E L U A N A
UNA MARTIRE DEL 21° SECOLO
 
MA L'EUTANASIA SOCIALE, POICHÉ QUESTO RISCHIA
DI DIVENTARE, NON ERA MORTA CON IL NAZISMO?!
 
(a cura di Claudio Prandini)

 

 

Eluana, una martire del nostro tempo...
 
 
 
 
 
 "Se c'è chi la considera morta, lasci che Eluana rimanga con noi che la sentiamo viva... lasciateci la libertà di amare e donarci a chi è debole" (Le suore Misericordine che l'accudiscono).
 
 
 
 
 
INTRODUZIONE
 
NESSUNO TOCCHI ELUANA
 

Nel cuore del papà (e della mamma?) Eluana è morta da tempo. Lui la continui

ad immaginare così e l’affidi a chi l'ama e l’accetta per quello che è.

Abbia almeno il coraggio di abbandonarla senza ucciderla!

 
di Claudio Prandini
 
Ho chiesto ad una amica che cosa ne pensasse del caso di Eluana Englaro e lei mi ha risposto così: "Sono un po' altalenante perché penso sia giusto per lei e i suoi famigliari non soffrire più, ma anche che forse Dio le deve insegnare qualcosa che ancora non ha capito. Quindi non so cosa risponderti, non so se è giusto staccare o no la spina".
 
E questa è stata la mia risposta: 
 
1. Nessuno sa veramente se Eluana soffra o no. Però so che farla morire di sete e di fame è una cosa atroce, che la farà sicuramente soffrire. A questo riguardo è istruttivo sapere, poiché si dice che Eluana non soffrirà perché sedata, come è morta Terry Schiavo con una atroce agonia di ben 13 giorni.
 
A proposito di morte dignitosa, qualche tempo fa il mensile il Timone ha pubblicato il "protocollo di uscita" adottato dall'ospedale Florida Suncoast di Tampa per la paziente Terri Schiavo (tratto dal blog thrownback.blogspot.com di don Rob Johansen).
La sua lettura è un atto doveroso di fronte alla realtà, valutando l'aberrante decisione dei giudici italiani sul caso di Eluana Englaro.
Dalla cartella clinica si viene a sapere che, dopo la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione artificiali, a Terri sono state somministrate dosi di farmaci sempre maggiori, all'inevitabile peggiorare del quadro clinico.
Il programma era stato studiato fin nei minimi dettagli: al comparire dei primi dolori, il Naproxen, un antinfiammatorio, è stato somministrato per via rettale ogni otto ore.
Poi, la pelle, disidratata, ha iniziato ad ulcerarsi, cominciando dalle labbra.
È stato consultato anche uno specialista nel campo della rimarginazione delle ferite.
Nonostante le medicazioni alla paziente (sarebbe bastato nutrirla), la situazione si aggrava: la produzione della saliva si blocca e viene sostituita con un preparato che evita il peggioramento delle lacerazioni e l’emissione del caratteristico fiato acido.
I polmoni, che necessitano della saliva per mantenere umidificate le secrezioni interne, cominciano ad emettere un rantolo continuo, che si cerca di smorzare prima con la scopolamina, somministrata nelle orecchie ogni tre giorni, poi con un aerosol alla morfina, per spegnere il rantolo che potrebbe essere interpretato come un segnale di dolore.
Nel frattempo si blocca anche la produzione di urina.
Lo scompenso elettrolitico, dovuto alla disidratazione, provoca spasmi muscolari incontrollabili, che si cerca di sedare con 5-10 mg di Diazepam ogni quattro ore.
Infine vanno letteralmente in combustione le cellule neuronali del cervello.
Il Diazepam viene portato a 15 mg, senza poter evitare l'ictus che ha posto fine al calvario di questa povera anima, dopo
13 giorni di terribile agonia
. E' difficile credere alle buona fede dei sostenitori dell'eutanasia, alle loro giustificazioni in nome della pietà e del rispetto della dignità umana.
Fino ad oggi pietà, rispetto e amore sono state mostrate (umilmente e senza clamore) dalle suore misericordine per la giovane Eluana.
Ma domani?
Preghiamo per la sua anima e quella dei suoi genitori... (Origine)
 
2. Eluana non è un malato terminale, nel senso che su di lei non c'è alcun accanimento terapeutico. Basta darle da mangiare e bere ed essa vive di vita propria. Il mangiare e il bere non li si rifiuta nemmeno ad un cane, altrimenti ti becchi una denuncia dagli animalisti... e li vogliamo rifiutare ad un essere umano? La dignità umana di Eluana rimane pertanto intatta malgrado la sua condizione e nessuno può arrogarsi il diritto di dargli la morte, neppure il padre con tutta la sua sofferenza.
 
3. Il punto vero è però questo: la  vita di Eluana è degna di essere vissuta o no? Secondo la mentalità utilitaristica della nostra società non ne è degna perché la sua vita non serve a nulla, sempre secondo i nostri schemi, che ci vogliono tutti belli, aitanti e produttivi.
 
4. Il caso Eluana è più che altro un segno della nostra decadenza morale, che Dio ci manda affinché chi vuol capire capisca. Perché se si continua così chi potrà un domani fermare un ritorno alla vita di Sparta, dove i bambini non sani venivano gettati dalla rupe... E ben presto forse si potranno "gettare" anche anziani e handicappati!  Se Cristo è venuto lo ha fatto soprattutto per insegnarci la pietà come unica via di salvezza non solo eterna, ma anche come salvezza della civiltà umana. Se la "pietà" viene tolta da una società non resta che il castigo. Ed esso, purtroppo, sta arrivando a grandi passi! Il vero valore della vita non ci appartiene, cioè non è come con un'automobile di cui si può decidere se rottamarla o no.
 
5. Per ultimo si deve dire che se basta la luce della retta ragione naturale per non far morire di fame e di sete una persona, per il cristiano Eluana deve essere vista nel mistero di Cristo in Croce. E se lei è stata destinata in tale difficile condizione per la salvezza del mondo in Cristo... che cosa può opporre il nostro povero pensiero umano?
 

