GENERAZIONE GENDER

ARRIVA L'UOMO ANDROGINO

 

LE POTENTI LOBBY OMOSESSUALI INGLESI E AMERICANE
GUIDANO LA RIVOLUZIONE GENDER IN OCCIDENTE

MA LA NOSTRA PAROLA D'ORDINE È:
RESISTERE... RESISTERE... RESISTERE...

 

 

(a cura di Claudio Prandini)

 

 

"L'ideologia di genere è il tentativo di cancellare le leggi della biologia, della genetica, delle scienza naturali, ritenute obsolete a fronte dell'avanzare della tecnologia, e la loro sostituzione con artifici giuridici inventati dall'uomo. È dunque un'ideologia che dichiara guerra non solo alla natura ma anche alla scienza e utilizza il potere giudiziario per imporre una precisa agenda politica". (Dina NerozzI)

Allarme per un disegno di legge in discussione in parlamento: chi cita scritti o documenti del Magistero sulla omosessualità rischia la galera. La Binetti però non ci sta... (vedere in approfondimento a fondo pagina)
 

NOTA

Le immagini inserite in questa pagina non sono messe lì a caso, ma hanno lo scopo di rendere ancora più esplicito ciò che il testo di questo dossier esprime. Anzi, direi di più, il  linguaggio delle immagini arriva dove la parola scritta spesso non arriva. Esse ci parlano di un tentativo di portare l'uomo oltre i confini della propria natura, in una alienazione perpetua dove gli unici padroni sono gli istinti e le convenienze del "Principe" di questo mondo. Egli infatti continua a sibilare all'uomo di oggi la sua antica suggestione: "Se farete ciò diventerete come Dio", cioè dei senza limiti, onnipotenti. 

 

 

 

 

Una volta c'erano i Maschi e le

Femmine, ora siamo nell'Era del Genere

 

Adama ed Evo

Fonte web

Da che mondo è mondo, cioè dai tempi di Adamo ed Eva, i sessi sono due: maschio e femmina. Fin troppo ovvio, direte voi, questo lo sanno anche gli atei. Eppure, c'è chi vorrebbe radicare nella testa di tutti noi una nuova interpretazione della realtà, che nega questo presupposto fondamentale della natura. La parola tanto cara alle associazioni omosessuali, nata apposta per confondere le idee, è "Gender", termine che difficilmente si traduce in italiano con la parola "genere". Gender è qualcos'altro, è la negazione stessa della natura. Da dato naturale, la differenza sessuale diventa concetto, categoria di pensiero. Non una cosa di cui prendere atto, ma su cui riflettere e discutere. E, nel caso, modificarla arbitrariamente. Se il sesso indica la differenza biologica (cromosomica, genetica, genitale), dunque immutabile nello spazio e costante nel tempo, il gender indica un insieme di caratteristiche, comportamenti, valori astratti rispetto al sesso...

La conseguenza più cupa e pericolosa è che la differenza tra maschio e femmina non conta più nulla, anzi: non esiste proprio! Al contrario, esiste il corpo androgino asessuato, simbolo di onnipotenza, libertà sessuale, lontananza da Dio, autodeterminazione individuale senza restrizioni e limiti. Insomma nascono veri e propri cyborg, pronti a essere tutto e il contrario di tutto. Tanto, c’è la scienza (che a volte sfocia in fantascienza) a cambiare gli organi che non ci piacciono, a toglierne alcuni di troppo per mettere altri di più graditi. Di più, proprio in base a queste premesse assurde si giustificherebbe la nascita di qualsiasi sessualità a seconda dell’appetito o dell’istinto sessuale da soddisfare a tutti i costi.

Sulle orme di questa ideologia perversa si sta muovendo la Regione Toscana, con un manifesto che dovrebbe evitare le discriminazioni sessuali, mentre invece non è altro che un raccapricciante furore ideologico antisessuale: si vede un bambino, con il volto sfocato (almeno quello), che al polso ha il solito braccialetto di riconoscimento usato in ogni ospedale. Sopra, però, non c’è scritto il nome di battesimo, ma la parola “homosexual”. Come dire: omossessuali si nasce, non si diventa, perché è una caratteristica innata. Le strumentazioni sui neonati per promuovere le pulsioni omossessuali più becere sono già inaccettabili per conto loro, ma lo sono ancor di più quando a questa vergogna concorrono le istituzioni pubbliche e un ministero compiacente come quello delle Pari opportunità, che patrocina simili campagne-choc e sperpera il denaro pubblico assecondando il gioco delle “solite” lobby.

Dov’è finito il rispetto per i bambini? Beh lungi - sia chiaro – dal voler sottintendere parallelismi o legami impropri tra violenze sui bambini e omosessualità, abbiamo ancora negli occhi il corpicino martoriato della neonata di Napoli morta per le sevizie subite. Non possiamo tollerare che campagne istituzionali possono usare l’immagine di un bambino che, a quell’età, dovrebbero solo stare tra le braccia della mamma e iniziare serenamente il proprio percorso di vita con la sessualità che la natura ha donato loro. Chi invece vorrebbe un pansessualismo senza limiti o un Paradiso terrestre abitato da “Adama ed Evo”, si rassegni.

