PAPA FRANCESCO:
SEGNO DI CONTRADDIZIONE
ANCHE DENTRO LA CHIESA.
Breve viaggio in quel mondo cattolico che vede con sospetto le aperture del Papa ad una certa cultura laica atea alla Scalfari e ad un certo progressismo cattolico. Chi ha ragione? Solo il tempo ce lo dirà! Gesù però ci avverte: "Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti" (Lc 6,26). La fedeltà alla tradizione viva della Chiesa, nella sua dimensione soprattutto dottrinale, vale per qualsiasi cristiano, Papa compreso!
(a cura di Claudio Prtandini)
INTRODUZIONE
DIALOGO TRA DUE PAPI
Si è
recentemente svolto, sulle pagine di “La Repubblica”, un dialogo epistolare tra
Papa Francesco ed Eugenio Scalfari. Si tratta di un avvenimento importante, su
cui occorre soffermare l’attenzione, sia pure da una prospettiva differente
rispetto a quella che si è imposta come egemonica negli scorsi giorni.
Ho già affrontato la questione in
una lunga intervista apparsa – a cura di Moreno Pasquinelli – sul
blog “Sollevazione” e, pertanto, in questa sede
non farò altro che riprendere cursoriamente alcuni punti che reputo
particolarmente degni d’attenzione e che, in quell’intervista, ho sviluppato più
estesamente. In primo luogo, merita di essere analizzata la tragicomica
inversione delle parti a cui si è assistito: dialogico, aperto, denso di dubbi e
di incertezze, il Papa; dogmatico, pontificante e senza la minima incertezza,
Scalfari.
Prescindendo dalle tesi esposte e dalla notorietà dei due personaggi, a
leggerli si sarebbe potuti plausibilmente essere indotti a ritenere che, tra i
due, il pontefice non fosse Bergoglio. Il fondatore di “Repubblica” si pone oggi
come pontefice di una religione atea e scientista, intollerante verso ogni forma
di sapere che non sia quello piegato ai moduli della ratio
strumentale, sotto i cui raggi risplende l’odierna barbarie della finanza e
dell’austerity, dell’eurocrazia e della religione neoliberale.
Tale religione promuove compulsivamente il disincantamento e il congedo dalle
utopie, la riconciliazione con la realtà presentata come inemendabile, la
precarietà come stile esistenziale e lavorativo, l’abbandono del
pathos antiadattivo e dell’attenzione per la questione sociale, il culto
demenziale dell’antiberlusconismo come unica fede politica possibile: essa è la
prova di quanto vado sostenendo da tempo, ossia che il capitalismo si riproduce
oggi culturalmente a sinistra (è la tesi al centro del mio saggio
Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, a cui mi permetto di rimandare
per eventuali approfondimenti). Si pensi anche solo alla trasformazione dei
costumi – propugnata urbi et orbi dalla sinistra – in vista di
una società interamente liberalizzata, postborghese e postproletaria,
individualistica e iperedonistica, affrancata dalla morale borghese e dalla
religione.
Anche in quest’ottica, destra e sinistra si rivelano pienamente
interscambiabili: l’anticomunitaria e globalista “Destra del Denaro” detta le
regole econonomico-finanziarie tutelanti gli interessi della global
class, mentre la “Sinistra del Costume” – espressione dell’ideale del
comunismo in un uomo solo, trasformando quest’ultimo in atomo di volontà di
potenza innervata dal capitale – fissa i modelli e gli stili di vita funzionali
alla riproduzione del sistema dell’integralismo economico.
Coerente con questa visione del mondo, Scalfari parla dell’inesistenza di Dio
con una sicurezza dogmatica che andrebbe resa oggetto d’attenzione (e che, con
buona pace del coro virtuoso dei sedicenti neoilluministi, nulla ha a che vedere
con la matrice culturale dell’illuminismo critico). Analogamente, il pontefice
di “La Repubblica” rivela una fascinazione quasi commovente – e, a suo modo,
teologica – per la scienza innalzata a verità ultima.