 

 

 

 

DEDICATO A ELUANA

 

 

 

 

 

"ELUANA È TUTTI NOI"

 

 

 

 

 

BREVE RASSEGNA STAMPA

 

 

1.

 

ELUANA: CENTRO BIOETICA UNIVERSITÀ CATTOLICA,

DOVERE DEMOCRAZIA DIFENDERE VITA

 

(ASCA) - Roma, 14 nov - ''Uno dei pilastri della democrazia non e' soltanto quello di garantire la pluralita' dei punti di vista sulla vita, ma di impedire che queste visioni personali entrino in conflitto con il diritto fondamentale alla vita''. E' quanto si legge in una nota del Centro di Bioetica dell'Universita' Cattolica, diretto da Adriano Pessina, in merito alla decisione della Cassazione su Eluana Englaro. ''Una societa' democratica - si ammonisce nel testo - e' tale nella misura in cui ha una concezione ampia della dignita' umana, in grado di riconoscere il valore di ciascun essere umano, in qualsiasi situazione si trovi. Nessuna forma di giustizia potra' evitare pratiche discriminanti se si accettera' il convincimento che esistono condizioni di salute che rendono la vita indegna''.

In questa prospettiva, ''non ha senso ricreare il solito modello di contrapposizioni ideologiche, destra/sinistra, laici/cattolici, piuttosto occorre domandarsi se oggi la conferma della democrazia e dell'uguaglianza tra gli uomini non passi proprio attraverso la tutela della vita di Eluana''.

La nota del Centro entra anche nel merito della sentenza della Cassazione, facendo notare che la sentenza ''contrasta con il punto F dell'articolo 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilita'''. Si tratta, per altro, di una convenzione che la Santa Sede non ha voluto firmare in disaccordo con i suoi contenuti.

Nell'articolo in questione, prosegue la nota del Centro, si afferma che ''il dovere da parte degli Stati di ''prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di prestazioni di cure e servizi sanitari o di cibo e liquidi in ragione della disabilita'''. In altre parole, ''il fatto che Eluana sia una persona con gravissima disabilita', come tutti coloro che sono in stato vegetativo, non puo' quindi essere addotto come motivo per sottrarla all'alimentazione e all'idratazione che le sono dovute''.

In secondo luogo, ''non e' condivisibile la tesi secondo cui la richiesta di sospendere alimentazione e idratazione non riguarderebbe 'l'interesse pubblico e generale', ma sarebbe soltanto l'espressione di un 'diritto personalissimo del soggetto, di spessore costituzionale come il diritto di autodeterminazione terapeutica in tutte le fasi della vita anche in quella terminale''. Questo perche', si spiega nella nota, ''non ci sono in atto trattamenti specificamente terapeutici'', ed inoltre ''la condizione di Eluana non e' quella di un malato in fase terminale, ma di una persona con gravissima disabilita'''. Infine, ''questa sentenza sembra confliggere con il principio costituzionale dell'indisponibilita' della vita, fondamento della nostra democrazia''.

 

 

2.
 

ELUANA: SCIENZA & VITA, APPELLO A COSCIENZE.

NON COOPERARE CON SUA MORTE

(ASCA) - Roma, 14 nov - ''Ci appelliamo alle coscienze di tutti quelli che nelle prossime ore e nei prossimi giorni si avvicineranno a Eluana Englaro, perche' non cooperino alla sua uccisione''. E' l'appello che l'associazione Scienza&Vita rivolge a tutti, ''al papa' Beppino come agli altri familiari, a tutti gli amici ma anche ai medici, ai rappresentanti delle istituzioni dello Stato e delle Regioni.

Un invito pressante rivolto a quanti possa essere richiesto di cooperare, a vario titolo, a porre fine all'esistenza terrena di Eluana. Una giovane donna da anni in stato vegetativo persistente, non dunque una malata terminale, che versa in un gravissimo stato di disabilita' che necessita solo di un'assistenza elementare nell'idratazione e nell'alimentazione''.

''Non e' ancora troppo tardi per fermarsi - ammonisce Scienza&Vita -. Non c'e' alcun obbligo di dare attuazione alla sentenza di condanna emanata dal giudice. E' ancora possibile rispondere al comandamento dell'amore che ama la vita, qualunque vita, anche la piu' fragile e tormentata. E assecondare quella voce che da secoli viene dal profondo della coscienza di ogni uomo e di ogni donna e che risuona come un comando: non uccidere''.

 

3.

 

Englaro - Movimento per la vita:

 Intervenga governo con decreto

 

Per vietare la sospensione di alimentazione e idratazione

 

Fonte web


Roma, 16 nov. (Apcom) - Il Movimento per la vita, a conclusione del XXVIII Convegno nazionale dei Centri di aiuto alla vita, fa appello al governo perché vari un decreto che vieti la sospensione di alimentazione e idratazione ai malati terminali e a quelli in stato vegetativo.

Il Movimento per la vita ha ribadito "la propria solidarietà e la propria vicinanza" alle suore Misericordine di Lecco che dopo aver assistito e curato con amore Eluana Englaro per tutti gli anni della sua malattia si trovano ora ad essere "le uniche, tra coloro che sono più vicini alla ragazza, a lottare per la sua vita".

"Sono le suore che in ultimo disperato appello hanno saputo trovare le parole più semplici ed accorate per opporsi alla voglia di eutanasia che sembra aver contagiato giudici ed istituzioni: 'Se c'è chi la considera morta, lasci che Eluana rimanga con noi che la sentiamo viva'", si legge in un comunicato. "Speriamo che questo appello faccia finalmente breccia nei cuori e nelle coscienze di chi dovrebbe vegliare su di lei e che invece sta pianificando il modo migliore per farla morire di fame e di sete".

Un appello è stato anche rivolto al Parlamento perché "discuta ed approvi in tempi rapidi una buona legge sul fine vita che possa evitare alle altre migliaia di persone nelle condizioni di Eluana di essere minacciate da un'eutanasia che nessuno ha neppure il coraggio di chiamare col proprio nome". Il Movimento per la vita ha rivolto infine un "estremo, disperato invito al governo perché facendo ricorso allo strumento della decretazione d'urgenza stabilisca, in attesa della legge, che i trattamenti di alimentazione ed idratazione dei malati terminali e dei malati in stato vegetativo persistente non possono per nessun motivo essere interrotti".
 

