EVOLUZIONISMO:
LA GRANDE TRUFFA SPACCIATA PER
VERITÀ ANCHE TRA I CRISTIANI
(a cura di Claudio Prandini)
INTRODUZIONE
IL TRAMONTO DEL DARWINISMO
Fosse una ipotesi scientifica come le altre, l’evoluzionismo sarebbe finito già da tempo, se non nell’obitorio della scienza, quantomeno nel reparto dei malati gravi, viste le tante discordanze che le conseguenze di questa teoria hanno con l’osservazione empirica. Ma l’evoluzionismo non è più una teoria qualunque, da sottoporre a rischio di falsificazione, come richiesto dall’epistemologo Karl Popper per distinguere ciò che è scienza da ciò che non lo è. Esso è un dogma al quale si può aderire solo mediante atto di fede. Una metafisica, insomma. Proprio come quel “creazionismo” che degli evoluzionisti è il grande nemico. Con la differenza che chi difende l’ipotesi della creazione di solito lo fa con la Bibbia in mano, e non pretende di parlare in nome della scienza.
La stessa comunità scientifica è tutt’altro che concorde con le ipotesi sviluppate da Charles Darwin nell’Origine delle specie. La novità è che molti di questi scienziati adesso iniziano a rendere pubbliche le loro critiche. Un libro importante uscirà nei prossimi giorni per le Edizioni Cantagalli. Si intitola (e il titolo già dice tutto) Evoluzionismo: il tramonto di una ipotesi, ed è stato curato da Roberto de Mattei, Vice Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Il volume, che “Libero” ha potuto leggere in anteprima, raccoglie gli interventi tenuti in un convegno a porte chiuse che si è svolto a Roma lo scorso febbraio nella sede del Cnr. Un’occasione che ha visto a confronto biologi, paleontologi, fisici, genetisti, chimici, biologi e filosofi della scienza di livello internazionale.
La tesi illustrata 150 anni fa da Darwin e portata avanti dai suoi epigoni è riassumibile in tre assiomi. Primo: «Tutti gli esseri organici che hanno vissuto su questa terra sono derivati da una singola forma primordiale, nella quale la vita è stata per la prima volta infusa» (come scritto dallo stesso Darwin nell’Origine delle specie). Secondo: la selezione naturale è stata «il più importante, anche se non esclusivo, strumento di modificazione» attraverso il quale le forme di vita più complesse si sono evolute da quelle più semplici. Terzo, non esiste alcun “progetto”: le mutazioni sono casuali e alcune rendono certi individui più adatti alla sopravvivenza; trasmettendole ai loro eredi, rendono possibile l’evoluzione.
Un corpus teorico che, secondo i documenti che il Cnr sta per rendere pubblici, fa acqua da tutte le parti. Il fisico tedesco Thomas Seiler mette il darwinismo alla prova della seconda legge della termodinamica, secondo la quale l’entropia, che può essere definita come il caos in natura, non può mai diminuire. E «l’ipotetico emergere della vita da processi materiali indiretti, come suggerito dalla teoria evoluzionistica, non è conforme» a questa legge. Ma anche «la successione di piccole variazioni genetiche che portano alla costruzione di un organo completamente nuovo tramite selezione naturale», prevista dal darwinismo, «è una processo da escludere di entropia decrescente». Non a caso, nota Seiler, malgrado siano stati descritti più di 1,3 milioni di tipi di animali, «nessun organismo mostra segni di essere in evoluzione verso una complessità maggiore. Come previsto, l’entropia biologica non sta diminuendo». Insomma, la fisica stessa si ribella all’ipotesi darwiniana.
L’evoluzionismo presuppone inoltre lunghissimi tempi geologici, nei quali – come affermano i suoi sostenitori, «l’impossibile diviene possibile, il possibile probabile e il probabile virtualmente certo». La sequenza degli strati dei fossili marini, ad esempio, secondo i darwinisti confermerebbe processi durati milioni di anni. Ma il paleontologo francese Guy Berthault sostiene che, calcolato con nuovi metodi più attendibili, il periodo di sedimentazione dei fossili si rivela assai più breve di quanto creduto sinora e il tempo degli sconvolgimenti geologici si accorcia drasticamente. Tanto da essere «insufficiente per l’evoluzione delle specie, come risulta concepita dai sostenitori dell’ipotesi evoluzionista».