 

 

 

 

IDENTITÁ E GENERE

 

 

L’ONU e l’ordine

naturale del mondo

 

 

(Dossier a cura di D.Q. Agenzia Fides 24/11/2007)

 

 

Città del Vaticano (Agenzia Fides) - “La questione del ‘genere’ è la chiave intorno a cui, da vent'anni, gira tutto il tentativo di buttare all'aria l'ordine naturale del mondo, senza darlo a vedere. Adottare una prospettiva di genere, spiega un documento dell'Instraw, un istituto che fa parte dell'Onu, significa ‘distinguere tra ciò che è naturale e biologico e ciò che è costruito socialmente e culturalmente, e rinegoziare i confini tra il naturale e la sua inflessibilità, e il sociale’. Questo comporta rifiutare l'idea che l'identità sessuale sia iscritta nella natura, nei cromosomi, e affermare che ciascuno si costruisce il proprio ‘genere’ fluttuando liberamente tra il maschile e il femminile, transitando per tutte le possibilità intermedie.”. Lo ha affermato Dale O'Leary, medico, membro della “Catholic Medical Association”, sulla rivista “Tempi” dell’8 febbraio 2007.

La vera ragion d’essere della teoria “gender”, spiega la O’Leary, è essenzialmente sul piano politico, per la sua utilizzabilità ai fini della totale normalizzazione della sessualità omosessuale. Il concetto di “gender” rappresenta infatti il primo passo per sviluppare in modo più ampio lo sganciamento dell’identità sessuale dalla realtà biologica, tanto che il “gender” incontra il suo logico sviluppo nell’approccio “queer”, cioè nella prospettiva dell’identità sessuale come scelta mobile e revocabile, anche più volte nel corso della vita dalla stessa persona. Questa metodologia non rivendica un’identità particolare, ma si propone come un movimento che rimette in discussione le identità ritenute normative. “Il travestito – scrive Judith Butler in ‘Gender Trouble’ – è la nostra verità per tutti. Rileva la struttura imitativa del genere stesso. Noi tutti non facciamo che travestirci ed è il gioco del travestimento che ce lo fa capire”. Judith Butler, filosofa, docente a Berkeley, nei suoi studi sostiene che l’identità sessuale è sempre un’invenzione, che qualsiasi richiamo alla natura è truffaldino, antiquato, socialmente e culturalmente costruito: in una parola, oppressivo e discriminatorio per definizione. In questa prospettiva, i termini “madre” e “padre” sono quasi degli  insulti, ciarpame da azzerare con definizioni meno biologicamente deterministiche, mentre la via della liberazione passa per la possibilità di costruire ciascuno il proprio “genere”.

La teoria del gender viene così utilizzata per negare la differenza biologica fra i sessi, sperando così di “renderli uguali”: si tratta dunque di una ennesima versione delle utopie egualitarie che da oltre due secoli percorrono il panorama ideologico dell’occidente. Dimenticando che si può essere differenti senza essere per forza diseguali, perché la differenza non è sinonimo di discriminazione. La differenza, infatti, non si oppone all’eguaglianza, ma alla similitudine e all’identità.

 

La teoria del ‘gender’ trasforma

in modo definitivo la cultura occidentale

 

Anche se si presenta solo come un allargamento delle identità sessuali ai fini di aumentare le possibilità di scelta individuale, la teoria del “gender”, negando la differenza sessuale, trasforma in modo definitivo la cultura occidentale, cambiando completamente l’idea di natura e di identità naturale, il concetto di famiglia e di procreazione, tutti nodi fondamentali di qualsiasi sistema antropologico.

Non è solo questione di esaudire desideri di singoli, o di gestire degli affetti, ma di riconoscere e istituire le strutture fondanti dell’essere umano; a questo fine, l’ancoraggio fisico della paternità in un corpo maschile e della maternità in un corpo femminile costituisce un dato di fatto irriducibile e strutturante da cui non si deve prescindere.

Quello che si rischia di distruggere, introducendo la neutralità del gender, è un complesso sistema simbolico e culturale: “Un sistema di parentela – scrive Lacroix in “In principio la differenza. Omosessualità, matrimonio, adozione” (Milano, Vita e Pensiero, 2006, p.102) - è un’istituzione che attribuisce a ognuno un suo spazio, definendo chi è rispetto a chi. La confusione degli spazi comporta una confusione dell’identità”.

È importante rendersi conto della vera portata di questo cambiamento prima di prendere decisioni legislative su questi problemi, e magari contribuire, anche solo in modo passivo, alla diffusione della cultura del “gender”, ha scritto Lucetta Scaraffia, Professore Associato di Storia Contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, nell’introduzione ad un quaderno che l’Associazione “Scienza e Vita” – “l’associazione che presidia la vita, dal suo sorgere sino al suo termine naturale” – ha dedicato al tema “Identità e genere”.

Del resto, non appare di secondaria importanza considerare il fatto che questa cultura - che, rifiutando l’idea che l’identità sessuale sia iscritta nella natura, nei cromosomi, afferma che ciascuno si costruisce il proprio “genere” fluttuando liberamente tra il maschile e il femminile, transitando per tutte le possibilità intermedie – ha influenzato in maniera pervasiva perfino i documenti delle organizzazioni internazionali.