 

 

 

Daniela Gozzano è entrata in coma nell’agosto del 2005 dopo un’emorragia cerebrale. Suo marito, Luigi, ha fondato l’associazione amicididaniela.it per aiutare i malati come lei e i loro parenti. Daniela ha «chiesto» di farla finita quattro o cinque volte, ma poi ha cambiato idea.

 

 

 

 

 

Tutte le Eluana d'Italia
Duemila persone nello stesso stato della ragazza lombarda....

 

Fonte web

 

Duemila casi «Eluana» in Italia, secondo la Chiesa, preoccupata che la sentenza della Cassazione produca un effetto a cascata in tutto il Paese. Duemila storie che ci raccontano la sofferenza, la vita-non vita dello stato neurovegetativo, il dolore di chi ama quelle persone intrappolate nei corpi, da anni silenziose, immobili.

E il dibattito sulla sorte di Eluana entra in queste stanze, abbraccia i malati e i loro parenti, costringendoli a schierarsi, per chiedere il diritto di morire dolcemente, o che venga rispettato quel respiro che ancora li unisce alla vita e agli affetti. Un dibattito che attenua le divisioni tra cattolici e laici. «Il diritto a morire e far morire, le cure a ogni costo, si intrecciano ai dati che dicono anche (Istituto dei Tumori di Milano) che di 40mila malati terminali, solo 4 vogliono farla finita». Gloria Valenti è la madre di Simone, 18 anni, da tre in un letto per un arresto cardiaco, il suo scopo adesso è stargli accanto e mandare avanti l’associazione «Amicisimone» che si batte perché una famiglia possa essere messa nelle condizioni di tenere un malato in questo stato a casa. «Io non giudico», dice, «ma non farei mai la scelta del papà di Eluana. E lo dico da laica. Perché nel mondo laico, c’è un gruppo robusto, sostenuto, che la pensa come noi. La speranza? Non si perde anche se razionalmente non esiste».

Dialoghi con gli occhi


Bruno Tescari, dell’associazione Luca Coscioni, bloccato in una sedia rotelle, la pensa diversamente: «chi mi conosce sa che vorrei che mi venisse staccata la spina. Penso alla vita, ma anche alla qualità della vita». Anche Severino Mingroni, classe 1956, loocked-in (bloccato nel suo corpo ma cosciente) dal 1995 per una trombosi ha consegnato al testamento biologico il desiderio: «Come Eluana proprio non vorrei “vivere”, o, meglio, vegetare».

Dibattito faticoso, doloroso, in cui i percorsi personali si intrecciano a quelli scientifici. «Ma io vorrei dire a tanti medici di confrontarsi con le famiglie e non solo con politici, teologi, filosofi», dice Luigi Ferraro, marito di Daniela, da cinque anni bloccata nel suo corpo (sindrome di locked-in) e presidente dell’associazione «amicididaniela.it». «Penso a ieri sera a “Porta a Porta” dove si è cantato un inno alla morte e non alla vita». La storia di Daniela inizia cinque anni fa quando a 39 anni una emorragia cerebrale la fa entrare in coma. Cinque mesi dopo è Luigi che si accorge che in quel corpo immobile c’è vita. «Ho chiesto a mia moglie di aprire gli occhi quando sentiva una lettera dell’alfabeto per comporre una frase. E infatti mi ha detto: “perché ho sempre così tanto sonno?”. I dottori non volevano credermi e continuavano a dire che era in uno stato vegetativo persistente, che io ero un illuso. In questi anni quattro cinque volte mi ha chiesto di farla finita, ma poi ha cambiato idea. Per questo dico che certe cose dipende anche dal momento in cui si dicono. E oggi il dubbio più atroce è se in qualche ospedale ci sono locked-in scambiati per stati vegetativi persistenti».

A Budrio, in provincia di Bologna, Mario è in stato vegetativo da 12 anni in seguito a una gravissima malattia vascolare, ma la moglie che lo assiste non intende «staccare la spina». A Tricarico, in provincia di Lecce, Emanuela Lia, è nella stessa condizione di Eluana da 16 anni e anche lei come la Englaro, prima dell’incidente automobilistico, aveva detto ai suoi di non voler essere tenuta in vita artificialmente se le fosse accaduto qualcosa. Adesso però il padre Cesare non vuole interrompere i trattamenti e le sta accanto giorno e notte come «testimonianza d’amore». A Treviso, invece, Maria Ravasin vorrebbe che suo figlio Paolo, da 10 anni malato di Sla, potesse «porre fine al suo calvario». Sara D. è siciliana, ha 25 anni, è in stato vegetativo da due anni e mezzo; suo padre si batte da allora perché in Sicilia ci siano condizioni di assistenza migliori, ed è solidale con il padre di Eluana: «Mia figlia ed Eluana sono doppiamente sfortunate perché oltre ad avere le loro giovani vite spezzate, non hanno potuto rifiutare l’uso della “tecnologia avanzata” delle sale di rianimazione per chiedere di morire secondo natura».

Di anni di coma Cristina Magrini, bolognese di Porretta, ne ha già fatti 18 a causa di un incidente. Durante questi anni di lungo «sonno» sua madre è morta e il padre che la assiste non ha intenzione di porre fine alla sua vita artificiale ed è preoccupato di quando lui non ci sarà più. Per questo ha creato un gruppo di volontari che possano garantirle assistenza. Niente accanimento terapeutico, e volontà di staccare la spina, nei casi di Davide, colpito a Brescia da un virus letale e di Roberto di Sarzana, vicino La Spezia, bloccato da un micidiale infortunio. Da 12 anni è in stato vegetativo a Forlì, Giovanna, però a sua madre Letizia danno speranza gli impercettibili segni di miglioramento, come quando oltre al tubicino per gli alimenti nello stomaco, riesce a darle il gelato per bocca. Istanti di gioia che vincono la disperazione e aiutano ad andare avanti.

 

 

 

 

Eluana Englaro come Terri Sciavo?

Così si muore per disidratazione...