Dominique Tassot, che in Francia dirige il Centre d’Etudes et de prospectives sur la Science, invita a non confondere tra «micro-evoluzione» e «macro-evoluzione». Nel primo caso rientrano le mutazioni adattative accertate, che riguardano caratteri secondari come il colore, lo spessore della pelliccia di un animale, l’altezza, la forma del becco e così via. Ma «è paradossale», sostiene, «estendere il significato della parola “adattamento” per indicare l’evoluzione di nuovi organi del corpo», come «il passaggio dalle squame alle piume o dalle pinne alle zampe», esempi di macro-evoluzione: fenomeno «che manca di qualsiasi verifica empirica o di base teorica».
Il genetista polacco Maciej Giertych sottolinea che «siamo a conoscenza di molte mutazioni che sono deleterie» e anche «di mutazioni biologicamente neutrali», ma le cosiddette «mutazioni positive», che consentirebbero l’evoluzione delle specie, «sono più un postulato che una osservazione». L’esempio che più di frequente viene fatto, l’adattamento di certe erbacce al diserbante atrazina, «in nessun modo aiuta a sostenere la teoria dell’evoluzione», perché si tratta di un adattamento «positivo soltanto nel senso che protegge funzioni esistenti», ma «non fornisce nuova informazione, per nuove funzioni o organi». A conti fatti, secondo Giertych, «l’evoluzione dovrebbe essere presentata nelle scuole come un’ipotesi scientifica in attesa di conferma, come una teoria che ha sia sostenitori che oppositori. Per di più, sia gli argomenti a favore della teoria che quelli contrari dovrebbero essere presentati in modo imparziale».
La verità, banale e meravigliosa allo stesso tempo, è che, come scrive de Mattei, «dal punto di vista della scienza sperimentale, entrambe le ipotesi sulle origini, sia l’evoluzionista che la creazionista, sono inverificabili. Su questi temi ultimi non è la scienza, ma la filosofia, a doversi pronunciare».
Il Crollo della teoria dell'Evoluzione 1
Il Crollo della teoria dell'Evoluzione 2
GREGOR MENDEL, IL PADRE DELLA GENETICA, IL SACERDOTE
CHE HA SMENTITO SCIENTIFICAMENTE IL DARWINISMO
Nella ereditarietà dei caratteri non c'è nessun caso, non c'è nessuna selezione naturale, ma solo moduli matematici che seguono una logica ferrea (e provata sperimentalmente!)
Un anniversario un po' tirato per i
capelli, quello celebrato ieri con enfasi da Google per il 189° anno dalla
nascita del "padre della genetica" Gregor Mendel. Tanto tirato, vista la cifra
affatto tonda e del tutto inusitata, da far sorgere qualche sospetto. Non si
tratta infatti di un attore famoso, non è una pop star, non è una icona del
politicamente corretto: e perché mai allora il motore di ricerca Internet più
utilizzato del mondo dovrebbe arrampicarsi sin sui vetri pur di ricordare un
oscuro abate moravo nato quasi due secoli fa e dimenticato persino dai suoi
contemporanei?
Forse perché è opinione diffusa che quei suoi esperimenti sui piselli di cui
conserviamo qualche vaga memoria scolastica siano un gran contributo alla causa
evoluzionista, in perfetto accordo e anzi a suprema conferma delle ipotesi
formulate dal naturalista inglese Charles R. Darwin. «Alcuni scienziati e
filosofi influenti», nota infatti don Mariano Artigas nel suo Le frontiere
dell'evoluzionismo (Ares, Milano 1993), scritto con il rigore e l'immediatezza
di cui necessitano i non addetti ai lavori, «videro nel darwinismo un puntello
scientifico per il materialismo e per l'ateismo, e sembrò che l'uomo ne uscisse
ridotto a un animale fra gli altri».
Ma, con buona pace di coloro che credono di sapere, Mendel con Darwin non
c'entra alcunché. Anzi, semmai Mendel il darwinismo lo mette in crisi. Lo chiude
in un angolo, costringendolo a rivedersi per fare i conti con la realtà delle
cose - appurata a norma di metodo scientifico (come il darwinismo invece non fa)
appunto dall'abate moravo - e per confrontarsi con quelle domande pressanti che
la "genetica dei piselli" non permette più di scantonare.
Erano i tempi dell'impero austroungarico, e tra le mura di recinzione dell'orto
annesso al monastero di san Tommaso dell'allora Brünn, oggi Brno, lavorava
alacremente l'abate Johann Mendel (in religione Gregor, da quando era entrato
nell'ordine dei benedettini). Nato nel 1822 da una famiglia contadina di lingua
tedesca in territorio ceco, aveva lavorato sin dall'infanzia come giardiniere.