Se anche è troppo presto, forse, per valutare l’operato del nuovo Papa, certo
è possibile individuare in lui, con diritto, un profilo complessivo non affine
alla visione dominante della ragione, ossia quella della ratio
strumentale su cui – come ricordavo poc’anzi – si fonda l’odierna teologia
economica. Questo è già, di per sé, un aspetto ampiamente positivo, da
valorizzare massimamente in una prospettiva che individui il nemico principale
non nella fede, ma nella ratio strumentale stessa, che tutto
riduce a quantità misurabile, calcolabile e trasformabile in profitto. Si veda,
a questo proposito, lo splendido discorso pronunciato dal pontefice a Cagliari
domenica 23 settembre, tutto centrato sui temi del lavoro e della dignità offesa
dalla disoccupazione coessenziale al regime neoliberale.
Temo che questo concetto – di per sé chiaro come il sole – non passerà
facilmente presso l’armata Brancaleone dei cosiddetti “laicisti”. Illudendosi
che il gesto più emancipativo che possa darsi sia la ridicolizzazione del Dio
cristiano (o, alternativamente, la soppressione del crocifisso dalle scuole),
essi non cessano di contrastare tutti gli Assoluti che non siano quello
immanente della produzione capitalistica, il monoteismo idolatrico del mercato:
il laicismo integralista, in ogni sua gradazione, si pone come il completamento
ideologico ideale del fanatismo del mercato e del “cretinismo economico”
(secondo la stupenda espressione di Gramsci), in cui “The Economist” diventa
“L’Osservatore Romano” della globalizzazione capitalistica e le leggi
imperscrutabili del Dio monoteistico divengono le inflessibili leggi del mercato
mondiale.
Capirà mai l’armata Brancaleone dei laicisti che la lotta contro il Dio
tradizionale è, essa stessa, uno dei capisaldi dell’odierna mondializzazione
capitalistica, la quale si regge appunto sulla neutralizzazione di ogni divinità
non coincidente con il monoteismo mercatistico?
Riusciranno mai costoro, inguaribili lavoratori per il re di Prussia, a
comprendere che ciò di cui più si avverte il bisogno, oggi, è un nuovo
illuminismo che contesti incondizionatamente l’Assoluto capitalistico e
l’esistenza di presunte leggi economiche oggettive della produzione,
sottoponendo a critica l’onnipervasivo integralismo della finanza? Quando
capiranno che l’ateismo, oggi, ha come matrice principale non certo l’aumento
della conoscenza scientifica (con buona pace di Odifreddi!), ma il processo di
individualizzazione anomica che disgiunge l’individuo da ogni sostanza
comunitaria? E, ancora, che la “morte di Dio” da loro salutata con entusiasmo
corrisponde al momento tragico della perdita di ogni valore in grado di
contrastare il dilagante nichilismo della forma merce?
La svolta di Francesco
La prima riunione degli otto cardinali chiamati a consulto da papa Francesco, in questi giorni, e domani la sua visita ad Assisi, la città del santo da cui ha preso il nome, sono atti che certamente caratterizzano questo inizio di pontificato. Ma ancor più caratterizzanti, nel definirne la linea, sono stati quattro eventi mediatici del mese appena trascorso:
- l’intervista di papa Jorge Mario Bergoglio a “La Civiltà Cattolica”,
- la sua lettera in risposta alle domande rivoltegli pubblicamente da Eugenio Scalfari, il fondatore del principale quotidiano laico italiano, “la Repubblica”,
- il successivo suo colloquio-intervista con lo stesso Scalfari,
- e l’altra lettera in risposta a un altro campione dell’ateismo militante, il matematico Piergiorgio Odifreddi, quest’ultima scritta non dal papa attuale ma dal suo vivente predecessore.
Chi volesse capire in che direzione
Francesco voglia procedere e in che cosa si distacchi da Benedetto XVI e da
altri papi che l’hanno preceduto non ha che da studiare e confrontare questi
quattro testi.
Nell’intervista di papa Bergoglio a “La Civiltà Cattolica” vi è un passaggio che
è stato universalmente percepito come un rovesciamento netto di linea rispetto
non solo a Benedetto XVI ma anche a Giovanni Paolo II:
“Non possiamo insistere solo sulle
questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi
contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose,
e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un
contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio
della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione. Gli insegnamenti,
tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale
missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una
moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo
missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che
appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di
Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio
morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la
freschezza e il profumo del Vangelo”.