 

 

 

 

Appello per Eluana Englaro dalla famiglia Crisafulli

 

 

 

 

In Coma per 2 anni: "Sentivo Tutto e Piangevo"
 

 

 

 

 

L’eutanasia nella storia

 Fonte web

Premettiamo che una ricognizione storica significativa dovrebbe allargarsi soprattutto all’evoluzione dell’idea della morte e del morire, soprattutto sul piano esistenziale, sia in rapporto all’esistenza che la persona ha vissuto, sia in rapporto alle aspettative di una vita ultraterrena. Nel mondo greco, per esempio, erano presenti diverse concezioni della vita ultraterrena, ma l’espressione “buona morte” veniva utilizzata prevalentemente in riferimento alle modalità con cui si concludeva l’esperienza di una vita: per un guerriero la buona morte è l’eroica morte in battaglia (si pensi ad Ettore), per un artigiano o un mercante potrebbe essere la morte serena, circondati dall’affetto dei propri cari. Nella cultura cristiana il concetto di “buona morte” è assorbito in quello di “morte santa” e si riferisce alle modalità con cui ciascuno ha vissuto il proprio rapporto con Dio nella vita terrena e si appresta (nel momento supremo) a viverlo nella vita eterna: tanto è vero che la festa di coloro che sono stati proclamati santi si celebra nel giorno della loro morte (quando questo è noto), in quanto “dies natalis” della vita eterna. Anche in una cultura “laica” si può parlare di “buona morte”, sul piano esistenziale, soprattutto in riferimento agli obiettivi che ci si era prefissi nella propria vita, all’eredità di affetti e di idee che si lascia alle generazioni che verranno, al modo in cui ciascuno potrà sopravvivere nel ricordo dei propri simili. La disamina di tali problematiche può essere utile complemento di un percorso didattico articolato, ma ci porterebbe - in questa sede - troppo lontano.

Assumendo il termine eutanasia nel suo significato più ristretto, potremmo tentare di farne una sorta di “storia” attraverso i secoli, individuando alcuni comportamenti che presentano significative affinità con la pratica eutanasica odierna.

 

Nel mondo antico era già presente quella che potremmo chiamare eutanasia sociale, nel senso che la società sopprimeva o abbandonava alla propria sorte persone che potessero risultare un peso per essa. Tale pratica è attestata a Sparta, nel mondo romano, ma anche in culture più arcaiche (come ad esempio tra le popolazioni cannibali dell’isola di Sumatra) e si può agevolmente supporre che i popoli primitivi uccidessero o abbandonassero alla propria sorte tutti coloro che - in condizioni di vita durissime - non apparivano in grado di resistere nella lotta per la sopravvivenza.

Ritornando al mondo greco possiamo ricordare un testo di Platone che, nel porre a confronto le arti mediche con quelle giuridiche, scrive:

Allora, insieme con tale arte giudiziaria, codificherai tu nel nostro stato anche la medicina nella forma da noi detta? Così, tra i tuoi cittadini, esse cureranno quelli che siano naturalmente sani di corpo e d’anima. Quanto a quelli che non lo siano, i medici lasceranno morire chi è fisicamente malato, i giudici faranno uccidere chi ha l’anima naturalmente cattiva e inguaribile[1].

D’altro canto il medesimo autore si esprime in termini chiari contro il suicidio, anche se sembra ammettere qualche eccezione; citiamo tra i diversi testi significativi quello in cui Platone dichiara, di colui che si toglie la vita:

privandosi violentemente della sorte assegnatagli dal destino, e che, senza che lo stato abbia ordinato per punizione la sua morte, né che sia costretto da qualche acerba e inevitabile sciagura capitatagli, né che sia colpito da qualche ignominia irreparabile e tale da rendere insopportabile la vita, ma per dappocaggine e per ignavia, prodotta da debolezza di spirito, infligge a se stesso una pena ingiusta. (…) le tombe di coloro, che si sono distrutti in tal modo, siano, in primo luogo, a solo e non in comune con gli altri, in secondo luogo siano essi sepolti senza onori alle estremità delle dodici parti del paese, in luoghi incolti e senza nome; né vi siano cippi o iscrizioni a indicare le loro tombe[2].

Aristotele, nell’etica nicomachea, presenta il suicida come persona che commette un’ingiustizia nei confronti della città[3] ed affronta specificamente anche il caso dei malati o in genere di chi è sottoposto a situazioni di particolare disagio, citandoli come esempio mentre parla della virtù del coraggio:

Invece il morire per fuggire la povertà o la passione amorosa o qualcosa di doloroso non è di un uomo coraggioso, ma piuttosto di un vile: è infatti debolezza lo sfuggire ai travagli e chi s’uccide agisce non per affrontare una prova decorosa, bensì per fuggire un male[4].

Quanto al ruolo del medico in eventuali casi di “suicidio assistito” possiamo dire che da un lato la prassi comune non escludeva questo tipo di azione, ma dall’altro lato il Giuramento di Ippocrate la esclude in modo categorico: “Non darò a nessuno farmaci mortali, neppure se richiesto, né mai suggerirò di prenderne”.

Sul suicidio in generale vi sono diverse posizioni, da quella degli stoici che lo additano come via d’uscita non tanto rispetto ai mali della vita (questo sarebbe una viltà), ma alla prospettiva di essere costretti a venir meno ai propri doveri di uomini virtuosi, a Cicerone che, nel "Somnium Scipionis" (III, 7) così scrive: "Tu, o Publio, e tutte le persone rette, dovete conservare la vostra vita e non dovete allontanarvi da essa senza il comando di colui che ve l’ha data, affinché non sembriate sottrarvi all’ufficio umano che Dio vi ha stabilito".