Nel 1843 entrò in monastero, nel 1847 ricevette gli ordini sacerdotali, poi nel
1851 s'iscrisse all'Università di Vienna. Completati gli studi, tornò
all'abbazia, era oramai il 1853, come professore di Fisica, di Matematica e di
Biologia. Insegnò, ma soprattutto continuò a studiare, non smise mai di
studiare, e a osservare, non smise mai di osservare. E pure sperimentò, non
smise mai nemmeno di sperimentare, quel bravo monaco.
Un giorno l'umile ma acuto abate, seguendo i propri interessi botanici (erano le
piante, dopo Dio, la seconda passione della sua vita), si mise a coltivare
piselli. Ne coltivò un numero enorme, e li osservò accuratamente uno a uno. I
piselli facevano al caso suo. I piselli sono infatti vegetali particolarmente
adatti agli studi che piacevano a Mendel, e questo perché i loro fenotipi (la
"totale manifestazione fisica di un organismo", come dice il manuale) presentano
caratteri costanti e definiti. Ne selezionò, di piselli, 22 varietà differenti,
quindi si concentrò su sette paia che mostravano caratteristiche opposte, cioè
fra l'altro facili da distinguere a occhio nudo (e la cosa è importantissima,
giacché, come osserva costantemente il genetista antievoluzionista Giuseppe
Sermonti, la moderna biochimica evoluzionistica pensa di salvarsi rifugiandosi
nell'infinitamente piccolo e per definizione un po' oscuro, e si dimentica però
di guardare in faccia gli animali e le piante in carne, ossa e clorofilla).
Incrociando le diverse specie di piselli, Mendel osservò che la prima
generazione nata dopo gl'incroci era composta da individui uniformi, laddove
quelle successive presentavano mutazioni rispondenti a precise proporzioni
matematiche. Matematiche: oggettive e calcolabili, due più due fa quattro, e di
qui non si scappa. Osservò pure che ciascuno dei caratteri presentati dai nuovi
individui di piselli veniva trasmesso ai discendenti in modo indipendente, e
questo perché determinato da un fattore che gli era proprio, suo e non seriale,
allora come oggi, come sempre.
È così che Mendel, osservando la realtà e lasciandosi realisticamente
ammaestrare da essa, descrisse e scrisse la famosa legge dell'ereditarietà dei
caratteri: negli esseri viventi esistono unità indipendenti ed ereditabili, e
l'ereditarietà è un andamento determinato dalle diverse combinazioni di codeste
unità indipendenti. Non c'è caso, non c'è selezione naturale. C'è invece un
corso e ricorso regolare, descrivibile con moduli matematici, che si svolge
seguendo una logica ferrea.
Ora, le leggi scoperte da Mendel nel comportamento dei piselli messi al mondo
dal buon Dio in quell'orto della provincia imperiale del tempo che fu sono
nientepopodimeno che la base, certa e matematica, della genetica moderna. Tutto
parte da lì, dall'orto dell'abate, solo che il buon abate non se ne accorse.
Nel 1865 egli rese infatti sì pubbliche le proprie scoperte, fra stupore e
meraviglia, nel corso di due riunioni svoltesi alla Società di Storia naturale
dell'allora Brünn, ma la cosa restò confinata agli addetti ai lavori. Nessuno ne
intuì la grandezza. Lo stesso Mendel, fatto ritorno al monastero, se ne occupò
solo a titolo personale, e aveva pure una comunità da mandare avanti, e certe
questioni anche burocratiche da sbrigare, e così via. Nel 1884 si portò insomma
la scoperta nella tomba.
Successe però che un naturalista, Hugo de Vries (1848-1935), occupato in studi
analoghi a quelli che avevano appassionato Mendel, venne fortuitamente a sapere,
nel 1900, lunghi anni dopo, delle scoperte dell'abate. Per caso, direbbe Darwin,
ma il caso non esiste. Di più: in quello stesso 1900 prima il botanico tedesco
Karl Erich Correns (1864-1933), poi l'agronomo austriaco Erich Tschermak
(1871-1962) pervennero ad analoghe conclusioni. A quel punto, il mondo era bene
sapesse, il mondo doveva sapere. E così fu. Erano però trascorsi ben 35 anni da
quando il pio e scientifico abate aveva penetrato un poco di più lo schema del
reale così come il buon Dio lo aveva fatto in barba alla barba di Darwin. Era
tardi, ma a quel punto il darwinismo non poté che tremare, di sdegno e di paura.
