GLORIA PELIZZO:

UN ANGELO IN CAMICE BIANCO

 

(a cura di Claudio Prandini)

 

 

«Tante volte il meglio viene da chi, magari perché fragile, è più emarginato.

 Ho imparato che è proprio lui e o lei, quello “scartato” che diventa la “pietra miliare”».

 

 

INTRODUZIONE

Le note del violino per il risveglio dei bimbi operati

 

San Matteo, il progetto da settembre in Chirurgia pediatrica

Bach e Mozart dal vivo suonati in una stanza speciale

Fonte web

Ogni bambino ha diritto a un dolce risveglio. Ancora di più quando è malato. Sulle note di Bach e Mozart, modulate dal vivo da violino, violoncello e chitarra, apriranno gli occhi i piccoli pazienti della Chirurgia Pediatrica del San Matteo che lancia il progetto “Accompagna il suo risveglio”. Sarà la musica a stemperare il delicato momento in cui il bambino esce dal torpore, riapre gli occhi mentre l’anestesia si dissolve e cerca un volto o un luogo rassicuranti. Non ci saranno i pupazzi e le pareti della sua cameretta ma troverà comunque i colori e le immagini di una stanza speciale, chiamata recovery room, all’interno delle sale operatorie del reparto. Un luogo a misura di bambino, con personale dedicato e quattro letti con attrezzature all’avanguardia. Ma soprattutto la musica che, spiega il primario la professoressa Gloria Pelizzo, «è un elemento importante per abbattere lo stress-post intervento e per tutelare la sfera emotiva, affettiva e relazione dei nostri piccoli pazienti».

La camera del risveglio è quasi pronta. Un cittadino, che vuole rimanere anonimo, ha donato un impianto di filodiffusione che è già stato installato. E che garantirà, a partire da settembre, l’esperienza della musica classica al termine di ogni intervento. «Ma una volta a settimana la musica sarà eseguita dal vivo, grazie agli studenti del Conservatorio» spiega il primario. Accordi sono in corso anche con l’istituto Vittadini di Pavia. E sono stati proprio due pavesi, Gianpaolo Bovio alla chitarra e Marta Fornasari al violoncello, a sperimentare il primo emozionante concerto dal vivo con un bimbo di pochi mesi, uscito dalla sala operatoria del reparto pavese. Hanno posato per la foto usata come testimonial del progetto, con cui si chiede aiuto alla città: una donazione per completare la recovery room ideata dal San Matteo e dalla fondazione Soleterre onlus. «E’ stato un momento molto emozionante – racconta Gianpaolo Bovio – si è creata un’atmosfera, un’energia positiva che ha contagiato tutti, noi musicisti, il fotografo, il personale della clinica. E il bambino sembrava tranquillizzato». Il chitarrista ha improvvisato un accordo, la violoncellista l’ha seguito con altre note basse. Nessuna partitura in quell’occasione ma una melodia dolce, per svegliare il piccolo con naturalezza.

«La musica stimola a livello cerebrale la ripresa, secondo le neuroscienze mette in comunicazione i due emisferi» riflette Bovio. Questo progetto nasce del resto con un proposito scientifico: «Lo scopo è valutare gli effetti della musica sulla risposta allo stress post intervento, monitorando le risposte del sistema endocrinologico e nervoso, la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa – spiega la professoressa Pelizzo –. La musica , in particolare quella classica di Bach e Mozart ma ci sono stati segnalati dai musicologi anche alcuni Brani di Verdi, potrebbe essereun ausilio terapeutico non farmacologico in grado di diminuire la reazione allo stress, agendo su entrambe i sistemi di risposta dell’organismo».

 

 

 

 

Salva i bimbi non ancora nati

facendosi aiutare dai detenuti

 

La chirurga dei feti: “Volevo smettere, ma una sconosciuta mi curò per ore

dopo un incidente e mi spronò: Non molli, il bene torna sempre indietro“.

Fonte web

Se in Olanda i giudici consentono che i neonati con la spina bifida vengano ammazzati appena partoriti, a che serve tutto quello che fa Gloria Pelizzo? A che serve salvare una vita prima ancora che sia nata? A che serve incidere l’utero di una gestante, tagliare il sacco amniotico, aspirare il liquido e conservarlo, estrarre un esserino di 22 settimane, riparargli il difetto congenito, rimettere il bimbo nella pancia della mamma, reintrodurre il liquido nell’amnio, ricucire il tutto e attendere con fiducia il giorno del parto?