 

In età medievale la riflessione sulle virtù etiche del medico si evolve nella linea segnata da Ippocrate e Galeno ed arricchendosi delle suggestioni che provengono dalla cultura ebraico-cristiana. Anche il tema del suicidio viene affrontato in tale ottica e, fin dai Padri della Chiesa, sono numerose le prese di posizione di quanti ne sottolineano l’assoluta inconciliabilità con la morale cristiana: l’uomo non è padrone della propria vita e non ne può disporre da arbitro assoluto. Tommaso d’Aquino esprime in modo lapidario le tre motivazioni per cui il suicidio è un atto moralmente illecito, sia nell’ottica della legge morale naturale, sia in quella della legge divina positiva:

Il suicidio è assolutamente illecito per tre motivi. Primo, perché per natura ogni essere ama se stesso; e ciò implica la tendenza innata a conservare se stessi e a resistere per quanto è possibile a quanto potrebbe distruggerci. (…) Secondo, perché la parte è essenzialmente qualche cosa del tutto; ora, ciascun uomo è parte della società; e quindi è essenzialmente della collettività. Perciò uccidendosi fa un torto alla società, come insegna il Filosofo. Terzo, la vita è un dono divino, che rimane in potere di colui il quale “fa vivere e fa morire”. Perciò chi priva se stesso della vita pecca contro Dio (…). Infatti a Dio soltanto appartiene il giudizio di vita e di morte, secondo le parole della Scrittura: “Sono io a far morire e a far vivere”[5].

L’età moderna si presenta con diversi volti e non è possibile ricondurla univocamente ad un unico filone di pensiero. Da un lato prosegue la linea di pensiero che vede nel suicidio un atto immorale e contrario al bene comune della società, dall’altro lato vi sono alcuni pensatori che sviluppano posizioni differenti, come ad esempio David Hume[6]. Posizione nettamente contraria al suicidio è espressa da Immanuel Kant, sulla base di argomentazioni “laiche”[7] che si fondano sulla necessità di rispettare quell’ordine morale su cui si fondano tutti i doveri dell’uomo.

Sul versante che più ci interessa, dell’eutanasia in senso stretto, compare anche il termine in modo esplicito ed il suo uso sembra certo che risalga ad uno scritto di Francesco Bacone del 1605:

Dirò inoltre, insistendo su questo argomento, che il compito del medico non è solo quello di ristabilire la salute, ma anche quello di calmare i dolori e le sofferenze legate alle malattie; e questo non solo perché questo alleviamento del dolore, considerato un sintomo pericoloso, contribuisce alla guarigione e conduce alla convalescenza, ma inoltre per poter procurare al malato, quando non c’è più speranza, una morte dolce e tranquilla; questa eutanasia è una parte non trascurabile della felicità (…). Ma nel nostro tempo sembra che i medici ritengano loro dovere abbandonare i malati al momento della fine; contrariamente alla mia opinione, se essi fossero zelanti nell’adempiere il proprio dovere e di conseguenza rispettassero i propri doveri nonché le esigenze della propria professione, non risparmierebbero nessuna cura per aiutare gli agonizzanti ad uscire da questo mondo con maggior dolcezza e facilità. Ora, questa ricerca la qualifichiamo ricerca sull’eutanasia esteriore, che distinguiamo da quell’altra eutanasia che si riferisce alla preparazione dell’anima e che poniamo fra le nostre raccomandazioni.[8]

Va osservato come anche in questo testo, pur tenendo conto dell’evoluzione del dibattito sul suicidio a cui abbiamo sommariamente accennato, il termine “eutanasia” viene utilizzato in riferimento ad un’idea di “buona morte” che nulla ha a che vedere con le odierne proposte di legalizzazione della medesima, ma si collega ancora all’idea di un accompagnamento del morente nel momento supremo della sua esistenza.  

 

In età contemporanea, soprattutto nel XX secolo, cresce in genere la domanda eutanasica e l’eutanasia sociale viene praticata in modo più massiccio. Nel 1906 il parlamento dell’Ohio presentò il testo di una legge sull’eutanasia su richiesta (che fu respinto dal Consiglio Superiore), analoga proposta fu presentata nel 1936 a Londra da “Vesper” (Società per l’eutanasia volontaria, nata nel 1935 ad opera di Lord Moynihan e del Dr Killick Millard), ma il progetto fu respinto dalla Camera dei Lords. Nel 1938 nasce la Società Americana per l’eutanasia volontaria, a New York, ad opera del rev.do Charles Potter.

Alla domanda sociale di eutanasia, portata avanti da alcuni gruppi di pressione, fa riscontro un riemergere di quella che possiamo chiamare eutanasia sociale, già presente nel mondo antico e che assume in età contemporanea forme nuove, anche sul piano giuridico.

Per affrontare tale tema, possiamo sviluppare in modo più analitico l’esempio paradigmatico della Germania[9], anche prima dell’avvento del regime nazista. Già durante la Grande Guerra si assiste - come in molti altri Paesi - ad un’impennata delle morti dei malati cronici presenti negli ospedali, anche a motivo della scarsità di cibo che rendeva oneroso nutrire tante “bocche inutili”. Nel 1920 viene pubblicato un libro, di Alfred Hoche e Karl Binding, dal titolo L'autorizzazione all'eliminazione delle vite non più degne di essere vissute, che - secondo gli autori - sono in se stesse luogo di sofferenza e provocano sofferenza ai parenti e danno economico allo stato che, quale arbitro della distribuzione delle ricchezze, avrebbe dovuto autorizzarne l’uccisione. La motivazione economica, portata all’interno del dibattito tra gli scienziati, non fu certamente sufficiente a motivare un’azione effettiva e sistematica, che invece venne con il progetto eugenetico nazista che collegava la necessità di eutanasia sociale nei confronti di alcune categorie di persone con quella di preservare la purezza della razza ariana. Il primo passo verso l'attuazione del piano eugenetico si ebbe nel 1933 con l'emanazione della "Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie". La legge venne discussa il 14 luglio.

