Oltre ad aver affossato il summit, i ribelli si sono così esposti al fuoco di fila della diplomazia internazionale, facendo il gioco delle autorità sudanesi. E costringendo l'Onu a prolungare le trattative di almeno tre settimane, per tentare di salvare il salvabile.

Sono ormai lontani i tempi in cui l'Occidente, che a parole è stato sempre molto solerte nel condannare la politica del regime sudanese, vedeva nei ribelli i portavoce delle popolazioni darfurine oppresse dal giogo di Khartoum. Dal maggio 2006, quando il governo sudanese firmò in Nigeria un accordo di pace con una delle fazioni del Slm, tutto è cambiato: il Slm si è spaccato in almeno sette gruppi, il Jem in cinque, senza contare la nascita di almeno altre quattro formazioni armate.

I motivi di questa scissione di massa sono molteplici: divergenze sulla linea da tenere nei confronti di Khartoum, divisioni etniche tra le comunità darfurine, o semplice opportunismo di alcuni comandanti che, secondo quanto dichiarato recentemente a PeaceReporter da un leader politico del Slm, hanno raccolto qualche decina di uomini e poche armi per entrare a forza nel processo di pace e goderne i benefici in termini di visibilità politica e facilitazioni economiche. Un portavoce ribelle è arrivato a dichiarare a PeaceReporter che le spaccature sarebbero un processo naturale e ben accetto, perché portatore di nuove idee. Peccato che, a livello pratico, abbiano avuto un solo risultato: far perdere punti nella battaglia forse più importante, quella per la conquista dell'opinione pubblica.

I ribelli non sono riusciti neanche a trovare una posizione unitaria per giustificare la mancata presenza a Sirte: la maggior parte ha chiesto di rimanere a Juba più tempo (almeno tre settimane) per trovare una posizione comune e ha criticato la scelta della Libia come mediatore; altri hanno incolpato l'Unione Africana e le Nazioni Unite, che non avrebbero tenuto conto della reale forza sul campo delle formazioni ribelli, dando a tutte uguale rappresentanza; altri ancora (non a torto) non ritengono di poter trattare con il governo sudanese, mutilato dalla mancata presenza del Sudan People's Liberation Movement, che rappresenta il sud del Paese e ha sospeso la partecipazione all'esecutivo due settimane fa. Le prospettive sono talmente grigie che i mediatori hanno fissato come obiettivo realistico quello di tenere in vita nelle prossime tre settimane i colloqui di Sirte, nella speranza nel prosieguo alcuni gruppi decidano di parteciparvi. Lunedì, esponenti del governo sudanese e delle Nazioni Unite si sono recati in Darfur per incontrare gli esponenti ribelli non presenti a Sirte. Mentre le sei fazioni presentatesi in Libia non sembrano avere neanche una precisa agenda politica.

Nonostante l'apertura degli ultimi giorni, i diplomatici stanno esaurendo la pazienza, e minacciano sanzioni verso i “disertori” di Sirte. Provvedimenti che non risolverebbero il problema, ma che lasciano intendere come il vento sia cambiato e la posizione negoziale di Khartoum si sia rafforzata. Da stato “pariah”, ora il governo sudanese si può permettere di annunciare una tregua unilaterale durante i colloqui, per mostrare al mondo la sua volontà di pace. Poco importa se, dall'altra parte del tavolo, c'è per ora uno sparuto gruppo di rappresentanti ribelli senza alcun vero peso in un conflitto che, in quattro anni, ha provocato almeno 200.000 morti. Una volta tanto, i mediatori occidentali non potranno incolpare il regime di Khartoum, rassegnandosi a distribuire in maniera più equa le responsabilità della guerra. 

 

 

APPROFONDIMENTO

 

Quegli straccioni del Darfur

Perché non diciamo esattamente come

stanno le cose invece di girarci intorno?

 

 

 

Darfur, Amnesty: Russia
e Cina violano embargo su armi

 

La denuncia: «Fornite armi per i miliziani janjaweed»
 

 

 

La guerra in Sudan - Sangue e Petrolio
 

Chissà perchè, in quasi tutto il mondo, se non ci sono interessi del genere

le etnie e religioni diverse convivono per centinaia di anni nello stesso

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il petrolio o i diamanti cominciano i problemi.