C’è qualcosa di stupendamente insensato in tutto ciò che fa questa donna, dal 2010 direttrice della struttura complessa di chirurgia pediatrica del Policlinico San Matteo di Pavia, dopo sei anni passati nella clinica dell’Université Claude Bernard a Lione, quattro all’hôpital de la Timone a Marsiglia, uno e mezzo all’hôpital universitaire Necker-Enfants malades di Parigi, uno all’ospedale Santa Chiara di Trento, sette al Sant’Anna di Ferrara, due all’Asl Medio Friuli di Udine, dieci all’Irccs materno infantile Burlo Garofolo di Trieste, prima di approdare qui nel capoluogo lombardo. Qualcosa di unico in Italia, all’avanguardia in campo scientifico: un progetto di ricerca sulla chirurgia fetale, con una dozzina d’interventi chirurgici già all’attivo, metà dei quali eseguiti a cielo aperto e metà con una tecnica laparoscopica mininvasiva (cioè senza bisogno del bisturi) per correggere nei nascituri malformazioni gravissime, come la spina bifida appunto. In tal modo la professoressa Pelizzo riduce l’incidenza dei casi d’idrocefalo, blocca la discesa del cervelletto, evita le complicanze operatorie, assicura un migliore controllo degli arti inferiori: questi bambini un giorno potranno camminare.

Certo, i colleghi di Amsterdam le diranno che sarebbe meglio ucciderli. Ma Gloria Pelizzo, originaria di Udine, sposata con Ezio, libero professionista, madre di Jacopo, 23 anni, e Sofia, 13, un volto radioso che ricorda quello dell’attrice Helen Mirren di The Queen ma con tre lustri di meno, fa tante altre cose che non dovrebbe fare. Per esempio ammette nel suo reparto cani e gatti affinché tengano compagnia ai piccoli degenti. Oppure chiama gli studenti del conservatorio di Pavia a suonare il violino e il violoncello nei corridoi, «perché la musica ha uno straordinario potere calmante, dà senso di benessere e limita gli sbalzi di pressione nelle prime due ore dopo l’intervento chirurgico, al risveglio dall’anestesia generale».

E poi ne ha combinata un’altra di davvero molto grossa: ha aperto le porte della struttura di chirurgia pediatrica ai galeotti. Gente come Michele, Cristiano e Raffaello, che stanno scontando la pena nel carcere di Torre del Gallo: detenuti in regime di semilibertà che vengono a rendersi utili. Alcuni tornano anche dopo aver saldato il loro debito con la giustizia. È il caso di Gabriele Albergati, detenuto per furto fino al 2013, che è un po’ diventato la mascotte di medici e infermieri. Il giorno dopo essere uscito di prigione, era già qui, «per riconoscenza verso Gloria», spiega, «che ogni settimana veniva a trovarci in cella». In otto mesi di duro lavoro, senza l’aiuto di nessuno, ha ritinteggiato tutte le 10 camere del reparto. Altri suoi ex compagni di sventura, come Maurizio, Ivano, Hassan, Luigi, Francesco e Pietro, condannati all’ergastolo o a pene pesanti per reati talmente gravi (omicidio, associazione per delinquere di tipo mafioso, rapina a mano armata) da non poter usufruire mai dei permessi d’uscita, si prendono cura a distanza dei 22 ricoverati scrivendo poesie o cuocendo dietro le sbarre Gli Amicotti, gli unici biscotti italiani in vendita a scopo di beneficenza con un ricetta che contempla come primo ingrediente «2 decilitri di bontà», così c’è scritto sulla confezione.

Sono stati loro, i carcerati, a scegliere l’immagine di copertina per Oltre la cura? oltre le mura, il libro che Gloria Pelizzo ha scritto per l’editore Cantagalli con Valeria Calcaterra, arricchito dai contributi di alcuni dei tanti estimatori che l’intrepida chirurga conta in giro per l’Italia: Aldo, Giovanni e Giacomo, Pupi Avati, Rita Borsellino, Carlo Rossella. Nella foto si vedono spuntare da un telo ospedaliero i piedi di mamma Katia, sposata con Fabio, come si evince dal nome tatuato fra caviglia e malleolo. In mezzo, i piedini di Carletto all’età di 8 mesi. «Ha già subìto otto o nove operazioni, ormai ho perso il conto, per un danno viscerale riportato alla nascita», spiega la professoressa Pelizzo. «Non poteva alimentarsi. Gli abbiamo recuperato l’intestino centimetro per centimetro. Ora ha 2 anni. Mangia, cresce e sta benissimo».

Perché ha scelto di fare il medico?
«Non l’ho scelto. Mi sono ritrovata a farlo a 8 anni. Mia madre Noemi divenne paraplegica da un giorno all’altro. Non s’è mai capito perché. Per 48 mesi rimase invalida. Mio padre Angelo, camionista, era sempre in giro per l’Italia. Così, prima di andare a scuola, toccava a me alzare dal letto la mamma, lavarla, vestirla, prepararle la colazione. Lo stesso dovevo fare con mio fratello Loris, che aveva 6 anni. L’accudimento ce l’ho nel sangue. Ma papà non voleva che studiassi da medico. Al massimo per lui potevo diventare infermiera, forse caposala».