L'abate aveva infatti scoperto che, nonostante le opinioni nutrite dagli uomini
in materia, la trasmissione ereditaria dei caratteri nei viventi avviene
indipendentemente dall'ambiente e dal corpo di un determinato individuo. E
questa era scienza, cioè conoscenza certa ottenuta per via galileianamente
sperimentale, non ipotesi filosofica.
Quando, nel 1953, tre ricercatori uno più assurdo dell'altro, uno persino un po'
eugenista, un altro che piuttosto che credere a Dio credeva agli alieni,
scoprirono il DNA, venne trovato anche l'agente responsabile della legge
ereditaria descritta da Mendel, l'acido desossiribonucleico. Il genetista
statunitense James Dewey Watson (nato nel 1928), il biologo britannico Francis
Henry Compton Crick (1916-2004) e il biologo molecolare pure britannico Maurice
Hugh Frederick Wilkins (1916-2004) ci vinsero il Premio Nobel; avrebbero dovuto
dedicarlo a Mendel quel Nobel.
Ora, dopo Mendel, l'evoluzionismo darwiniano chiamiamolo classico è entrato in
crisi profonda, fermato dalla scienza esso che scienza non è pur fingendo di
esserlo. Così ha cercato un riparo. Per non soccombere si è riciclato, per non
morire ha abbandonato la paleontologia e si è gettato nei materiali
citoplasmatici. Ma non è mai riuscito a battere le leggi di Mendel; oggi
combatte battaglie importanti ma di retroguardia, e sfida su questo o quel punto
specifico su cui la ricerca deve ancora fare luce piena. L'impianto generale
descritto da Mendel rimane però per esso un ostacolo insormontabile. Siamo
sicuri che anche cercando su Google queste verità saltano fuori...
Il Crollo della teoria dell'Evoluzione 3
Il Crollo della teoria dell'Evoluzione 4
IL DECLINO DI DARWIN: BASE STORICA E
IDEOLOGICA DEL MITO EVOLUZIONISTA
Il mito dell'evoluzione non nacque da nuove scoperte o indagini effettuate, ma venne concepito dalla forma mentis dell'illuminismo razionalista e del liberalismo progressista, conseguenti alla rivoluzione francese
Il mito dell'evoluzione non derivò i suoi
concetti fondamentali da nuove scoperte o indagini effettuate nel campo delle
discipline biologiche, ma venne concepito dalla forma mentis dell'illuminismo
razionalista e del liberalismo progressista, matrici ideologiche di quasi tutti
i successivi sviluppi culturali e politico-sociali dell'Occidente, soprattutto a
partire dagli anni violenti della rivoluzione francese.
Gli storici della scienza hanno ormai da tempo accertato che tutti gli elementi
che si trovano riuniti nell'opera di Charles Darwin erano già presenti nel mondo
scientifico fin dal primo decennio del secolo XIX, e che lo studioso inglese
rappresentò, pertanto, la conclusione piuttosto che l'inaugurazione di una
determinata linea di pensiero. Alla base di quella linea serpeggiava uno stato
di profonda insofferenza ed ostilità nei confronti della visione del mondo
tradizionale.
Secondo tale visione, la realtà fisica, percepita dai sensi, non era tutta la
realtà, bensì un semplice aspetto o espressione particolare di una realtà
indefinitamente più vasta, metafisica, supernaturale; perciò non poteva trovare
la sua completa spiegazione in se stessa, ma unicamente nell'ambito della logica
di tale più ampia realtà.
In urto con tutto questo, lo spirito dell'età rivoluzionaria mirava a spiegare
tutte le cose naturali, sistemi viventi e uomo compresi, senza uscire
dall'ambito della natura stessa, reputata come la sola ed unica realtà. Vale a
dire, ricorrendo unicamente a quel sistema di leggi meccanicistiche e
deterministiche che riuscivano tanto bene a giustificare le esperienze di tutti
i giorni dell'uomo comune. Ed un tale spirito giunse a poco a poco a permeare di
sé anche gli ambienti scientifici.