 

 

 

 

 

 

 

Il pensiero “gender”:

come si sviluppa

 

A parere di Eugenia Roccella - scrittrice, ricercatrice universitaria, editorialista di “Avvenire”, co-portavoce del “Family Day” - per comprendere come sia accaduto che sui documenti degli organismi internazionali sia comparso il termine “genere”, è necessario richiamarsi al femminismo, in particolare al femminismo sviluppatosi negli Stati Uniti negli anni ’70.

In una prima fase – attraverso l’apporto di Betty Friedman, Simone de Beauvoir, Shulamith Firestone, teoriche del femminismo e dell’emancipazione della donna – nasce l’idea di un’uguaglianza e di una libertà modellate sul corpo maschile, cioè su un corpo che non genera; si tratta di una svalorizzazione o addirittura di una negazione della differenza sessuale, per assumere come oggetto del desiderio il ruolo pubblico dell’uomo, e come scopo politico l’assoluta parità sessuale e l’emancipazione.

Il pensiero “gender” si sviluppa su questi presupposti: non esiste un’unica differenza sessuale (quella maschio/femmina), ma tante differenze, legate all’orientamento sessuale, alla razza, alla cultura, alla condizione sociale; il pensiero “gender” si allarga fino a destituire totalmente di significato la dualità maschio/femmina, operando una separazione sempre più netta tra la differenza sessuale biologica e la costruzione dell’identità, sociale e psicologica.

Il fatto che a maschi e femmine venga assegnata un’identità sessuale definita in base ad alcuni caratteri anatomici è, per i sostenitori del “genere”, solo una convenzione, una costruzione culturale, a cui contribuiscono potentemente i condizionamenti messi in atto dalla società e dalla famiglia. Le sfumature possibili, tra maschio e femmina, sono molte, e la dualità dei sessi è frutto dell’imposizione di ruoli e gerarchie prefissate. La differenza maschio/femmina non ha alcun fondamento nella realtà: si tratta solo di un “discorso” connesso alle pratiche del potere e fondato sull’esclusione di chi è diverso. L’identità di genere non può essere stabile, visto che non dipende da fatti biologici, ma è fluida, relazionale, legata ai mutamenti storici, geografici, culturali, ambientali, personali e collettivi.

Questa linea di pensiero conduce inesorabilmente verso la decostruzione di ogni possibile identità femminile, derubricata a una delle mille varianti delle differenze identitarie.

Il caso più spavaldo di radicalismo tecnolibertario – a parere di Eugenia Roccella - è quello di Donna Haraway e del suo “Manifesto cyborg”, uscito negli Usa nel 1991. Il cyborg, secondo la definizione dell’autrice, è “un organismo cibernetico, un ibrido di macchina e organismo, (…) una creatura di un mondo post-genere”. Il corpo mutante del cyborg, ottenuto grazie a innesti tecnologici di ogni tipo, è la leva che scardina l’identità sessuale definita, liberandola per sempre dal condizionamento biologico e culturale: non ci sarà più l’oppressione di un sesso su un altro, perché non ci saranno più né donne, né uomini.

In conclusione, il vocabolo “genere” si presta quantomeno a interpretazioni ambigue, e la sua adozione indiscriminata da parte delle Nazioni Unite e dell’Europa contribuisce alla confusione generale. L’impressione è che da alcuni il termine sia adoperato, in campo internazionale, come una leva per scardinare l’idea tradizionale di famiglia e l’identità sessuale definita (il cosiddetto “paradigma eterosessuale”). Il concetto di genere appare come un’arma impropria che gli organismi internazionali si illudono di poter maneggiare, mentre tende spontaneamente a sfuggir loro di mano. Una volta sfondato l’argine della differenza biologica, il corpo diventa un’astrazione, qualcosa di artificiale e manipolabile.

 

La posizione della

Chiesa Cattolica

 

La Chiesa cattolica, che è entrata direttamente in questo dibattito soprattutto con la Conferenza mondiale di Pechino sulla condizione femminile (4-15 settembre 1995), ha ben chiara la diversità di posizioni esistente nell’ambito del pensiero delle donne. In occasione della Conferenza, Giovanni Paolo II scrisse una “Lettera alle donne”. In quel testo, famoso per il richiamo che il Papa fece al “genio della donna”, si affermava, tra l’altro: “Femminilità e mascolinità sono tra loro complementari non solo dal punto di vista fisico e psichico, ma ontologico. È soltanto grazie alla dualità del  ‘maschile’ e del  ‘femminile’ che l' ‘umano’  si realizza appieno”.

Questo testo - unito a quella indirizzato nel 2004 ai Vescovi “sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo”, dall’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il Card. Joseph Ratzinger, l’attuale Pontefice Benedetto XVI - delinea una posizione che dialoga con il femminismo della differenza e prende le distanze da quello emancipazionista e dalle teorie del “gender”.           

Nel testo firmato dall’allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, si legge, tra l’altro: “Per evitare ogni supremazia dell'uno o dell'altro sesso, si tende a cancellare le loro differenze, considerate come semplici effetti di un condizionamento storico-culturale. In questo livellamento, la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è sottolineata al massimo e ritenuta primaria. L'oscurarsi della differenza o dualità dei sessi produce conseguenze enormi a diversi livelli. Questa antropologia, che intendeva favorire prospettive egualitarie per la donna, liberandola da ogni determinismo biologico, di fatto ha ispirato ideologie che promuovono, ad esempio, la messa in questione della famiglia, per sua indole naturale bi-parentale, e cioè composta di padre e di madre, l'equiparazione dell'omosessualità all'eterosessualità, un modello nuovo di sessualità polimorfa”.