Si sbagliava.
«Quando a 18 anni gli annunciai che volevo iscrivermi a medicina, ricevetti un manrovescio. Per lui era una carriera che avrebbe potuto intraprendere solo un maschio. Andai di nascosto all’ateneo di Ferrara, partendo da Udine alle 4 di mattina. Le 40.000 lire per le tasse universitarie me le diede Ezio, da poco mio fidanzato, idem le 6.800 per il biglietto del treno. Tornai e informai mio padre. Mi disse: Quella è la porta!».

Come mai scelse proprio Ferrara?
«Gli iscritti al corso erano appena 60 e io dovevo avere la certezza d’essere ben seguita per potermi laureare in fretta. Il mio primo maestro fu Paolo Georgacopulo, triestino di religione ortodossa, padre greco, madre austriaca. Un gigante. Oggi ha 81 anni. Prima di operare, mi chiedeva: Ma è battezzato questo bambino?. Non sapevo che cosa rispondergli. Allora lui mi diceva: Venga, mi serve una madrina. Portava il piccolo sotto il rubinetto, gli bagnava il capo e lo battezzava. La sua prima cura era abbracciare i bimbi. Li visitava stando in ginocchio. Ho imparato da lui a fare lo stesso. Se ti metti all’altezza del loro sguardo, percepisci cose che un adulto non vede».

Un altro maestro l’ha avuto a Lione.
«Sì, Jean Paul Chappuis, ancora più severo di Georgacopulo, tanto che noi studenti lo chiamavamo L’Orso. Un tecnico sopraffino nella chirurgia neonatale, dotato di un’umanità infinita. Se un bambino non mangiava, era capace di chiudersi con lui per ore nello studio, sicuro che alla fine lo avrebbe convinto ad alimentarsi. Ha parlato con il paziente prima di addormentarlo?, m’interrogava sull’uscio della sala operatoria. Certo, professore, ho fatto l’esame obiettivo, è tutto in ordine, rispondevo. Non m’interessa la cartella clinica. Io voglio sapere se l’ha ascoltato, non se l’ha auscultato! Che cosa le ha detto? Che sensazioni provava? Era tranquillo o impaurito? Gliel’ha chiesto, questo?. Chappuis sapeva che i bambini, quando non si sentono amati, smettono di lottare. Tagliare un fanciullo è un atto violentissimo, orribile. Puoi farlo solo se ti sei guadagnato la sua totale fiducia».

Ma i suoi allievi sono disponibili a questo contatto umano?
«Non tutti. Ho chiesto a uno specializzando se fosse disposto a seguire un’urgenza. Ha rifiutato: era atteso a un happy hour. Gli ho spiegato che era meglio se si concedeva l’aperitivo tutte le sere. Ha capito ed è andato via per sempre. Una tentazione che ho avuto anch’io».

Non posso crederci.
«Invece è accaduto nel 2008. Il mio primogenito mi ha sempre rimproverato: Tu hai sposato l’ospedale. Aveva ragione: 7.30-18, sabato e domenica inclusi. Siamo stati a Lione da soli per 6 anni. In pratica lo hanno cresciuto le nunù, le bambinaie. Allora andai da Saverio Comisso, dirigente dell’Asl Medio Friuli, e lo pregai di retrocedermi a medico di famiglia, dandomi un ambulatorio con orario 8-14».

Un colpo di testa.
«È quello che pensò anche lui. E infatti mi cacciò dall’ufficio: Questo non è il suo posto. Se ne vada. Qualche mese dopo, mentre alle 22 tornavo a casa dall’ospedale di Trieste, sulla strada per Udine nevicava forte. Mi schiantai contro una massicciata. Ero incastrata fra le lamiere, sanguinante, con il naso rotto, quand’ecco si fermò un’auto. Scese una ragazza. Avrà avuto 24 anni. Rimase lì quattro ore, fino a quando non arrivarono i vigili del fuoco a estrarmi. Mi tamponava le ferite e mi confortava: Non si preoccupi, adesso la tiriamo fuori. Ma eravamo solo noi due. Mentre lei chiamava i soccorsi, io le raccomandavo di non chiedere il codice rosso, sicura che in quella notte da lupi vi fossero in giro feriti più gravi di me da soccorrere. Alla fine, stordita e dolorante, rifiutai il ricovero in ospedale».