Fu così che, mente Sir Isaac Newton si era limitato ad indagare e a formulare
leggi meccaniche senza "fingere ipotesi" per spiegare con esse qualsiasi cosa,
Kant e il marchese di Laplace — assieme al conte Buffon — avevano postulato
l'origine del sistema solare in seguito all'azione di un sistema deterministico
universale di tali leggi; mentre Hutton aveva concepito la superficie del globo
terrestre come una realtà in moto puramente meccanico, svolgentesi nel corso di
milioni e milioni di anni. Prima che il barone Cuvier — il padre della
paleontologia — applicasse i concetti dell'anatomia comparata allo studio dei
fossili e, assieme a William Smith, gettasse con molta prudenza le basi della
stratigrafia, Buffon aveva attribuito una notevole importanza alla variabilità
degli esseri viventi ed era giunto a considerare il fenomeno dell'estinzione
delle specie come legato alla lotta per la sopravvivenza tra le creature
risultanti dalle infinite combinazioni prodotte dalla natura. Maupertuis,
Prichard e Wells avevano immaginato che nuovi tipi potessero sorgere da
variazioni casuali avvenute nel corso delle generazioni (Wells aveva perfino
introdotto il concetto di selezione naturale), mentre Erasmus Darwin e il
cavaliere di Lemarck avevano già postulato un'evoluzione graduale delle forme
organiche dalla monade cellulare all'uomo. Ed anche Malthus aveva pubblicato l'Essay
on the Principles of Population, che prefigurava una lotta per la sopravvivenza
nella specie umana. Ma tutti questi "spunti" parevano destinati a rimanere nel
dominio della pura immaginazione, dal momento che Cuvier aveva brillantemente
dimostrato l'inconsistenza e l'infondatezza del trasformismo sul piano
scientifico. E la concezione tradizionale della realtà come cosmos o sistema
armonico governato da una logica supernaturale rimaneva intatta ad esercitare la
sua influenza sul pensiero scientifico dell'Occidente.
Le suggestioni evocate dal mito evoluzionistico ripresero ad invadere le menti
dopo il 1859, primo anno della pubblicazione dell'Origin of Species by Means of
Natural Selection, e da allora nulla è riuscito a neutralizzare o ad attenuarne
l'influsso. Con ogni probabilità, l'enorme successo di questo libro fu dovuto
sia al fatto che esso raccoglieva in forma ordinata un numero svariato di esempi
ed argomentazioni suscettibili di far presa sul grosso pubblico, sia alla
continua ed aggressiva propaganda fatta in suo favore soprattutto da Thomas
Huxley (il "bull-dog di Darwin"), la quale mirava non solo a convincere il mondo
scientifico della verità della teoria, ma anche ad usare quest'ultima come clava
per colpire la reputazione della Chiesa ed il sentimento religioso in generale.
Resta in ogni caso il fatto che, da allora ad oggi, l'azione del mito
evoluzionista all'interno della cultura occidentale non ha conosciuto tregua,
allargandosi dalla biologia ai dominii più disparati, quali l'astronomia, la
geologia storica, la psicologia, la sociologia, la linguistica, la storia, la
pedagogia e, naturalmente, la politica. Nell'ambito strettamente ecclesiastico,
se in qualche caso si è reagito al mito con coraggio e cognizione di causa, il
più delle volte si è preferito rinunciare a combattere per adottare la
discutibile forma compromissoria di un "evoluzionismo teistico" alla Teilhard de
Chardin. Quanto al fronte strettamente scientifico, dallo scorso secolo ad oggi
gli oppositori non sono mai mancati; ma le loro opere, quando non addirittura
boicottate, non sono mai state tenute nella dovuta considerazione.
Il Crollo della teoria dell'Evoluzione 5
Il Crollo della teoria dell'Evoluzione 6
ECCO DOVE SBAGLIA CHI VUOLE SALVARE CON
LA TEOLOGIA L'EVOLUZIONISMO DI DARWIN
Come ogni polemica, anche quella in corso
sull’evoluzionismo è rivelatrice. La virulenza verbale degli anticreazionisti
porta alla luce l’essenza teofobica del loro pensiero. Il silenzio dei
principali organi di stampa cattolici rivela a sua volta l’imbarazzo di chi si
illude di trovare un compromesso tra due realtà incompatibili: creazione ed
evoluzione.
Il teo-evoluzionismo, ovvero il tentativo di conciliare la fede cattolica con la
teoria dell’evoluzione, caratterizza quella corrente che Pievani, con irrisione,
definisce «darwinismo ecclesiastico» (cfr. il saggio dallo stesso titolo di
Orlando Franceschelli e Telmo Pievani, su “Micromega” 4/2009, pp. 108-116). I “teo-darwinisti”,
accreditati come “esperti” di gran parte del mondo cattolico, condividono la
teoria dell’evoluzione e cercano anzi di offrirle una ciambella di salvataggio
che però i darwinisti “puri”, come Pievani e Odifreddi, sprezzantemente
rifiutano. La contraddizione è destinata ad esplodere.