Nel documento, la differenza sessuale è interpretata “come realtà iscritta profondamente nell’uomo e nella donna: la sessualità caratterizza l’uomo e la donna non solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico e spirituale, improntando ogni loro espressione. Essa non può essere ridotta a puro e insignificante dato biologico, ma è una componente fondamentale della personalità, un suo modo di essere, di manifestarsi, di comunicare con gli altri, di sentire, di esprimere e di vivere l’amore umano” .

La Chiesa riconosce come, alla base di ogni esperienza umana, ci sia quella di nascere sessuati: questione che nel pensiero della differenza ha un peso fondamentale.

  

 

È QUESTA LA FAMIGLIA DEL FUTURO CHE CI PREPARANO???

  

ALLORA NOI DICIAMO NO! PAROLA D'ORDINE: RESISTERE...

 

 

 

 

Lo sforzo delle Nazioni Unite:

 cancellare dai documenti ogni parola

 sessuata, riferita alla distinzione

tra maschile e femminile

 

Ad ogni appuntamento delle Nazioni Unite sui temi della donna, della procreazione e della sessualità, si discutono ferocemente questioni che ai profani possono apparire come inessenziali modifiche terminologiche, e che invece, se recepite, aprirebbero squarci profondi nella faticosa costruzione di un quadro etico condiviso.

La battaglia delle parole si articola in alcune riconoscibili modalità d’intervento. Basta accennare al fatto che la trasformazione agisce in più direzioni, di cui la più clamorosa e significativa è quella che tende a cancellare ogni parola sessuata, riferita cioè alla distinzione tra maschile e femminile. Il vocabolario adottato deve essere “gender neutral”, quindi non deve contenere, nemmeno implicitamente, la temuta differenza sessuale. I termini “madre” e “padre” sono stati abbandonati in favore di “progetto parentale” o “genitorialità”. Anche il termine “maternità” è bandito dal nuovo linguaggio delle burocrazie internazionali, sia all’Onu che nell’Unione europea, così come il vocabolo “procreazione”. Meglio la definizione “diritti riproduttivi”, dove – come argomenta Eugenia Roccella - il sostantivo “diritto” dovrebbe riscattare la sgradevole piattezza dell’aggettivo, “riproduttivo”, schiacciato sul biologismo; un aggettivo che richiama la riproduzione dell’identico, quindi della specie, e non dell’individuo, il quale, per fortuna, rimane (ancora) dotato della sua fragile irripetibilità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Rivoluzione della filiazione”

 

Per la cosiddetta “Agenda di genere”, per la “teoria del gender”, che considera vecchie e discriminatorie le definizioni “sesso maschile” e  “sesso femminile”, le madri sono in qualche modo imbarazzanti. Del resto, forse non è un caso che il documento preparatorio della Conferenza dell’Onu di Pechino “non contenesse – come ha scritto  O’Leary – un solo programma per donne che sono madri o casalinghe a tempo pieno”. “L’unico modo per salvare il mondo è l’eliminazione della maternità”, ha scritto Jane Flax, un’altra sostenitrice del gender. Oppure, ed è quello che sta avvenendo, l’annegamento della maternità in una miriade di nuove forme legalmente riconosciute che frantumano la filiazione e la attribuiscono, con espedienti giuridici, ai più vari soggetti desideranti.

Quel che sta avvenendo nel mondo, viene chiamato, in un rapporto uscito lo scorso anno di un’organizzazione indipendente americana, la “Commission on Parenthood’s Future”, “rivoluzione della filiazione” (il titolo originale del rapporto è “Revolution in parenthood. The emerging global clash between adult rights and children’s needs”, a cura di Elizabeth Marquardt). Lo studio prende in esame le legislazioni familiari nel mondo, i modi in cui negli ultimi anni sono stati ridisegnati i ruoli genitoriali e segnala “il conflitto mondiale emergente tra i diritti degli adulti e i bisogni dei bambini nelle nuove definizioni dello statuto parentale”.

In particolare, nel rapporto si sottolinea come “il modello che prevede due persone, una madre e un padre, è oggetto di cambiamenti finalizzati ad assicurare il diritto degli adulti alla procreazione, anziché a tutelare il bisogno dei bambini di conoscere la propria madre e il proprio padre, e di essere da essi allevati”.

Un giudice spagnolo di Algeciras ha stabilito che in una coppia lesbica unita in matrimonio ha diritto a essere riconosciuta automaticamente come madre non solo la donna che ha partorito un bambino da fecondazione artificiale, ma anche l’altra, che fino a oggi doveva ricorrere all’adozione.

 

 

 

 

 

 

 

La situazione europea rispetto al

matrimonio e alla genitorialità

 

Sono tre i Paesi europei in cui è possibile celebrare le nozze indifferentemente dal sesso delle persone che intendono sposarsi. L’Olanda, che consente tale possibilità dal 2001. Sulla scia olandese, il Belgio nel 2003 e la Spagna nel 2005. Le nozze civili tra due persone indipendentemente dal loro sesso sono dunque una possibilità molto rara in Europa (quanto al matrimonio religioso, dal 1997 i Vescovi della Chiesa Luterana Danese, Chiesa di Stato, celebrano le nozze tra persone dello stesso sesso).