Ma è assurdo. Perché mai lo fece?
«L’indomani mi attendeva un intervento chirurgico. Promisi ai soccorritori che mi sarei sottoposta a una Tac. La ragazza si offrì di accompagnarmi fino a casa. Tra andata e ritorno si fece più di 100 chilometri. Mi abbandonai a lei, le affidai la mia vita, come i pazienti che entrano in sala operatoria. Al momento di salutarci, chiesi a quest’angelo, del quale non conosco neppure il nome, perché mi avesse circondato di tante premure. Mi rispose: Perché il bene torna sempre indietro. Lei deve averne fatto tanto. Non smetta di farne, non si arrenda».

Com’è che, mentre racconta queste cose, io mi commuovo e lei invece resta impassibile? È un dono di natura? Prende qualche farmaco?
«Non è insensibilità, questo spero che si capisca. È che il chirurgo si allena al distacco. In sala operatoria deve estraniarsi dalla scena. Quando parlo di me stessa, è molto più difficile. Ma ho avuto modo di ripensare tante di quelle volte a questa storia da riuscire a interiorizzarla e a provare solo gioia nel raccontarla».

Come le è venuto in mente di aprire le porte del suo reparto ai carcerati?
«Nel 2012 il padre di una compagna di classe di mia figlia mi parlava della sofferenza e dell’isolamento, che per me erano rappresentati dalla malattia e per lui dalla detenzione. Si creò un equivoco sulle rispettive professioni: io pensavo che fosse un medico e lui una collega poliziotta penitenziaria. Quindi è accaduto l’esatto contrario: è stato questo genitore ad aprire a me le porte del carcere in cui lavora. Ho trovato un terreno già arato. Non è che i reclusi pensino molto al dolore altrui: ne hanno già d’avanzo con il proprio. Ma appunto per questo sono capaci d’immedesimarsi subito nelle disgrazie più grandi delle loro».

Mi faccia un esempio concreto.
«Quando ho spiegato che per i miei ricoverati non volevo più i lettini con le sbarre e che l’Asl non poteva mettere a bilancio più di 20.000 euro per comprare quelli con le sponde trasparenti in policarbonato, un calabrese detenuto per reati di mafia, Pietro, è insorto: Ma come? I bambini dietro le sbarre? Non è giusto. Noi ce le siamo meritate, ma loro che colpe hanno?. Al successivo incontro mi ha messo nelle mani una busta sgualcita, con dentro 300 euro, frutto di una colletta fra i compagni di detenzione. E hanno voluto anche costruirci un lettino speciale in poliuretano espanso, a forma di Ferrari, così ora i piccoli degenti scendono in sala operatoria su un bolide».

O accompagnati dal cane.
«Angiolina è una golden retriever di 7 anni. Viene in reparto con la sua istruttrice, Debra Buttram. È una terapia animale assistita che fa molto bene ai bambini quando non rispondono alle cure».

In Olanda i feti su cui lei interviene vengono soppressi.
«Succede pure in Italia, quando il medico scappa davanti al dolore. Allora finisce che l’aborto venga spacciato come una terapia. Anche a mamma Rosa avevano consigliato di disfarsi della creatura con spina bifida che portava in grembo. Invece lei ha trovato una ricchezza in quella che doveva essere una tragedia. Ho operato la sua Elisabetta prima della nascita. Oggi è una bimba birichina, molto intelligente, che va a scuola e cammina da sola».

Vede differenza fra il dolore dell’adulto e quello del bambino?
«Il dolore fa parte della vita. Colpisce il prematuro, il neonato, il bambino, l’adolescente, l’adulto, l’anziano. Possiamo solo accettare la nostra fragilità di esseri umani. Nel 2011 sono rimasta vittima di un secondo incidente: un camionista s’è addormentato al volante e ha sventrato la mia auto con il suo pesante mezzo. Mentre me lo vedevo piombare addosso, ero sicura di morire. Invece sono ancora qua. Da allora, vivo ogni giornata come se fosse l’ultima».

 

 

 

 

Gloria Pelizzo, la dottoressa che ha

scoperto che gli “scarti” sono pietre miliari

 

Opera feti affetti da spina bifida, usa la robotica coi lattanti, mette i

carcerati al servizio dei bambini. Donna, madre e pioniera della

 professione. Parla il direttore di chirurgia pediatrica del San Matteo di Pavia

 

Fonte web

È alta, bionda, di una classe riservata. Il tailleur rosa e gli orecchini di perle stonano con i lividi sugli avambracci, «dovevo portare a tutti i costi il comodino in camera di mia figlia. Siamo a Pavia da due anni e volevo che finalmente ne avesse uno suo. Era una promessa». A parlare è Gloria Pelizzo, l’unico chirurgo a fare alcuni interventi in Italia. Che combatte per rivoluzionare il concetto di chirurgia pediatrica, che insegna diversamente da come vuole la medicina moderna, che mette insieme carcerati e neonati e che «mangio, pulisco casa, vado al cinema allo stesso modo in cui opero. Vivo ogni giornata come fosse l’ultima». Così lei fa ogni cosa. «Perché nella vita bisogna rispondere. Tutto è fatto per essere incontrato e valorizzato da noi. Anche quando non capiamo».