Poiché il 20 luglio si sarebbe dovuto firmare il Concordato tra Chiesa Cattolica e Stato Nazista si ritenne politicamente più opportuno promulgarla ufficialmente il 25 luglio successivo. L'8 ottobre 1935 venne emanata una seconda legge per "La salvaguardia della salute ereditaria del popolo tedesco". Con essa si autorizzava l'aborto nel caso in cui uno dei genitori fosse affetto da malattie ereditarie. Parallelamente venne varata un’intensa campagna di propaganda mirante a convincere il popolo tedesco dell’opportunità sociale e dell’intrinseca bontà delle pratiche eugenetiche (sterilizzazione ed eutanasia), venne anche creata la "Commissione del Reich per la salute del popolo" che si dedicò all'organizzazione della propaganda nelle scuole, negli uffici pubblici e nel Partito Nazista. La Direzione Sanitaria del Reich creò in tutta la Germania circa 500 "Centri di consulenza per la protezione del patrimonio genetico e della razza". I medici che li dirigevano furono incaricati di raccogliere tutti i dati necessari per stimare quale parte della popolazione dovesse essere sterilizzata e controllare le nascite di bambini deformi o psichicamente disabili. Si giunge così alla preparazione prossima dei provvedimenti direttamente eutanasici nei confronti di quei bambini che il “monitoraggio” aveva individuato. A dare inizio al processo di eutanasia fu un ordine scritto di Adolf Hitler retro-datato  al 1° settembre 1939 (in realtà emanato in ottobre) su carta intestata della Cancelleria. Il testo recitava:

"Il Reichsleiter Bouhler e il dottor Brandt sono incaricati, sotto la propria responsabilità, di estendere le competenze di alcuni medici da loro nominati, autorizzandoli a concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l'umano giudizio, previa valutazione critica del loro stato di malattia"[10].

In tal modo la pratica di eliminazione fisica dei malati gravi e dei minorati psichici trovava la sua “copertura giuridica”, pur essendo già iniziata in modo strisciante da alcuni mesi, nei centri sopra citati. Venne subito creato un centro di coordinamento dell’intera operazione che trovò la sua sede in un villino espropriato ad un ebreo, a Berlino in Tiergartenstrasse n. 4 (di qui il nome in codice dell’intera operazione: “Aktion T 4”). La procedura può essere riassunta in alcuni passaggi essenziali:

invio, a tutti i responsabili di ospedali psichiatrici, di generici questionari, apparentemente miranti a censire la capacità lavorativa dei soggetti inabili,

sulla base dell’analisi di tali questionari (senza visitare il malato) una commissione di esperti decideva quali dovessero essere soppressi,

tali persone venivano poi prelevate dagli ospedali, trasportate (con pullman dai finestrini oscurati) nei centri di eliminazione (di cui non si comunicava la destinazione e scelti in genere lontani dal luogo di cura, per depistare i parenti delle vittime), dove erano state predisposte delle camere a gas mascherate da docce e si procedeva all’uccisione,

ai parenti veniva inviata una lettera standard che annunciava la morte per una causa qualsiasi. Si avvertiva che per ragioni sanitarie il cadavere era stato cremato e si avvertiva che l'urna con le ceneri era a disposizione.

Tra il 1940 e il 1941 furono eliminati in questo modo più di 70.000 malati psichici nei cinque centri di eliminazione, prima che Hitler - a motivo del montare delle proteste dopo che la cosa iniziò ad emergere alla luce del sole - non la sospese nel 1941. In realtà l’azione non fu realmente sospesa, ma semplicemente trasformata in altra azione (Aktion 14F13) condotta direttamente dalle SS (da Himmler) in collegamento con le azioni che si svolgevano nei campi di concentramento che nel frattempo erano stati istituiti ed in cui - assieme alle persone afflitte da varie forme di malattia - vennero soppresse anche persone divenute nel frattempo inabili al lavoro o persone sane di cui si decise la soppressione. Si può osservare come l’operazione T4 abbia avuto anche il ruolo di fornire una “palestra” in cui sperimentare metodiche di uccisione di massa di persone adulte che vennero immediatamente impiegate per realizzare la “soluzione finale”, senza soluzione di continuità: il personale che era stato impiegato nell’azione T4 venne in genere trasferito dai centri di soppressione dei malati psichici ai campi di sterminio.

Nell’immediato secondo dopoguerra, essendo venuti alla luce - grazie al processo di Norimberga - i fatti di cui si è detto sopra, si è assistito ad un periodo di relativa cautela nel portare avanti le istanze eutanasiche, anche perché il collegamento con le stragi naziste risultava molto immediato. Il dibattito sull’eutanasia volontaria, in ogni caso, non si interrompe ma prosegue con tanto maggiore intensità quanto più i progressi della medicina consentono la sopravvivenza (talora in condizioni fisiche piuttosto precarie) di persone che in altre epoche non sarebbero riuscite a sopravvivere. Soprattutto negli anni 1955-1960 si sviluppano tecniche di rianimazione tali da mettere in discussione anche le precedenti metodiche per l’accertamento della morte, così come si pone il problema dello status dei pazienti in “stato vegetativo persistente”[11]. Di fronte a tali nuove sfide riprende slancio l’attività dei movimenti pro-eutanasia[12], che si sono fatti promotori di iniziative miranti sia a far accettare tale pratica a livello di costume, sia - soprattutto - a legalizzarla. Segnaliamo alcuni punti di riferimento che possono essere utili:

1967 Luis Kutner conia l’espressione “Living will” per designare il rifiuto di alcune forme di terapie, da allora inizia una forte campagna di diffusione di questi “testamenti biologici” (così viene abitualmente tradotta l’espressione in lingua italiana) che in molti casi si configurano come vere e proprie richieste di “eutanasia passiva”;

1973, nascono in Oldanda società per l’eutanasia volontaria,

1976, analoghe società vengono costituite in Germania e Giappone; si tiene - a Tokyo - il primo incontro internazionale delle società per l’eutanasia volontaria,

1980 nasce la World Federation of Right-to-Die Societies, costituta ad Oxford (Inghilterra) a partire da 27 gruppi appartenenti a 18 nazioni;

1980 (5 maggio) viene resa pubblica la “Dichiarazione sull’eutanasia” della Sacra Congregazione per la dottrina della fede (Chiesa Cattolica) che esprime una netta condanna di tale pratica.

1983, viene resa pubblica la “Dichiarazione sulla fase finale della malattia” dell’Associazione Medica Mondiale, che ancora ribadisce la necessità di curare le persone sofferenti senza sopprimerle.