Diverso è il caso della registrazione di coppie di fatto formate - oltre che da donne e da uomini – da  donne e donne, o da uomini e uomini. Il primo paese europeo ad aver previsto una “registrazione di partnership” con valore legale per le coppie gay è stata la Danimarca nel 1989. Da questa data infatti vengono loro riconosciuti gli stessi diritti spettanti alle coppie eterosessuali in materia di alloggi, pensioni, immigrazione, eredità, assicurazioni, benefici sociali, riduzioni delle tasse, sussidi di disoccupazione e via dicendo, prevedendo altresì il pagamento degli alimenti in caso di separazione.

Tra il 1993 e il 1994 sono state quindi la Norvegia e poi la Svezia ad aver riconosciuto alle coppie omosessuali la possibilità di registrare la loro relazione, introducendo anche qui una parità di diritti e di doveri con le coppie eterosessuali. Nel 1996 è la volta dell’Ungheria e dell’Islanda. Contestualmente il paese nordico, primo ordinamento al mondo, ha garantito alle coppie dello stesso sesso il diritto di tutela comune per i bambini nati da precedenti unioni di uno dei partner (l’Ungheria aveva invece escluso espressamente l’adozione). La legge del 13 ottobre 1999 ha quindi introdotto in Francia i pacs (patti civili di solidarietà), una normativa che regolamenta le coppie di fatto, omosessuali o eterosessuali che siano. Registrazioni sono similmente in vigore in Finlandia, Germania, Croazia, Lussemburgo, Repubblica Ceca, Slovenia e Regno Unito.

A limiti temporali fanno quindi riferimento alcuni ordinamenti; la legge croata richiede che la coppia omosessuale coabiti da almeno 3 anni prima di riconoscerle gli stessi diritti previsti per quelle eterosessuali (compreso il diritto di eredità e l’obbligo di sostegno economico), mentre in Portogallo diritti legali e riduzione delle tasse sono riconosciuti solo agli omosessuali che convivano da più di 2 anni.

Il primo paese europeo ad aver previsto l’adozione per gli omosessuali è stata la Norvegia nel 1993: da quando cioè è stata data alle coppie omosessuali la possibilità di registrare le loro relazioni, si è prevista anche l’adozione. Il modello è stato presto esportato, e oggi possono adottare le coppie omosessuali in Olanda, Inghilterra, Galles, Spagna, Belgio, Scozia, Svezia e Finlandia. C’è però una differenza molto importante tra queste leggi. Mentre le prime cronologicamente emanate prevedono l’adozione solo all’interno dei confini nazionali, il che significa solo dei bambini “autoctoni”, onde evitare conflitti con i paesi degli adottandi (come spiega la legge olandese), recentemente sono state emanate nuove disposizioni che travalicano gli ostacoli geografici. È stata la Svezia il primo paese a permettere alle coppie dello stesso sesso di adottare bambini provenienti da tutto il mondo, possibilità espressamente introdotta nel 2005, modificando la legge che dal 2003 prevedeva per loro solo l’adozione di bambini svedesi.

Altri paesi hanno invece introdotto la cosiddetta “adozione del figliastro”: gli omosessuali possono cioè diventare genitori solo adottando i figli del proprio partner. Così in Islanda, Germania e Danimarca. Anche qui però delle differenze: se in Germania possono essere adottati dal partner i figli nati da precedenti unioni, i figli naturali e quelli nati con inseminazione artificiale, in Danimarca ciò riguarda soltanto i figli nati da precedenti unioni.

“Da tempo – sottolinea Giulia Galeotti, storica e saggista, nel quaderno di “Scienza e Vita” intitolato a “Identità e genere” - gli organi europei hanno una seria preoccupazione: l’esclusione dal matrimonio e dalla facoltà genitoriale per le coppie dello stesso sesso”. I progressi che si auspicano nelle legislazioni nazionali attraverso risoluzioni, raccomandazioni, pronunciamenti, direttive e quant’altro sono così di permettere agli omosessuali di sposarsi e di avere dei figli, o adottandoli o ricorrendo alle tecniche di fecondazione assistita.

Il tipo di riforma legislativa auspicata è ben rappresentato dalle modifiche recentemente introdotte in tre norme del codice civile spagnolo. La vecchia formulazione dell’articolo 44 infatti, quella secondo cui “l’uomo e la donna hanno diritto a contrarre matrimonio” è diventata “qualunque persona ha diritto a contrarre matrimonio”; l’articolo 66 è invece passato da “il marito e la moglie sono eguali nei diritti e nei doveri” a “i coniugi sono eguali nei diritti e nei doveri”; l’articolo 67 infine ha sostituito “il marito e la moglie debbono rispettarsi e aiutarsi reciprocamente” con “i coniugi”, ai quali ora questi stessi doveri sono imposti. Chiaramente, il passaggio è quello da una coppia formata da un maschio e da una femmina, ad una coppia di persone, tout court, uomo e donna, uomo e uomo, donna e donna; indifferentemente, stessi diritti, doveri, facoltà, potenzialità e aspettative.

 

La “pressione” esercitata dall’Unione Europea

tende a modificare la concezione di famiglia

come viene tradizionalmente intesa

 

Un esempio concreto può aiutare a comprendere il tipo di pressione che la Unione Europea (UE) va esercitando, una pressione che mira a modificare – ricorrendo agli strumenti giuridici di cui l’Unione dispone – la concezione di famiglia così come viene tradizionalmente intesa.