La forza della donna che ha operato bambini affetti da spina bifida quando erano ancora in grembo, tra i pochi ad effettuare alcuni interventi di chirurgia robotica su lattanti e bambini di basso peso, è sicuramente nella particolare predisposizione fisica aiutata da un temperamento tenace. Ma a sentire parlare il chirurgo trapela una vulnerabilità che sembra fare a pugni con l’eccezionalità del suo vissuto. «Non ho fatto nulla se non dire di sì. La mia vita si costruisce su continue risposte e cedimenti a quello che capita. Un susseguirsi di chiamate di cui non ho ancora capito pienamente il senso».

Pelizzo nasce e cresce in Friuli, quando decide di andare a studiare medicina a Ferrara, dove incontra chi le fa capire che nelle cose che accadono c’è più di quanto sembra. «Era il mio primo maestro, un chirurgo di religione ortodossa che si coinvolgeva totalmente con i bambini. Fino a battezzarli e a chiamarci per fare da testimoni in sala operatoria prima dell’intervento chirurgico». Poi Pelizzo vola in Francia. E a Lione incontra quello che resterà il suo mentore. «Mi chiedeva: “Cosa mi dice di questo paziente?”. E io: “È affetto da…”. E Lui: “Ma lei lo ha sentito?”. Io: “Sì lo ho auscultato”. “No! – si infuriava – lei lo deve prendere su di sé per sentirlo e quando lui si abbandona allora siete in sintonia totale e così può procedere”. L’immagine di quell’uomo che ascoltava i bambini tenendoli in braccio mi ha scavato dentro. Oggi cerco di insegnare questo ai miei collaboratori e agli studenti». Ma poi Pelizzo vola all’estero per approfondire gli studi e ci rimane fino a quando, appena trentacinquenne, viene nominata primario responsabile del dipartimento delle urgenze chirurgiche e dei trapianti pediatrici nell’ospedale universitario di Lione: «Il mio maestro venne da me felicissimo: “Vado in pensione in pace”, mi disse. Il giorno dopo fatti legati alla mia vita privata mi convinsero però a rientrare in Italia».

Così la donna dopo un anno a Trento ne passa un altro all’Ospedale di Ferrara e successivamente sei presso l’ospedale pediatrico di Trieste. Presto altre difficoltà inducono Pelizzo a lasciare il suo lavoro e a cercarne uno che le conceda più tempo libero. «Andai da un responsabile dell’Asl per dirgli che volevo fare il medico di base. Mi disse che non mi avrebbe mai aiutato a smettere di curare i bambini. In quei giorni mi chiamarono dall’ospedale San Matteo di Pavia, mi proponevano di dirigere la loro chirurgia pediatrica: non solo non riuscivo a trovare un lavoro con meno responsabilità, ma mi si chiedeva una rinuncia ancora maggiore, sia per la mia vita privata sia professionale, dato che sarei dovuta andare in un ospedale generale, non dedicato in maniera specifica al bambino».

«Si assuma le sue responsabilità»

Il chirurgo non vuole accettare e passa due mesi a negarsi, finché arriva l’ennesima chiamata: «Con vergogna per non essermi fatta trovare, decisi di rispondere almeno per correttezza. Ma con mia sorpresa fu la segretaria del dirigente ospedaliero a sgridarmi: “Dottoressa la smetta di scappare e si assuma le sue responsabilità”, disse. Mi lasciò di stucco, quella frase continuava a provocarmi anche se ero decisa a non accettare. Qualche giorno dopo ebbi un incidente d’auto a cui sopravvissi miracolosamente. Fui soccorsa da una donna. Rifiutai di andare all’ospedale e lei mi riaccompagnò a casa facendo cento chilometri di strada. “Scusi – le chiesi sul cancello di casa – ma l’Aci fa anche questo?”. “Quale Aci – mi rispose – io sono solo una ragazza che passava per strada”. E io: “Perché lo ha fatto?”. “Il bene torna sempre indietro. Anche lei ha fatto tanto bene e deve continuare a farlo”. Mi rispose così e se ne andò. Fu il secondo fatto che mi chiamava a rimanere fedele a quel lavoro. E a non scappare da quello che mi era chiesto, anche se avrei dovuto ricominciare tutto da capo».