Naturalmente papa Francesco è ben consapevole che anche per i due papi che
l’hanno preceduto la priorità assoluta era l’annuncio del Vangelo; che per
Giovanni Paolo II la misericordia di Dio era talmente centrale da dedicarvi una
domenica dell’anno liturgico; che Benedetto XVI scrisse proprio su Gesù vero Dio
e vero uomo il libro della sua vita di teologo e di pastore; che insomma niente
di tutto questo divide lui da loro. Francesco saprà anche che la stessa
considerazione vale per i vescovi che più di tutti hanno agito in sintonia con i
due papi suoi predecessori. Ad esempio, in Italia, il cardinale Camillo Ruini.
Il cui “progetto culturale” ha imperniato eventi cardine proprio su Dio e su
Gesù. C’era però, sia in Karol Wojtyla, sia in Joseph Ratzinger, sia in pastori
come Ruini o negli Stati Uniti i cardinali Francis George e Timothy Dolan,
l’intuizione che l’annuncio del Vangelo oggi non potesse essere disgiunto da una
lettura critica dell’avanzante nuova visione dell’uomo, in radicale contrasto
con l’uomo creato da Dio a sua immagine e somiglianza, e da una conseguente
azione di guida pastorale.
Ed è qui che papa Francesco si distacca. Nella sua intervista a “La Civiltà
Cattolica” c’è un altro passaggio chiave. A padre Antonio Spadaro che lo
interroga sull’attuale “sfida antropologica”, egli risponde in modo elusivo.
Mostra di non afferrare la gravità epocale del passaggio di civiltà analizzato e
contestato con forza da Benedetto XVI e prima ancora da Giovanni Paolo II. Si
mostra convinto che valga di più rispondere alle sfide del presente col semplice
annuncio del Dio misericordioso, quel Dio “cha fa sorgere il suo sole sui
cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”.
In Italia, ma non solo lì, era il cardinale e gesuita Carlo Maria Martini a
rappresentare questo orientamento alternativo a Giovanni Paolo II, a Benedetto
XVI e al cardinale Ruini. Negli Stati Uniti era il cardinale Joseph L. Bernardin
a rappresentarlo, prima che la leadership della conferenza episcopale passasse
ai cardinali George e Dolan, fedelissimi di Wojtyla e Ratzinger. I seguaci e
ammiratori di Martini e Bernardin vedono oggi in Francesco il papa che dà corpo
alle loro aspettative di rivincita. E come un cardinale Martini era e continua
ad essere popolarissimo anche nell’opinione pubblica esterna e ostile alla
Chiesa, altrettanto accade per l’attuale papa.
Lo scambio epistolare e il successivo
colloquio tra Francesco e l’ateo professo Scalfari aiutano a spiegare questa
popolarità del papa anche “in partibus infidelium”. Già un passaggio
dell’articolo del 7 agosto nel quale Scalfari gli rivolgeva delle domande era
indicativo dell’idea positiva che il fondatore di “la Repubblica” si era fatta
dell’attuale papa: “La sua missione contiene due scandalose novità: la Chiesa
povera di Francesco, la Chiesa orizzontale di Martini. E una terza: un Dio che
non giudica ma perdona. Non c’è dannazione, non c’è inferno”. Ricevuta e
pubblicata la lettera di risposta di papa Bergoglio, nel commentarla Scalfari ha
aggiunto quest’altra considerazione soddisfatta: “Un’apertura verso la cultura
moderna e laica di questa ampiezza, una visione così profonda tra la coscienza e
la sua autonomia, non si era mai sentita finora dalla cattedra di san Pietro”.
Nell’affermare questo, Scalfari si riferiva in particolare a ciò che papa
Francesco gli aveva scritto sul primato della coscienza: “La questione sta
nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede,
c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa,
infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E
su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire”. Papa
Francesco non aveva aggiunto altro. E alcuni lettori avvertiti si chiesero come
potesse comporsi questa definizione così soggettiva della coscienza, nella quale
l’individuo appare come la sola istanza della decisione, con l’idea di coscienza
come cammino dell’uomo verso la verità, idea approfondita da secoli di
riflessione teologica, da Agostino a Newman, e ribadita con forza da Benedetto
XVI.