L’evoluzionismo “ortodosso”, darwiniano e neo-darwiniano, non è una corrente
scientifica, ma una lobby filosofica atea e materialista che, da quando apparve
l’Origine delle specie di Darwin (1859), non è ancora riuscita a produrre una
sola prova a suffragio della sua teoria. Due “salti” della presunta catena
evolutiva risultano in particolare indimostrabili dalla scienza: il passaggio
dalla materia inerte alla vita e quello dall’animale all’uomo pensante. Solo un
“miracolo” può salvare la teoria dell’evoluzione. Ed è qui che entrano in scena
i teo-evoluzionisti, affermando che grazie ad un diretto intervento divino si
sarebbero accese la prima scintilla della vita della materia e la seconda
scintilla della coscienza nell’ “ominide”. Ciò che è impossibile alla scienza
sarebbe possibile grazie all’intervento miracoloso di Dio.
Per avere un’idea delle posizioni teo-evoluzioniste, basta attingere ai libri di
Francisco J. Ayala, Il dono di Darwin alla scienza e alla religione (San Paolo,
Milano 2009, pp. 308), con prefazione di Fiorenzo Facchini e, dello stesso
Facchini, Le sfide dell’evoluzione. In armonia tra scienza e fede (Jaca Book,
Milano 2008, pp. 174). Ayala è un ex-sacerdote, Facchini un
monsignore-paleontologo. Entrambi sono discepoli del nebuloso gesuita francese
Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), attraverso la mediazione di Theodosius
Dobzhansky (1900-1975), un biologo russo-americano, di cui Ayala fu assistente.
Secondo Facchini, la darwiniana trasformazione delle specie è una “verità
scientifica”, anche se il rifiuto evoluzionista della creazione sembra a lui «un
passo decisamente troppo lungo per essere vero» (“Osservatore Romano”, 30
settembre 2009). Si tratta dunque di trovare l’arduo accordo tra fede ed
evoluzione. Come Teilhard, che citano ad ogni piè sospinto, Facchini ed Ayala
ritengono che l’uomo sia fatto della stessa “stoffa” dell’universo e degli altri
viventi: materia in evoluzione. In questo processo evolutivo, come spiega il
gesuita francese, l’ “ominizzazione” rappresenta il punto di arrivo (la
“freccia”) della evoluzione dei viventi: l’uomo è l’evoluzione diventata
cosciente di sé stessa, l’ “autocoscienza” della materia.
Il culmine del processo non è tuttavia l’uomo, ma il “Cristo cosmico”, il “punto
omega”, vertice di convergenza evolutiva dell’universo materiale. Teilhard
compendia il suo credo panteista in un celebre “Inno alla Materia” che capovolge
il Cantico delle creature di san Francesco. Il poverello di Assisi, contemplando
le creature materiali, risaliva a Dio creatore dell’universo, mentre Teilhard
divinizza la materia, rivolgendole queste parole: «Benedetta sii tu potente
Materia, Evoluzione irresistibile, Realtà sempre nascente, tu che spezzando ad
ogni momento i nostri schemi ci costringi ad inseguire, sempre più oltre, la
Verità (…) Tu che ferisci e medichi – tu che resisti e pieghi – tu che sconvolgi
e costruisci – Linfa delle nostre anime, Mano di Dio, Carne del Cristo, o
Materia, io ti benedico» (Inno dell’Universo, Queriniana, Brescia 1992, pp.
48-50).
Per salvare la cosmogonia evoluzionistica, i teo-darwinisti sono costretti a
negare frontalmente quanto San Paolo proclamò all’Areopago di Atene: «Dio trasse
da uno solo tutta la stirpe degli uomini» (Atti 17, 26). Gli evoluzionisti
cattolici negano infatti la rivelazione scritturale di Adamo ed Eva come unici
progenitori dell’umanità, accettando il poligenismo evoluzionista, che postula
la contemporanea apparizione di uomini in varie parti della terra. La Chiesa
però ha sempre e solo insegnato il monogenismo.
Su questo punto, il Concilio Vaticano II ha confermato il Concilio di Trento (sess.
5, can. 2), affermando che da un solo uomo, Adamo, Dio ha prodotto l’intero
genere umano (Gaudium et Spes, 22; Lumen Gentium, 2). La ragione è evidente, ed
è lo stesso Odifreddi, ex seminarista, a spiegarla alla luce dei suoi studi di
gioventù: con la negazione della storicità di Adamo ed Eva, ridotti a metafora
collettiva, cade il peccato originale e con questo la necessità
dell’Incarnazione di Cristo, Redentore dell’umanità. Con Cristo crolla la Chiesa
da Lui fondata e tutti i suoi ministri e rappresentanti (compresi i sacerdoti
teo-evoluzionisti). Per questo Teilhard de Chardin venne colpito il 30 giugno
1962 da un monitum del Sant’Uffizio (oggi Congregazione della Dottrina della
Fede) mai revocato.