1984 la Suprema corte olandese approva la pratica dell’eutanasia, a determinate condizioni;

1991 il Congresso degli Stati Uniti approva il "Patient Self-Determination Act", che impone agli ospedali il rispetto dei “living wills”; l’anno successivo è l’Associazione Medica britannica a dichiarare il proprio supporto ai living wills;

1996 il governo del Territorio dell’Australia del Nord approva la prima legge che consente l’eutanasia attiva volontaria, che viene però soppressa nel 1997 dal Parlamento Federale australiano;

1998 in Cina il governo ha autorizzato la soppressione dei malati terminali,

2001, viene approvata (il 10 aprile) la legge che legalizza l’eutanasia in Olanda,

2002 (23 settembre), entra in vigore la legge che legalizza l’eutanasia in Belgio.

La situazione attuale è quindi piuttosto dinamica, con un dibattito teorico sull’eutanasia che appassiona gli esperti di bioetica e rimbalza sovente sui mass-media, ma anche con azioni di tipo politico e culturale che pongono principi o modificano la situazione dal punto di vista legislativo. Si fa particolarmente urgente la necessità di tenere vigile il proprio spirito critico.

 

Prof. Andrea Porcarelli – Docente di Pedagogia generale e sociale all'Università di Padova, Presidente del Centro di Iniziativa Culturale (Bologna), Direttore scientifico del Portale di Bioetica


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[1] Platone, Repubblica, 409e - 410a.

[2] Platone, Leggi, IX, 873 c-d.

[3] Cfr. Libro V, 1138 a.

[4] Aristotele, Etica nicomachea, III, 116 a.

[5] Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, II-II, qu. 64, art. 5, c.

[6] In un saggio Sul suicidio, pubblicato postumo nel 1777, offre una sua libera interpretazione del concetto di Provvidenza, obiettando alle argomentazioni teologiche di condanna del suicidio con l’argomento (del tutto lontano dalla prospettiva cristiana) per cui se la Provvidenza governa molte cause, tra di esse potrebbe esserci anche l’atto di un suicida.

[7] Cfr. Metafisica dei costumi, tr. it. Laterza, Roma-Bari 1991, III ed., p. 279.

[8] Cit. da Patrick Verspieren, Eutanasia? Dall’accanimento terapeutico all’accompagnamento dei morenti, Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1985, pp. 137-138.

[9] Cfr. il percorso didattico che si trova all’URL http://www.olokaustos.org/argomenti/eutanasia/eutanasia1.htm, nel sito dell’associazione “Olokaustos”, interamente dedicato a ricerche, banche dati e percorsi didattici sul tema evocato dal nome stesso dell’associazione.

[10] Cit. in: http://www.olokaustos.org/argomenti/eutanasia/eutanasia5.htm, dove si trova anche copia fotografica del documento originale in tedesco.

[11] Già l’uso di questa terminologia sottintende un implicito giudizio di valore - di segno negativo - sulla dignità della persona che si trova in tale condizione e di cui talora si dice, non senza una buona dose di brutalità, che si trova a vivere “come un vegetale”, quasi per giustificare l’invocazione della “uccisione pietosa”.

[12] Cfr. http://www.euthanasia.org, sito internazionale dell’associazione “Exit”, che rappresenta il nome assunto nel 2000 dalla VESS (Società per l’eutanasia volontaria della Scozia), da cui desumiamo anche alcuni dati circa le tappe storiche del dibattito. Cfr. anche http://www.finalexit.org (sito dell’organizzazione ERGO, americana).

 

 

APPROFONDIMENTO

 

 ECCO COME SI MUORE DI FAME DI SETE

 Un rapporto medico Usa mostra le sofferenze
 atroci di un malato privato di cibo e acqua

In occasione del dibattito su Terri Schiavo, un medico esperto di denutrizione raccontò come la morte per sete di bambini africani lo avesse messo innanzi a situazioni cliniche al limite del sopportabile 

DI VIVIANA DALOISO (da Avvenire 16/11/08)

«Togliere a una persona il sondino che la nutre è assolutamente innocuo. È un buon modo di morire. Probabilmente il modo migliore di morire, dopo l’aneurisma». Nel 2003 Michael Schiavo, il marito di Terri Schindler, rilasciò questa dichiarazione durante il noto talk show americano di Larry King, sostenendo che la moglie dovesse essere 'liberata' al più presto dallo stato vegetativo. Insomma, chiedendo che le fossero tolti cibo e acqua, come si è deciso per Eluana. Questa frase sembra essere rimbalzata nel tempo, e nello spazio, per arrivare oggi sulle pagine di quasi tutti i giornali nostrani, nei dibattiti televisivi e radiofonici, nei blog: morire di fame e di sete? Non fa male. È innocuo. E poi Eluana non se ne accorgerà nemmeno, «non è cosciente».

Nel 1986, anni prima che la vicenda Schiavo e quella Englaro portassero le condizioni dei pazienti in stato vegetativo alla ribalta della cronaca, negli Stati Uniti – e precisamente in Massachusetts – un pompiere di nome Paul Brophy fu 'condannato' a morire di fame e di sete dai giudici, in seguito alle richieste insistenti dei suoi familiari. Aveva 45 anni, ed era in stato vegetativo da tre. Moglie e figli sostennero che più volte, verbalmente, l’uomo avesse dichiarato di preferire la morte a una vita simile. Il caso fece molto scalpore oltreoceano per due motivi: era la prima volta che un paziente americano moriva in seguito alla decisione di un tribunale di interrompere alimentazione e idratazione artificiali; durante l’iter processuale un giudice della Corte Suprema del Massachusetts, Neil Lynch, dichiarandosi contrario alla decisione della maggioranza dei suoi colleghi presentò una relazione – stilata da un gruppo di medici esperti – sulle conseguenze concrete della rimozione del sondino naso-gastrico.

Il documento in questione descrive minuziosamente la morte per fame e per sete, con particolari anche molto crudi. E, si badi bene, non dice niente di originale o diverso rispetto a quello che si può trovare scritto in ogni manuale di medicina, alla voce 'disidratazione', per esempio. Cioè, che morire di sete – perché nel caso della rimozione di un sondino naso-gastrico il paziente muore principalmente proprio a causa della disidratazione – è atroce. A partire dalla durata dell’agonia: da cinque giorni per i soggetti più fragili fisicamente (anziani e bambini) al massimo di tre settimane. Un lasso di tempo interminabile, in cui il corpo si consuma lentamente a causa della secchezza dei tessuti, alla disidratazione delle pareti dello stomaco (che provoca spasmi) e delle vie respiratorie. In cui la pelle si ritira, gli occhi si incavano, la temperatura corporea aumenta inesorabilmente in seguito alla mancanza di sudorazione. E in cui le mucose si inaridiscono, il naso sanguina, le labbra e la lingua si spaccano, proprio come hanno dimostrato di sapere i giudici della Corte d’Appello di Milano, che nella sentenza che lo scorso luglio ha sancito il distacco del sondino di Eluana si sono 'raccomandati' che quelle mucose venissero bagnate, per evitare che la giovane donna soffra. O mostri la sua sofferenza. 