Ma nel successivo colloquio con Scalfari papa Francesco è stato ancor più
drastico nel ridurre la coscienza ad atto soggettivo: “Ciascuno di noi ha una
sua visione del bene e del male e deve scegliere di seguire il bene e combattere
il male come lui li concepisce. Basterebbe questo per cambiare il mondo”. Non
sorprende quindi che l’illuminista ateo Scalfari abbia scritto di “condividere
perfettamente” queste parole di Bergoglio sulla coscienza. Così come non
sorprende la sua accoglienza compiaciuta di queste altre parole del papa, quasi
un programma del nuovo pontificato, ovvero “il problema più urgente che la
Chiesa ha di fronte a sé”:
“Il nostro obiettivo non è il proselitismo ma l’ascolto dei bisogni, dei
desideri, delle delusioni, della disperazione, della speranza. Dobbiamo ridare
speranza ai giovani, aiutare i vecchi, aprire verso il futuro, diffondere
l’amore. Poveri tra i poveri. Dobbiamo includere gli esclusi e predicare la
pace. Il Vaticano II, ispirato da papa Giovanni e da Paolo VI, decise di
guardare al futuro con spirito moderno e di aprire alla cultura moderna. I padri
conciliari sapevano che aprire alla cultura moderna significava ecumenismo
religioso e dialogo con i non credenti. Dopo di allora fu fatto molto poco in
quella direzione. Io ho l’umiltà e l’ambizione di volerlo fare”.
Non c’è niente in questo programma di pontificato che possa riuscire non accetto
all’opinione laica dominante. Anche il giudizio che Giovanni Paolo II e
Benedetto XVI abbiano fatto “molto poco” nell’aprire allo spirito moderno è in
linea con tale opinione. Il segreto della popolarità di Francesco è nella
generosità con cui si concede alle attese della “cultura moderna” e
nell’accortezza con cui schiva ciò che possa diventare segno di contraddizione.
Anche in questo egli si distacca decisamente dai predecessori, Paolo VI
compreso. C’è un passaggio nell’omelia che l’allora arcivescovo di Monaco
Ratzinger pronunciò il 10 agosto 1978 in morte di papa Giovanni Battista
Montini, che è straordinariamente illuminante, anche per il suo richiamo alla
coscienza “che si misura sulla verità”:
“Un papa che oggi non subisse critiche fallirebbe il suo compito dinanzi a
questo tempo. Paolo VI ha resistito alla telecrazia e alla demoscopia, le due
potenze dittatoriali del presente. Ha potuto farlo perché non prendeva come
parametro il successo e l’approvazione, bensì la coscienza, che si misura sulla
verità, sulla fede. È per questo che in molte occasioni ha cercato il
compromesso: la fede lascia molto di aperto, offre un ampio spettro di
decisioni, impone come parametro l’amore, che si sente in obbligo verso il tutto
e quindi impone molto rispetto. È per questo che ha potuto essere inflessibile e
deciso quando la posta in gioco era la tradizione essenziale della Chiesa. In
lui questa durezza non derivava dall’insensibilità di colui il cui cammino viene
dettato dal piacere del potere e dal disprezzo delle persone, ma dalla
profondità della fede, che lo ha reso capace di sopportare le opposizioni”.
A conferma di ciò che distanzia papa
Francesco dai predecessori è arrivata appunto la lettera con cui
Ratzinger-Benedetto XVI – rompendo il suo silenzio dopo le dimissioni – ha
risposto al libro “Caro papa, ti scrivo” pubblicato nel 2011 dal matematico
Piergiorgio Odifreddi. Entrambi gli ultimi due papi dialogano volentieri con
atei professi e leader laici d’opinione, ma lo fanno in forma molto diversa. Se
Francesco schiva le pietre di scandalo, invece Ratzinger le evidenzia.