È questa, infatti, la battaglia di Pelizzo. Quella che «continuo a fare cercando di viverla prima di tutto io, giorno dopo giorno, guardando il bambino come un essere unico, come un mondo a sé di cui c’è ancora tutto da conoscere e non come un piccolo adulto». In questi due anni il chirurgo è riuscito già a fare molto: ad adottare l’approccio multidisciplinare, a non spostare i pazienti da un reparto all’altro, chiedendo che siano i diversi specialisti ad andare nel suo. A usare la chirurgia robotica anche sui bambini di basso peso e a fare delle diverse figure professionali una squadra. Anche se «a me pare di non fare mai abbastanza e anche se non tutti sono sensibili al tema».

Il suo pare un sacrificio senza ritorno, cosa la fa andare avanti? «Non so di preciso chi mi abbia voluta qui. Ma quando incontrai il presidente della Regione, Roberto Formigoni, gli dissi chi ero: “So che si aspettava un uomo probabilmente. Io non ho la barba, ma sono qui”. Formigoni mi disse di sapere tutto. Aprii il mio cuore per dirgli le mie difficoltà. Che i bambini sono spesso trattati come piccoli adulti e che questo ha conseguenze gravi. I bimbi disabili, i più fragili che sono spesso nutriti con il sondino nasogastrico a permanenza, come vent’anni fa quando oggi, invece, ci sono le gastrostomie. Gli dissi che sapevo di essere scomoda per il fatto di trattare i feti in grembo come pazienti, perché operavo bambini di 22 settimane, arginando i danni della spina bifida e portandoli a camminare, quando a quell’età gestazionale l’aborto cosiddetto terapeutico è ancora possibile. “Presidente, continuai, sto perdendo ogni sicurezza nella vita e sto pagando un prezzo personale alto per aver accettato questo posto, ma l’ho fatto per obbedienza. Però se lei non è con me io mollo”. “Noi ci siamo”, mi rispose. Capivo che mi comprendeva e che aveva a cuore il bene comune».

«Aiuterò i bambini come me»

«In quei giorni mi era capitato di operare un bambino venuto dall’Africa. Era malformato, non parlava ed era stato emarginato perché ritenuto colpevole della malattia che lo aveva sfigurato impedendogli di parlare. Nessuno voleva prendersene cura. Decisi di operarlo. Dopo un mese e mezzo parlava. Non solo, ritrovai nel mio studio una lettera scritta da lui nella nostra lingua. Mi ringraziava felice di vedere affermata la sua dignità e di integrarsi nel suo paese: “Ho deciso che diventerò un medico per aiutare i bambini africani trattati come me”, scriveva dimostrando un’intelligenza straordinaria. Lo aiuterò a studiare e chissà che cosa accadrà».

In reparto la sua presenza importante potrebbe pesare a qualcuno, ma sono molti ad amarla. «Cerco di trattare i miei collaboratori al meglio: è necessario per far funzionare un reparto e stimolarli ad alzare sempre di più la barra della professionalità e della conoscenza. Poi, certo, è commovente vedere che lasciandolo aperto al personale, l’ufficio diventa una casa comune (mio fratello quando viene a trovarmi lo chiama un’agorà): quando accade, come stamattina, che mi sono trovata a pregare in ufficio con le infermiere che avevano chiamato il cappellano per una benedizione, so di non essere sola».

C’è chi in difficoltà, ha ritrovato lo stimolo lavorando nel suo reparto. «Tante volte il meglio viene da chi, magari perché fragile, è più emarginato. Ho imparato che è proprio lui e o lei, quello “scartato” che diventa la “pietra miliare”». Ecco il bene. E le torna indietro davvero? «Ieri, dopo due settimane in cui non ero riuscita, per i troppi impegni sopraggiunti, a fare quello che avevo promesso alle infermiere, ho chiesto loro scusandomi se stavano bene: “Non si preoccupi, noi ci siamo, lei vada avanti”. Arrivano persino a gestirmi l’agenda o a ricordarmi di mangiare quando lo dimentico». Per questo c’è chi è disposto a tanto per lavorare con lei: «Guardi che io chiedo molto. Per me non esiste che si stia qui a metà. Per lavorare al massimo non puoi separare la vita dal lavoro. C’è chi lo insegna nelle facoltà, ma è sbagliato: così si crescono dei guaritori e non dei curatori. Che si difendono e si sentono dei falliti se non va tutto tecnicamente bene. Io spiego agli studenti che noi siamo qui per guarire, certo, ma soprattutto per curare, l’esito della vita poi non è nostro». Sì ma se il paziente muore? Se è impossibile salvarlo? «Anche quando muore il corpo, per me lui non muore mai. Se sai che la vita non la salvi tu, ognuno diventa un incontro. Per questo non ho paura di coinvolgermi. Bisogna insegnare questa speranza altrimenti tra un po’ i medici scapperanno tutti».