In passato, la Corte di Giustizia ha spesso ribadito che il diritto di movimento è un diritto fondamentale dei cittadini europei a prescindere dalle ragioni per cui il singolo decida e scelga di vivere in un altro Stato rispetto al proprio. Di conseguenza, nel 2001 la Commissione ha voluto sostituire la varietà di norme settoriali esistenti in materia (relative a lavoratori, studenti e via dicendo) con una singola direttiva che indicasse le condizioni in presenza delle quali il cittadino UE potesse spostarsi in un altro stato membro, prendendovi la residenza. I negoziati sono durati più di due anni, un ritardo che si deve anche all’emersione del problema di definire cosa si dovesse intendere per famiglia di un cittadino europeo. Fino ad allora infatti, le norme sulla libertà di movimento dei lavoratori (per fare un esempio) intendevano lo sposo o la sposa del soggetto interessato e i loro figli. Nel caso Reed v. Netherlands (59/85) la partner non sposata di un inglese che lavorava in Olanda aveva rivendicato il suo titolo di residenza nel paese nordico, basando la richiesta sul suo diritto di essere legalmente trattata come la sposa legittima del lavoratore. La Corte aveva però respinto tale lettura con la motivazione che la definizione di moglie si applica solo a chi è legata in legittimo matrimonio. Sulla base di queste indicazioni, molte associazioni nazionali e internazionali di gay, lesbiche, bisessuali e transgender (tra cui la potente “ILGA-Europe, International Lesbian and Gay Association”) hanno fatto grandi pressioni presso la UE perché la definizione di famiglia nella direttiva in esame fosse “inclusiva”, una pressione che però – a loro avviso – non sarebbe andata a buon fine giacché, in barba al formale sostegno ricevuto dal Parlamento, il testo finale della direttiva sarebbe stato un tremebondo compromesso.

Di questa direttiva del 2004 sulla libertà di movimento delle persone nel territorio dell’Unione, per evidenziare le pressioni che si intendono operare, interessano in particolare gli articoli che definiscono i membri della famiglia legittimati ad accompagnare un cittadino UE in un altro stato membro.

Quanto alla definizione dei partner sposati, se l’articolo 2(2) spiega che “membri della famiglia significa (…) la sposa o lo sposo”, il preambolo della direttiva afferma con chiarezza che “gli Stati membri dovrebbero applicare la direttiva senza discriminazione quanto ai suoi beneficiari in relazione a (…) l’orientamento sessuale”. Ora è vero che il preambolo non è legalmente vincolante per gli ordinamenti, ma le indicazioni in esso contenute potrebbero venire utilizzate dalla Corte di Giustizia nel guidare l’interpretazione della direttiva. Sarebbe infatti molto facile sostenere che intendere la dizione di sposo o di sposa come riferita solo alle coppie eterosessuali rappresenterebbe una chiara discriminazione in relazione alle scelte sessuali del singolo, specie in relazione ai tre paesi che prevedono il matrimonio omosessuale. Se infatti finora i pronunciamenti della Corte sono stati simili a quello di D and Sweden v. Council (122/99) in cui i giudici hanno affermato che stando alla definizione “generalmente accettata dagli Stati membri” il termine matrimonio include le nozze tra persone di sesso diverso, si tratta però di decisioni che risalgono a quando nessuno Stato membro ammetteva i matrimoni tra omosessuali.

Passando ai partner di fatto, la direttiva riconosce un diritto di movimento anche per queste coppie. L’articolo 2(2)(b) definisce il membro della famiglia come “il partner con cui il cittadino UE ha concluso un accordo in base alla legislazione interna dello Stato membro, se lo Stato ospitante parifica coppie di fatto e matrimonio”. Questo significa che il partner di una coppia di fatto può avvalersi del diritto di movimento se ha concluso un patto di riconoscimento in uno Stato membro e se il paese in cui ci si vuole trasferire parifica nella sua legislazione coppie di fatto e matrimoni. Un problema non marginale risulta così essere quello di capire se vi sia e cosa preveda la registrazione del legame nel singolo paese giacché le legislazioni nazionali differiscono non poco in materia. Se nessun problema si pone laddove ci si muova tra Danimarca, Gran Bretagna e Spagna, più complesse possono essere le cose già solo se si voglia andare in Francia, la cui legislazione non parifica tout court pacs e matrimonio (ad esempio, la coppia del pacs non può adottare).

Al di là di ciò che vige nel singolo ordinamento, alla luce del fatto che la direttiva parli del dovere dello Stato di facilitare l’ingresso del partner riconosciuto ma non sposato, anche negli ordinamenti che non prevedono un riconoscimento per le coppie di fatto sarà più difficile negargli totalmente l’ingresso. Lo Stato che riceve la domanda della coppia dovrà dunque esaminarla con estrema attenzione – anche in virtù del testo della direttiva che parla di una “relazione durevole” e “debitamente attestata” – e dovrà quindi fornire una giustificazione strutturata e argomentata in caso di rifiuto.

Il fatto che in base alla direttiva il diritto di movimento si applichi anche ai discendenti pone un altro problema non marginale: lo Stato ospitante deve riconoscere il diritto del figlio di una coppia di omosessuali laddove la sua legislazione interna non preveda questa forma di genitorialità? Al di là della posizione del minore che va evidentemente difesa, lo scoglio concettuale è ragguardevole.