Basti leggere questo passaggio della sua lettera a Odifreddi: “Ciò che Lei dice
sulla figura di Gesù non è degno del Suo rango scientifico. Se Lei pone la
questione come se di Gesù, in fondo, non si sapesse niente e di Lui, come figura
storica, nulla fosse accertabile, allora posso soltanto invitarLa in modo deciso
a rendersi un po’ più competente da un punto di vista storico. Le raccomando per
questo soprattutto i quattro volumi che Martin Hengel (esegeta dalla Facoltà
teologica protestante di Tübingen) ha pubblicato insieme con Maria Schwemer: è
un esempio eccellente di precisione e di amplissima informazione storica. Di
fronte a questo, ciò che Lei dice su Gesù è un parlare avventato che non
dovrebbe ripetere. Che nell’esegesi siano state scritte anche molte cose di
scarsa serietà è, purtroppo, un fatto incontestabile. Il seminario americano su
Gesù che Lei cita alle pagine 105 e sgg. conferma soltanto un’altra volta ciò
che Albert Schweitzer aveva notato riguardo alla Leben-Jesu-Forschung (ricerca
sulla vita di Gesù) e cioè che il cosiddetto ‘Gesù storico’ è per lo più lo
specchio delle idee degli autori. Tali forme mal riuscite di lavoro storico,
però, non compromettono affatto l’importanza della ricerca storica seria, che ci
ha portato a conoscenze vere e sicure circa l’annuncio e la figura di Gesù”.
E più avanti:
“Se Lei vuole sostituire Dio con ‘La Natura’, resta la domanda chi o che cosa
sia questa natura. In nessun luogo Lei la definisce e appare quindi come una
divinità irrazionale che non spiega nulla. Vorrei, però, soprattutto far ancora
notare che nella Sua religione della matematica tre temi fondamentali
dell’esistenza umana restano non considerati: la libertà, l’amore e il male. Mi
meraviglio che Lei con un solo cenno liquidi la libertà che pur è stata ed è il
valore portante dell’epoca moderna. L’amore, nel Suo libro, non compare e anche
sul male non c’è alcuna informazione. Qualunque cosa la neurobiologia dica o non
dica sulla libertà, nel dramma reale della nostra storia essa è presente come
realtà determinante e deve essere presa in considerazione. Ma la Sua religione
matematica non conosce alcuna informazione sul male. Una religione che tralascia
queste domande fondamentali resta vuota.
“La mia critica al Suo libro in parte è dura. Ma del dialogo fa parte la
franchezza; solo così può crescere la conoscenza. Lei è stato molto franco e
così accetterà che anch’io lo sia. In ogni caso, però, valuto molto
positivamente il fatto che Lei, attraverso il Suo confrontarsi con la mia
‘Introduzione al cristianesimo’, abbia cercato un dialogo così aperto con la
fede della Chiesa cattolica e che, nonostante tutti i contrasti, nell’ambito
centrale, non manchino del tutto le convergenze”. Fin qui le parole. Ma a
distanziare tra loro gli ultimi due papi stanno arrivando anche i fatti. Il
divieto imposto da papa Bergoglio alla congregazione dei frati francescani
dell’Immacolata di celebrare la messa in rito antico è stata un’effettiva
restrizione di quella libertà di celebrare in tale rito che Benedetto XVI aveva
assicurato a tutti.
Risulta da conversazioni con suoi visitatori che lo stesso Ratzinger abbia visto
in tale restrizione un “vulnus” al suo motu proprio del 2007 “Summorum
pontificum”. Nell’intervista a “La Civiltà Cattolica” Francesco ha liquidato la
liberalizzazione del rito antico decisa da Benedetto XVI come una semplice
“scelta prudenziale legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa
sensibilità”, quando invece l’intenzione di Ratzinger – espressa a suo tempo in
una lettera ai vescovi di tutto il mondo – era che “le due forme dell’uso del
rito romano possono arricchirsi a vicenda”. Nella stessa intervista Francesco ha
definito la riforma liturgica postconciliare “un servizio al popolo come
rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta”. Definizione
fortemente riduttiva, rispetto alla visione della liturgia che era propria di
Ratzinger teologo e papa.
Inoltre, sempre in questo campo, Francesco ha sostituito in blocco, lo scorso 26
settembre, i cinque consultori dell’ufficio delle celebrazioni liturgiche
papali. Tra i rimossi c’è ad esempio padre Uwe Michael Lang, un liturgista a cui
lo stesso Ratzinger ha scritto la prefazione del libro più importante, dedicato
all’orientamento “al Signore” della preghiera liturgica. Mentre tra i promossi
ci sono liturgisti inclini ad assecondare lo stile celebrativo di papa
Francesco, anch’esso visibilmente lontano dall’ispirata “ars celebrandi” di
Benedetto XVI.