Scienza e fede non sono mai in contrasto, a condizione che entrambe siano vere.
Qui invece una fede sfigurata cerca di armonizzarsi con una teoria scientifica
falsa. La stabilità della specie, negata dall’evoluzionismo, è infatti
un’evidenza sperimentabile ad occhio nudo ogni giorno, come il fatto che la
terra gira. Nella scala dei viventi esistono specie diverse, dai micro-organismi
cellulari all’uomo, ma nessuna può definirsi “imperfetta” o in via di
trasformazione. Pier Carlo Landucci, un sacerdote-scienziato che sapeva
coniugare scienza e fede, notava giustamente che l’attuale quadro del mondo
vivente può essere considerato come un’istantanea del presunto movimento
evolutivo. Se la teoria dell’evoluzione fosse vera e la scala delle specie fosse
il risultato di un processo perfettivo della natura, il mondo dovrebbe abbondare
di specie abbozzate, rudimentali e incomplete, cioè in ritardo rispetto alle
singole specie complete verso cui sarebbero avviate (La verità sull’evoluzione e
l’origine dell’uomo, Editrice La Roccia, Roma 1984). La prova sperimentale del
contrario è sotto i nostri occhi.
Ma il teo-evoluzionismo non è solo un errore scientifico e filosofico: è
innanzitutto una malattia dello spirito. Da oltre quarant’anni il mondo
cattolico si illude di sopravvivere attraverso la via del dialogo e del
compromesso. Eppure tutta la storia della Chiesa è la storia di una guerra
teologica e culturale combattuta contro gli errori che l’hanno aggredita, dalle
prime eresie trinitarie e cristologiche fino al modernismo del Novecento.
Benedetto XVI, nelle udienze del mercoledì, ha efficacemente evocato le grandi
figure dei Padri e dei Dottori che nel corso dei secoli hanno difeso la Chiesa
dagli attacchi esterni ed interni. Possibile che oggi non ci sia un teologo o un
uomo di Chiesa disposto a misurarsi con l’evoluzionismo contemporaneo, facendo
proprie le parole dello stesso Papa Ratzinger: «Non siamo il prodotto casuale e
senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio.
Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario» (Benedetto
XVI, Omelia per l’inizio del pontificato, 24 aprile 2005)
Il Crollo della teoria dell'Evoluzione 7
LA CENSURA CONTRO JÉRÔME LEJEUNE, UN GRANDE
SCIENZIATO, CON IL DIFETTO DI ESSERE
CONTRO DARWIN E PRO-VITA.
In Italia su di lui si sa molto poco. Gli
unici quattro libri, a quanto mi consta, li ha pubblicati Cantagalli (l’ultimo è
di Clara Lejeune, sua figlia: “La vita è una sfida”). Il suo nome è sconosciuto
ai più, anche in tempi in cui di genetica si parla spesso. Eppure Jérôme Lejeune
è uno dei grandi scienziati che ha fatto fare alla conoscenza umana un balzo in
avanti. Nato nel 1926 a Montrouge sur Seine, è infatti colui che ha scoperto la
prima anomalia genetica, la trisomia 21, quella che determina la sindrome di
down. Sino alla sua scoperta si credeva che il mongolismo fosse una tara
razziale, oppure che fosse determinato da genitori alcolisti o sifilitici.
Lejeune dimostrò che non vi era nulla di disdicevole nei genitori di quei
bambini, nessuna contagiosità, in quelle creature in cui era avvenuta la
triplicazione di un cromosoma, un eccesso di informazione genetica, e che
vengono colpite nella facoltà dell’intelligenza, dell’astrazione, anche se
conservano integre affettività e memoria. Lejeune per questa scoperta, e per
altre che la seguirono, ottenne riconoscimenti internazionali, premi e
onoreficenze. Divenne famoso e per lui fu creata la prima cattedra di Genetica
Fondamentale all’Università di Parigi.
Ma Lejeune non era solo un ricercatore. Il suo intento fu sempre quello di
guarire i suoi malati, così socievoli, così allegri, così fanciulleschi. “Se si
riuscisse a scoprire come poter curare la trisomia 21 – scrive la figlia Clara –
allora sì la strada sarebbe aperta per poter curare ogni altra malattia
genetica”. Scoprire la prima aberrazione cromosomica è, nella mente di Lejeune,
il primo passo per compiere l’opera del medico, che è, da sempre, quella di
curare.