Immaginiamo il caso di una coppia di sposi omosessuali spagnoli che si trasferisca in Grecia per lavoro. E immaginiamo che qui la legge nazionale – che non riconosce tali unioni – preveda un regime fiscale vantaggioso per le coppie sposate rispetto alle non sposate. Ebbene, giacché l’articolo 24(1) della direttiva stabilisce che i cittadini UE devono ricevere lo stesso trattamento riconosciuto ai cittadini dello Stato ospitante, il nodo da sciogliere è se la legge greca si applichi anche alla coppia omosessuale legalmente maritatasi in Spagna.

A parere di Giulia Galeotti, in queste spinte e sollecitazioni della UE non è difficile ravvisare una forzatura del diritto comunitario. In base ad esso infatti la famiglia e la sua definizione giuridica sono temi e questioni proprie del singolo Stato membro.

La discrasia tra l’atteggiamento della UE e il sentire della maggioranza degli Stati aderenti è emersa con chiarezza in relazione alla sottoscrizione della “Doha Declaration”. Nel febbraio 2005 infatti, l’Olanda, all’epoca presidente di turno, ha schierato l’Unione contro una risoluzione ONU in difesa della famiglia, la “Doha Declaration” appunto, presentata dal governo del Qatar e approvata nel dicembre 2004 dall’Assemblea Generale per consensus. Il testo, emanato in occasione dell’anno internazione della famiglia, ribadiva i principi espressi nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che prevedeva un nucleo domestico con una coppia e, conseguentemente, dei genitori di sesso diverso. Ebbene, questa impostazione sollevò due proteste ufficiali avanzate da olandesi a nome dell’“European Union Group”, che include gli Stati associati. L’una era di Peter-Derrick Hof,  il quale sosteneva che, essendo le famiglie e le strutture familiari cambiate nel corso degli anni, si rendeva necessaria la dissociazione della UE da un testo e da una visione ormai superati. L’altra era invece di Dirk Jan Van Den Berg, secondo il quale gli Stati non possono più riconoscere quel vecchio modello che, alla luce dei cambiamenti occorsi, introduce inaccettabili discriminazioni basate sull’orientamento sessuale. Il risultato è stato il ritiro dell’adesione UE alla dichiarazione in esame. Alla luce dell’analisi condotta sulle legislazioni vigenti in quegli Stati membri (che non sono la totalità) che ammettono delle aperture in tema, risulta evidente come la presa di posizione olandese non trovasse effettivo riscontro.

“Quest’ottica paritaria tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali di cui si fa portavoce l’Unione – sostiene la Galeotti - non è infatti così diffusa, o lo è con una serie di distinguo. Ad esempio, nonostante quello che si vuole sostenere, la possibilità di adottare il figlio del proprio partner omosessuale è un caso particolare, e non significa asserire il principio generale per cui la genitorialità può essere costruita a prescindere dal sesso dei genitori”.

 

 

 

 

 

 

 

La Chiesa vista come

“il nemico”

 

In un testo presentato da Mons. Jacques Arenes, il 4 novembre 2006, in occasione dell’Assemblea della Conferenza Episcopale Francese, tra l’altro si legge: “La gender theory si diffonde sempre più nei mass media e nel dibattito pubblico a causa della visione politica della sessualità e in relazione all’attivismo gay. In questa dimensione militante, la Chiesa, ma anche alcuni approcci antropologici come quelli della psicoanalisi o dello strutturalismo, appaiono come ‘il nemico’, guardiani di tradizioni limitanti”.

Monsignor Arenes spiega che per il mondo cristiano, ma soprattutto per quanti considerino la differenza un vettore di senso e di umanizzazione, appare urgente riflettere su un approccio del maschile e del femminile depurato delle antiche gerarchie e aggiunge che “la ‘norma’ eterosessuale non è solo statistica o generata dall’oppressione. È l’espressione collettiva di singolarità che si realizzano nell’alterità che è loro data”. Invita a considerare l’omosessualità un dramma, un dramma che non è semplicemente il risultato dell’omofobia generale, ma di una difficoltà e di una sofferenza esistenziale e psichica e “a riabilitare una forma di memoria in cui i dati sono prodotti da un mondo in cui la differenza dei sessi aveva, e ha ancora, un senso, separandoli da una finalità gerarchica”. Monsignor Arenes ritiene che la riflessione sulla mascolinità sia fondamentale: “nella nostra cultura – afferma Arenes - il maschile è decostruito, pertanto deve essere ridefinito. Cos’è il soggetto maschile nel suo rapporto con il tempo, le donne, gli altri uomini, l’ereditarietà, la trascendenza? Che ne è di un soggetto maschile in una cultura in cui l’uguaglianza tra uomini e donne non è più da rimettere in discussione? Può nell’esistenza radicarsi qualche cosa di diverso da un patto di sradicamento del femminile o una posizione depressa di fronte all’evidenza del femminile?”.