Che cosa non condivido della comunicazione di Papa
Francesco. Parla il tradizionalista de Mattei
Nel momento in cui Bergoglio, per sua stessa ammissione, si sposta dal piano dottrinale in cui nulla innova a quello della strategia comunicativa, è lecito per ogni cattolico discutere questo suo approccio. E sotto questo aspetto a mio parere si tratta di un approccio infelice, perché rende possibile una strumentalizzazione delle sue parole. L’opinione del tradizionalista Roberto de Mattei che non lesina rilievi anche alle ultime sortite di Ratzinger…
La stampa strumentalizza, ma il Papa le ha dato una mano: è l’opinione del tradizionalista Roberto De Mattei, docente di Storia Moderna e Storia del Cristianesimo presso l’Università Europea di Roma, fino al 2011 vice-presidente del Cnr. De Mattei Dirige le riviste “Radici Cristiane”, “Nova Historica” e l’agenzia di informazione “Corrispondenza Romana” e affida a Formiche.net la sua personale lettura del primo semestre papale, sulla cui strategia comunicativa esprime forti riserve.
Come vive un
“cattolico senza compromessi”, come lei si definisce, le aperture di Papa
Francesco a gay e divorziati?
La mia opinione è che ci sia stata una forte strumentalizzazione delle parole
del Pontefice, nel senso che io non vedo questa così grande apertura. Almeno dal
punto di vista della dottrina, anche perché lo stesso Papa Francesco ha ribadito
che le sue posizioni su questi temi non sono diverse da quelle del Catechismo.
Che analisi
fa dell’intervista-manifesto di Bergoglio a Civiltà Cattolica?
Proprio perché il Papa ha ribadito che dal punto di vista dottrinale intende
porsi in continuità con l’insegnamento della Chiesa e non intende affermare
novità dottrinali, ecco che il piano su cui si pone con questa intervista è di
natura pastorale, o strategico: vale a dire che ciò che propone non è una nuova
dottrina, ma un nuovo metodo di approcciarsi a questi problemi.
Con quali
riverberi?
Nel momento in cui Bergoglio, per sua stessa ammissione, si sposta dal piano
dottrinale in cui nulla innova a quello della strategia comunicativa, è lecito
per ogni cattolico discutere questo suo approccio. E sotto questo aspetto a mio
parere si tratta di un approccio infelice, perché rende possibile una
strumentalizzazione delle sue parole. Ma responsabile della strumentalizzazione
non è solo la stampa che, se vogliamo, fa il suo mestiere bensì chi la rende
possibile con un linguaggio su alcuni punti assolutamente ambiguo.
Qual è il
risultato di questo nuovo linguaggio?
Credo possa essere molto pericoloso, perché chi domina il mondo della
comunicazione non è il Papa, né tantomeno lo sono i cattolici, ma lobby e
potentati laicisti in grado di farne un uso distorto. Personalmente ho una
posizione di forte riserva nei confronti della strategia comunicativa del Papa.
Ha ragione Il
Foglio di Ferrara a osservare come i principi non negoziabili siano ormai
ridotti a lettera morta allora?
Mi sembra eccessivo, si tratta di principi che per loro natura possono conoscere
momenti di eclissi. Però mi sembra che il Papa abbia detto, senza negarli, che
privilegia altri punti nella sua comunicazione, partendo dal presupposto che il
diritto alla vita e alla famiglia sono principi già noti. Ma il problema di
fondo è che la posizione nel merito della Chiesa non è nota al grande pubblico e
vi è grande confusione anche all’interno del mondo cattolico. Gli unici due Papi
ad insistervi sono stati Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Bergoglio, pur
ponendosi in continuità dottrinale con i suoi predecessori, credo voglia
esprimere una discontinuità strategica.
Come valuta
questa scelta?
Preferisco la precedente strategia comunicativa, ma naturalmente sarà il tempo a
dirlo e l’albero si vedrà dai frutti che darà. Mi auguro che le conseguenze di
questo approccio non siano devastanti.