Così anche la scoperta della diagnosi prenatale, a opera dell’amico di Lejeune,
il professor Liley, originario della Nuova Zelanda, è collegata al desiderio di
poter individuare quanto prima e curare più precocemente i bambini. Curare il
prima possibile, in utero: è l’idea che entusiasma entrambi. Ma i due
scienziati, che “si conoscono e si stimano”, “impotenti, assisteranno allo
snaturamento delle loro scoperte”. Infatti nel 1970 in Francia la proposta di
legge Peyret apre il dibattito sull’aborto, sull’eliminazione dei bambini che
sono identificati come portatori di handicap già prima della nascita. In quel
momento, ricorda Clara, “l’unico handicap riconosciuto prima della nascita è la
trisomia”.
Lejeune, di fronte alla proposta Peyeret e al dibattito sull’aborto in generale,
dinanzi alle menzogne sulla natura del feto o sul numero degli aborti
clandestini, non riesce a tacere: sostiene la sacralità della vita, palesa il
suo amore per i suoi piccoli malati, ovunque, arrivando ad affermare, all’Onu:
“Ecco una istituzione per la salute che si trasforma in istituzione di morte”.
Lejeune non è un ingenuo: sa di aver intrapreso una strada pericolosa fonte di
innumerevoli antipatie. La sera stessa del suo discorso all’Onu, scrive alla
moglie: “Oggi pomeriggio ho perduto il premio Nobel”. Ed è proprio così. Non
garba, a coloro che lo insultano, a coloro che scrivono sui muri: “A morte
Lejeune e i suoi mostriciattoli”, che qualcuno rivendichi con carità e con forza
la verità, e lo faccia con l’evidenza della scienza.
Scrive Lejeune: “La genetica moderna si riassume in questo credo elementare:
all’inizio è dato un messaggio, questo messaggio è nella vita, questo messaggio
è la vita. Vera e propria perifrasi dell’inizio di un vecchio libro che ben
conoscete, tale credo è quello del genetista più materialista possibile…”. In
principio è il Logos, al principio della vita è l’informazione del dna, tutta
già compresa nella prima cellula: “Tutto questo lo sappiamo con una certezza
assoluta che vince ogni dubbio perché se tale informazione non fosse già
contenuta in essa, non potrebbe entrarvi mai più; nessuna informazione, infatti,
entra in un uovo dopo che sia stato fecondato”.
Per stroncare Lejeune le proveranno tutte: odio, molestie anche fisiche,
controlli fiscali… Gli verrà negato l’avanzamento di carriera per ben 17 anni,
verrà escluso dai congressi scientifici, gli verranno soppressi i crediti per la
ricerca e negati i finanziamenti per i suoi pionieristici studi sull’acido
folico per le mamme in gravidanza.
Può continuare a lavorare grazie a sussidi americani, inglesi, neozelandesi. Si
batte in questi anni per evitare il disastro nucleare, e confuta il darwinismo
materialista e ideologico di Jacques Monod, che riduce l’uomo a un figlio del
caso. In nome dei suoi studi di genetica Lejeune sostiene la credibilità di
Adamo ed Eva e, anticipando di dieci anni le scoperte di Gould ed Eldredge,
confuta il gradualismo step by step di Darwin, sostenendo che l’evoluzione ha
dovuto per forza fare dei salti. In ogni cosa, come padre di cinque figli, come
scienziato, come polemista contro l’aborto e il darwinismo materialista, ciò che
più colpiva, in lui, come rammenta la figlia, era “l’assenza di paura. Non aveva
paura. Cosa si può fare contro un uomo che non desidera niente per se stesso?”.
Timete Dominum et nihil aliud, diceva.
APPROFONDIMENTO
Cos'è l'evoluzionismo? Pochi hanno le idee chiare, ma
tutti sono fermamente convinti che l'uomo discenda dalla scimmia (meglio sarebbe
dire da un progenitore comune alla scimmia) e questa convinzione viene da tutti
difesa strenuamente quasi ci stesse accaparrando chissà quale nobiliare casato
di discendenza.
Negli stessi ambienti universitari delle facoltà naturalistiche e biologiche,
gli studenti - che lì dovrebbero essere formati in maniera obiettiva - vengono a
conoscenza della teoria evoluzionistica come se si trattasse non già di una
teoria, ma di un dato oramai completamente acquisito, estremamente chiaro e
lineare, senza il benché minimo punto dubbio e da non mettere assolutamente in
discussione.
Evoluzionismo? No, grazie