«O qui, o all’happy hour»

Pelizzo dice di non risparmiare nulla a studenti e collaboratori: «Ricordo uno specializzando a cui chiesi verso sera di seguire un’urgenza. Mi disse che doveva andare a fare l’happy hour. Risposi che se sceglieva così forse era meglio che ci andasse tutte le sere. Nessuno è obbligato a fare questo lavoro. Capì anche lui, se ne andò e rispetto la sua scelta». Per seguire Pelizzo, però, ci sono anche professionisti che hanno lasciato un lavoro redditizio e stabile, scegliendo piuttosto di lavorare da precario: «È capitato. Un professionista passò di qui un giorno. Dopo poco tornò dicendomi che si era licenziato. Aveva lasciato il suo paese per lavorare con noi. “Ma io non posso darle un lavoro così remunerato”, gli spiegai. “So che devo stare qui, lo accetti”, rispose. Così è stato. Lo stesso era accaduto qualche anno fa per un altro medico che ora è stato assunto». Eppure continua a chiedersi perché proprio qui e perché ad un prezzo alto. Che tutto interroghi il chirurgo lo dice anche la musica in reparto per i bambini e il suo incontro con i carcerati: «Scoprii che il papà di una compagna di classe di mia figlia era agente di custodia. Gli chiesi di farmi conoscere quella realtà. Fra i detenuti mi fu subito evidente il perché di quell’incontro: c’è una profonda analogia fra neonati e carcerati. Entrambi non vivono proiettati nel futuro, hanno bisogno ora, qui, adesso: i primi hanno necessità di cure, i secondi di riscatto; i primi di genitori, i secondi di recuperare la dignità di uomo e di padre. Fatto sta che ora i carcerati fanno i dolci per i bambini del reparto. Rilegano e commentano i diari sulla vita quotidiana dei nostri piccoli. E se tutto va bene la loro falegnameria farà letti personalizzati per i pazienti».

Se le si chiede quali progetti aveva per sé, Pelizzo risponde che vorrebbe stare solo in sala operatoria con i suoi pazienti e che vorrebbe aver guardato di più a certe situazioni, «perché se anche una sola volta non sei stato leale con quello che vuoi davvero, prima o poi i nodi vengono al pettine». Eppure «sono state le volte che ero in ginocchio a insegnarmi a guardare in alto, che siano state permesse per lasciarmi una sana inquietudine dentro. Affinché non mi accontenti di avere il mondo e di perdere l’unica cosa che vale: me stessa. Questo è il ruolo di Dio e in questo senso il vero stakanovista è Lui».

 

 

 

 

Gloria Pelizzo: salva la vita prima che nasca

Intervista al chirurgo neonatale del Burlo di Trieste

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Lei la vita l’aggiusta prima ancora che nasca, la cerca fin nel grembo della madre, pone il rimedio che serve senza quasi toccarla e poi la lascia al mistero che si deve compiere. Lei è Gloria Pelizzo, chirurgo pediatrico del Burlo Irccs di Trieste e responsabile del servizio di Diagnostica prenatale. Il suo curriculum è un elenco interminabile di interventi, collaborazioni all’estero (da Philadelphia a Barcellona), pubblicazioni. Quel che conta è che il suo sapere, lo studio e la ricerca continui rendono possibile l’incredibile, perché ogni energia è spesa a difesa di quel mistero che è la vita. Vita e mistero che lei, come pochi al mondo, ha avuto modo di accarezzare a poche settimane dal concepimento.

Si è parlato molto di lei per un intervento su un feto di poche settimane, affetto da schiena bifida.
È stato un intervento in utero per una grave malformazione, che dà sequele posturali e altre serie compromissioni. È riuscito. La novità è che si è trattato di un intervento su un feto di 23 settimane e mezza. Un caso analogo era successo in Spagna, ma su un feto di 25 settimane. In Italia c’era stato un precedente, una decina di anni fa a Torino, su un feto però di oltre 30 settimane. La seconda novità è stata la possibilità di operare per via intrauterina in utero chiuso, attraverso telecamere, eseguendo il tutto senza la manipolazione delle mani, ma con strumenti micron. Questo significa un rispetto assoluto del feto e un decorso migliore per la mamma.

Un neonato tra le braccia è già l’immagine della fragilità. Cosa deve essere operare un feto.
Il concetto base è che il feto è un paziente. È persona: questo è fuori discussione. Uso tutti i mezzi che ho per aiutarla e curarla, a partire dall’analgesia. E questo con la delicatezza estrema e la ferma consapevolezza di essere davanti a un mistero.

Analgesia?
Sì, esiste già il dolore anche per lui. Una parte di analgesico passa attraverso la mamma e il cordone ombelicale, una parte è direttamente rivolta a lui.