L’ascolto, l’accoglienza, la valorizzazione delle relazioni per quanto riguarda il femminile non sono necessariamente passività o sottomissione, secondo Monsignor Arenes, che sostiene: “La tensione al di fuori di sé, la fame di spazio, l’amore per il linguaggio sociale per quanto riguarda il maschile non sono soltanto l’espressione di una verticalità schiacciante, e non sono incompatibili con una forma d’accoglienza e d’ascolto dell’altro. Queste polarità, maschili e femminili, non escludono gli avvicinamenti, e nemmeno le incursioni nel territorio dell’altro. Sono flessibili, e generano differenziazioni non riduttive e limitanti. Sono fonte di vita”. Monsignor Arenes si chiede: se oscillassimo in un mondo in cui esistesse solo l’autodefinizione per ciascuno dei percorsi singolari del genere, che ne sarebbe del rapporto con la sessuazione? “Da un lato – sostiene - può svilupparsi sempre di più la ricerca travolgente dei piaceri, in una perdita irrimediabile dell’incontro; dall’altro, di fronte al modello eterosessuale, si può arrivare ad un inasprimento di quella che è stata definita la guerra dei sessi. In quest’ultimo caso, che spesso si verifica nelle separazioni, il mondo dell’altro sesso diventa globalmente oggetto di odio o di scherno”.

Alla fine testo, Monsignor Arenes prende in considerazione un’altra possibilità suggestiva: “reinventare un gioco vivente della differenza, tenendo conto della libertà attuale, differenza che non sarebbe più percepita come imposta da una verticalità istituzionale, ma dovrebbe venire rinnovata come oggetto da ricreare da parte delle donne e degli uomini. Questo gioco dinamico della differenza permetterebbe senza dubbio di ritrovare ciò che oggi, in parte, è andato perduto”.

 

 

Intervista a Lucetta Scaraffia, Professore Associato di Storia

 Contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, Vice-Presidente

dell’Associazione Scienza e Vita, membro del Comitato Italiano di Bioetica.

 

Può spiegare in che modo la teoria del "gender" tende a trasformare radicalmente - come Lei ha affermato - la cultura occidentale?

Perché per la prima volta una tradizione culturale sostiene che l’umanità è un insieme di individui indifferenziati, invece di accettare la realtà,  cioè che è costituita da due identità sessuali diverse, e proprio per questo fertili. Non c’è mai stata nessuna civiltà che ha negato questa evidenza, e negarla significa costruire una società sulla menzogna, significa dire che non c’è bisogno di questa differenza per procreare, e quindi per prolungare nel tempo un gruppo umano.

 E' d'accordo con chi ritiene che il termine "genere", adottato in maniera indiscriminata nei documenti delle Nazioni Unite e dell'Unione Europea, sia adoperato come una leva per scardinare l'idea tradizionale di famiglia e l'identità sessuale definita?

Sono d’accordo. Anche se spesso chi usa il termine “gender” lo fa senza sapere l’ideologia ad esso sottesa, ma solo perché pensa che è più elegante di differenza sessuale. Adottando “gender” si diffonde l’idea che non ci siano due identità sessuali ma una situazione di indeterminatezza, cosicché ciascuno può decidere a quale sesso appartenere. L’idea è che l’identità sessuale sia completamente svincolata dalla realtà biologica del corpo, ma debba corrispondere solo al desiderio individuale.

 Perché la questione di "nascere sessuati" ha grande rilevanza nel "pensiero della differenza"? Che cos'è il "pensiero della differenza"?

Il pensiero della differenza è quello che contraddistingue una corrente femminista che – invece di cercare di uniformare le donne al modello maschile – chiede che venga valorizzata la loro differenza. Il contrario del “gender”, quindi.

Dale O'Leary afferma che la ragion d'essere della teoria del "gender", è essenzialmente sul piano politico, per la sua utilizzabilità ai fini della totale normalizzazione della sessualità omosessuale. E' d'accordo?

Non del tutto. La teoria del “gender” è nata come funzionale al movimento femminista: se non c’è differenza sessuale, se non ci sono diversità fra gli esseri umani, tutti sono uguali, quindi non ci sono ragioni per negare alle donne l’emancipazione. E’ stato come se, invece di chiedere uguali diritti nella diversità si volesse negare la diversità per fondare l’uguaglianza dei diritti. Dopo le donne, certo, sono venuti gli omosessuali, che avevano il problema di una identità svalorizzata da cui liberarsi. E, attraverso il “gender”, ci sono riusciti.

Se la teoria del "gender" introduce un cambiamento così profondo, perchè, a Suo avviso, se ne parla così poco, almeno rispetto alla sua finalità, nel dibattito politico e culturale?

Perché molti non sanno, non sono consapevoli, del pericolo che comporta. Ma anche perché combattere la teoria del gender significa essere considerati ignoranti, fuori dal mondo, ottusi conservatori, e molti non hanno voglia di pagare questo prezzo per dire la verità.

Esiste, a Suo avviso, la possibilità di arginare gli effetti che appaiono così devastanti della teoria del "gender"?

Dicendo la verità, spiegando sempre cosa significa, e denunciando la menzogna che è nascosta dietro alle richieste degli omosessuali di sposarsi, avere figli, ecc.  Non si tratta di matrimonio, perché il matrimonio c’è solo per le coppie di sesso diverso – le uniche potenzialmente fertili -  e non ci sono figli di due persone dello stesso sesso: al massimo, di una delle due. L’idea di famiglia che viene imposta a questi bambini è sbagliata, è falsa. E vivere nella falsità li danneggia, inibisce il loro sviluppo psichico dalla prima infanzia.

 

 

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