La lista degli 'orrori' del giudice Lynch fece il giro d’America, sollevando non pochi dubbi sulla liceità della sentenza, che fino a quel momento era stata presentata all’opinione pubblica come un atto di 'liberazione' del tutto innocuo. Lo stesso ospedale dove il pompiere era ricoverato, il New England Sinai Hospital, si oppose a che una simile morte potesse avvenire all’interno della propria struttura, per giunta coadiuvata dal personale sanitario. Il documento di Lynch fu poi inutilmente impugnato dai familiari di Terri Schiavo: di più, nel caso della giovane donna fu anche raccolta la testimonianza di un medico, David Stevens, specializzato nel campo della disidratazione nell’infanzia e che aveva maturato un’esperienza di quindici anni in Africa, accanto ai bambini denutriti. Il medico raccontò come la morte per sete lo avesse messo innanzi a situazioni cliniche al limite del sopportabile. L’unica differenza tra i suoi pazienti e quelli in stato vegetativo, come Brophy, Terri Schiavo ed Eluana: lo stato di coscienza. Per cui i piccoli potevano lamentarsi, comunicare a voce la propria sofferenza fisica. Non piangere, però, in quanto la disidratazione porta via anche le lacrime. Nel 1986 Paul Brophy, in quelle condizioni disumane, rimase in vita otto giorni. A Terri Schiavo andò peggio: tredici interminabili giorni di denutrizione la ridussero in uno stato fisico indicibilmente penoso, al punto che alla stessa madre – in seguito a un malore – fu impedito di vederla nelle ultime ore. Eluana Englaro, come loro, non è attaccata a una 'spina', non è tenuta in vita da macchinari o con medicinali. Apre e chiude gli occhi, di notte dorme, la mattina si risveglia, il suo corpo ha lottato per la vita 16 anni, ha avuto persino la forza di superare, recentemente, una grave emorragia. Ma certo, Eluana non parla. Non interagisce con gli altri. E non piange. Quanto tempo durerà la sua silenziosa agonia?

La relazione fu ordinata dal giudice Lynch nello stato americano del Massachusetts più di vent’anni fa per il caso del pompiere Paul Brophy Nel testo si spiega la durata dell’agonia (da 5 a 29 giorni) e le conseguenze per pelle, occhi, lingua, mucose, temperatura corporea. Un quadro atroce.

 

UN CASO DI ACCANIMENTO TERAPEUTICO

Hannah Jones è una ragazzina di 13 anni, affetta dall'età di cinque da una forma rara e gravissima di leucemia. Otto anni della sua breve vita li ha passati facendo su e giù con l'ospedale di Hereford. Le cure intensive e intrusive cui ha dovuto sottoporsi per sopravvivere le hanno spaccato il cuore. I medici hanno allora deciso di sottoporla a un trapianto. Ma Hannah ha detto no.

 

I medici e il nuovo mito

dell’autodeterminazione

 

Ma quanto, dell’antico giuramento del medico, può sopravvivere in uno scenario nel quale il diritto di disporre della propria vita diventa l’altra faccia del diritto (addirittura dell’obbligo) della categoria medica di procurare la morte dei propri pazienti? Investire la classe medica del potere di praticare l’eutanasia (di questo si tratta) non finisce per influire in modo irreversibile su tutti i malati e tutti i medici? E non significa minare il vincolo di solidarietà sociale, la protezione delle persone rese fragili dalla malattia, l’integrità stessa della professione medica? Il professor Francesco D’Agostino, presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica, dice che “mettere al centro di tutto l’elemento dell’autodeterminazione ci fa entrare in una logica per cui la medicina diventa mera attività tecnica al servizio della volontà del paziente-cliente. Il quale chiede una prestazione tecnica a un medico esonerato da qualsiasi valutazione etica e deontologica della richiesta che gli viene fatta. Spero proprio che i medici, a questo, si ribellino – dice D’Agostino – perché non siamo alla liberale accettazione dell’autodeterminazione nella scelta di uno stile di vita. Nel caso della medicina si tratta di alterare il bene salute, che è di rilevanza pubblica”.
 

 

 

Il caso Englaro

Condanna a morte per Eluana

Dopo la decisione della Corte di Cassazione, che ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura di Milano contro la sentenza che ha disposto l'interruzione di alimentazione e idratazione artificiali per Eluana, l'Italia si mobilita. Dal Nord e al Sud si moltiplicano le iniziative di preghiera, dalle sezioni locali di Scienza & Vita decine di progetti per dire  no alla «condanna» e i Centri di aiuto alla vita propongono un appello a Napolitano, perché «conceda la grazia». Intanto si attende la decisione del padre sulla struttura in cui trasferire Eluana.

 

Lo psichiatra Meluzzi: “Eluana

è metafora del Crocifisso”

 

La vicenda di Eluana ha a che fare con il mistero della nascita e della morte che per i cristiani riflette la passione e la morte in croce di Gesù. E’ quanto ha detto Alessandro Meluzzi, psichiatra, psicologo e scrittore, intervenendo sabato 15 novembre al XXVIII Convegno nazionale dei Centro di Aiuto alla Vita (CAV) in corso a Montecatini (Pt). “La vita di ognuno di noi non è solo autodeterminata, la vita è in sé relazione - ha affermato Merluzzi -. Siamo vivi per la relazione con gli altri e per il rapporto di amore con Dio”. Secondo il noto psichiatra, diacono melchita, “nessun uomo è un’isola”, e la vita “irrompe come mistero e avvenimento, per questo alla tentazione del dominio del possesso bisogna preferire il tempo dell’attesa di un dono e di un bene”.