Se quello è stato un intervento straordinario, cos’è l’ordinario?
Sono la responsabile del progetto di chirurgia neonatale e fetale. Mio obiettivo è essere meno invasiva possibile. La straordinarietà di quell’intervento non sarebbe stata possibile senza la fiducia della mamma, che si è affidata a me. Ugualmente, l’ordinario richiede sempre un rapporto stretto di dialogo con i genitori e la coordinazione di un team abituato alle sfide, all’intervenire spesso rapidamente. Niente si improvvisa, si impara tutto.

Ma le patologie che lei cura quali sono?

Le malformazioni del rachide (colonna vertebrale) e della spina bifida, che si risolvono chiudendo il difetto in epoca fetale per sventarne le tragiche conseguenze di non deambulazione e compromissione di organi: dalla vescica ad altro. Ma anche malformazioni al torace e ai polmoni incompatibili con la vita.

Ci sono altri istituti in Italia dove si fanno interventi di questo tipo?
Non credo ci siano altri centri con simili studi e ricerche in corso. A Torino, una decina di anni fa, si era fatto quell’intervento di cui le dicevo. Poi non più. Noi siamo a stretto contatto con gli Stati Uniti e con la Spagna. La distanza è un guaio solo perché perdi tempo a prendere un volo, ma la passione che ci unisce rende facile intendersi e collaborare.

9 febbraio: tra pochi giorni è il primo anniversario della scomparsa di Eluana.
È un gran dolore questa storia. Io capisco e so che il dolore può stravolgere. Ma la gente ha avuto dai media una lettura stravolta del fatto. Noi medici in questo reparto abbiamo bambini piccoli con disabilità gravissime; sappiamo quanto i genitori siano soli e impauriti, quanto lo Stato non offra sistemi di accompagnamento, sostegni, aiuti. So che la disperazione può far perdere la testa, per questo siamo molto vicini ai genitori, alla mamma di più, perché di solito resta lei in prima fila a combattere. Ma guardi mai, mai l’atteggiamento terapeutico può essere quello di eliminare per curare. Questo è inaccettabile.

Eluana: non fu omicidio. Questa la sentenza di pochi giorni fa.
Al mio paziente dò il mio calore, il mio aiuto, il mio sapere. Io ti dò da bere e da mangiare se non lo puoi fare da solo. Non lo facciamo forse con i neonati? Non lo facciamo col cane o col gatto quando stanno male? È omicidio a tutti gli effetti. Cosa faccio: lo ammazzo perché non può dirmi se ha fame o sete? Ma i neurolesi sanno trovare un loro modo di esprimersi, certo ci vuole tempo, osservazione, contatto. Se guardo il malato imparo a conoscerlo e a capire pian piano la sua via di espressione.

Ha conosciuto casi analoghi?
In reparto è capitato un ragazzo neuroleso di quindici anni. A casa non ce la facevano, cercavano un istituto. Per il tempo di permanenza da noi, le ragazze se lo coccolavano, lo abbracciavano, gli mettevano la musica ad alto volume come fanno i ragazzi di quell’età. Lui reagiva con rash cutanei, si riempiva di chiazze rosse. Era la sua espressione. Poi trovarono dove mandarlo; lui ha capito del trasferimento, che c’era qualcosa di diverso. Era nutrito col sondino. Per la prima volta ha cominciato a vomitare, cosa mai fatta prima. In due giorni se n’è andato.

Lei difende la vita fin da subito. E l’aborto?
Per i genitori di oggi una diagnosi di lesione permanente è inacettabile. Se gli effetti sono estetici (specie sul viso o gli arti) e duraturi non ne vogliono proprio sentir parlare. Siamo vittima del mito della perfezione, ma la vita è imprevisto. Se il danno è nascosto, è accettabile solo se ci sono buone prospettive di cura, se può essere corretto. Per questo si fanno seguire sempre i genitori anche da una psicologa.

La diagnosi prenatale per curare. Per tanti è solo temibile eugenetica.
Io devo sapere per potere intervenire. Sono consapevole del fatto che, in fondo, quello che possiamo diagnosticare è la punta di un iceberg. Ma prima la conosco, prima intervengo per migliorare o bloccare l’evoluzione di una malattia.

Ru486: cosa le dice?
Non vorrei dire proprio. Io e alcuni medici di Udine siamo stati messi con le spalle al muro perché ci siano detti contrari. Ma se ci tolgono la libertà personale… Per fortuna, dato il mio campo operativo, non mi imbatterò in prescrizione di pillole abortive. Mi occupo di salvare vite.

E le staminali?
Ci stiamo lavorando. Abbiamo buone possibilità d’azione. Per esempio, prendiamo le staminali da un feto per creare tessuti che serviranno poi a lui stesso, nel caso di malformazioni. Qualcosa che viene da lui e servirà a lui per superare un danno. Ma i tempi qui sono ancora lunghi. La strada però è avviata.

 

 

APPROFONDIMENTO

 

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