E invece la
lettera di Ratzinger a Odifreddi cos’è, un modo di puntare i paletti?
É una lettera che a mio parere aumenta la confusione in atto, perché pur
ribadendo solidi principi, insinua l’idea che ci possono essere, seppur a
livello di magistero privato, due fasi che contemporaneamente intervengono sulla
medesima tribuna che in questo caso è quella di Repubblica. Avevo pensato, come
molti, che Benedetto XVI intendesse ritirarsi dalla vita pubblica per
abbracciare una vita di preghiera e silenzio, ciò non significa che sbagli in
quanto la sua critica a Odifreddi è puntuale. Quindi non discuto il contenuto,
ma ancora una volta esprimo delle riserve in termini di opportunità.
La riforma
della Curia crede sia ormai irreversibile?
Non è ancora stata avviata, aspettiamo a giudicare. Per ora ci sono stati
normali avvicendamenti, ma nessun segno di riforma. Ad ottobre il Papa si
riunirà con quel gruppo di cardinali a cui ha affidato il compito di avanzargli
delle proposte. Vedremo e giudicheremo nei prossimi mesi.
Lo strappo di Friburgo ed il silenzio di Roma
«Non si rende conto dei danni che sta facendo»
L’intervista al filosofo cattolico americano Michael Novak «Un amico mi ha chiesto se il Papa si rende conto dei danni che fa, con questi commenti estemporanei. Di certo usare la parola ossessione nei confronti di chi lavora da sempre per la difesa della vita è una cosa che ferisce».
In oltre venti anni che lo conosciamo, non era mai capitato prima di sentire parole così dubbiose verso il Papa da Michael Novak, forse il più noto filosofo cattolico americano, molto legato a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Cosa pensa dell’intervista rilasciata da Francesco a Civiltà Cattolica?
«Ho visto due tipi di reazioni: quella del mio amico, che vi ho descritto; e quella di George Weigel, secondo cui dobbiamo abituarci ai comportamenti di un pontefice evangelico, che non si rivolge a noi come accademico, ma come predicatore. Weigel ha ragione, però, usare parole come “ossessione” ferisce fedeli che hanno rischiato anche la vita, per proteggerla».
Francesco vuole cambiare la dottrina o il tono della Chiesa?
«Il tono. Però l’effetto rischia comunque di essere dannoso».
Perché?
«Mette molti cristiani sulla difensiva, proprio quando sono attaccati. Nello stesso tempo incoraggia le critiche contro la Chiesa, da parte dei suoi avversari dichiarati, che non aspettavano altro».
A cosa si riferisce?
«Le sue parole lo espongono alla strumentalizzazione da parte di chi vuole colpire la Chiesa. Basta guardare come le ha usate il New York Times».
C’è il rischio che una parte dei fedeli americani lasci la Chiesa?
«Non credo. Forse i più fragili estremisti, ma sarà un fenomeno molto limitato. La sinistra, però, si sentirà incoraggiata a spingere per modifiche della dottrina».
Non esiste anche la possibilità inversa, quella che un «Papa evangelico» riavvicini i fedeli?
«Cristo ha portato anche elementi di contraddizione, forse non è possibile farne a meno. Forse è un bene che questo Papa, riconducendo la Chiesa alle radici della sua missione, ci spinga a riflettere».
APPROFONDIMENTO
Capisco il disagio, ma nella Chiesa o si cammina
con il Papa o si va verso lo scisma
Da sociologo, ho letto con interesse l’articolo di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, come spia di un disagio rispetto a gesti e atteggiamenti di Papa Francesco che anch’io ho rilevato in settori minoritari ma non irrilevanti della chiesa. Assunto e trasformato in riflessione e cultura, questo disagio può essere utile, e credo che lo stesso Papa Francesco lo preveda e ne tenga conto nella sua visione di una chiesa dove, come ama spiegare, l’unità non va confusa con l’uniformità.
LA SERA ANDAVAMO A SANTA MARTA. SE EUGEnio
diventa papista e Francesco repubblichino
Non siamo chiamati a “cambiare” la Chiesa: questo è l’insegnamento di tutti i santi, ma a servirla, mentre Francesco non vede l’ora di cambiarla come la vuole lui, ammesso sappia davvero cosa vuole.