LA GUERRA CHE VERRA'... PRESTO!

ORMAI TUTTO Ė GIÀ DECISO

a cura di Claudio Prandini

 

(terza e ultima parte)

 

 

 

Ben lontani dal restringere questa imminenza della tragedia in un angusto “antiamericanismo”, non possiamo però evitare di ripetere e diffondere la nostra preoccupazione. Lo facciamo nel modo che ci è proprio: con studi e analisi rigorose, che tuttavia non fingono neutralità “scientifica”, la vera scienza essendo adesso quella di attrezzarsi e attrezzare il mondo ad una inedita emergenza.

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Gli ultimi eventi in Iraq, il pericolo di una guerra civile di tutti contro tutti, potrebbero rallentare il piano di attacco all'Iran, ma potrebbe anche essere un'abile, quanto diabolica, mossa preparatoria di "qualcuno" per rompere l'unità anti-USA, come spiega Maurizio Blondet  in questo articolo!

 

 

 

FERMIAMO LA GUERRA ALL'IRAN

PRIMA CHE INIZI!

 

La politica estera americana sta portando l'umanità sull'orlo dell'abisso

 

http://stopwaroniran.org/

 

 

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IL SENSO DELLO SCONTRO FRA LE CIVILTA'

(di Maurizio Blondet)

 

 

fonte web

William Pfaff, grande opinionista dell'Herald Tribune, dopo gli attentati di Londra (2005) ha scritto un illuminante commento. Lo pubblichiamo qui quasi integralmente (1).

"Lo scontro di civiltà […] è la guerra fra la modernità da una parte, e il mondo tradizionale dall'altra.
Gli attentati terroristici del fondamentalismo islamico contro l'Occidente non sono che un evento secondario: un'aspra, ma fallimentare, reazione alla guerra che la società moderna ha già largamente vinto, visto che progressisti e conservatori sono uniti nella loro lotta contro i valori, i principii e i modi di vita della vasta, non moderna, maggioranza dell'umanità.
Noi occidentali crediamo, come ha scritto di recente Roger Cohen sull'Herald Tribune, di stare creando 'un secolo che renderà il mondo, con le sue diversità, più unito, prospero e libero, come non mai prima' ".

Progressisti e conservatori della società occidentale credono fermamente in questo. Per loro è inconcepibile che il mondo tradizionale, in cui, a parte loro, vivono tutti gli altri, possa restare una valida scelta per coloro che vi vivono.
Il mondo moderno è l'aggressore determinato – senza nemmeno seriamente meditarlo – a distruggere le civiltà arretrare di tutti gli altri, che esso guarda come screditati residui del passato. Il solo fatto di distruggerle è 'progresso'. E il progresso porta…dove?

Qui, ecco, entriamo nel problema dell'utopia.
L'utopia, in un mondo dominato dalla religione, è la ricompensa di una vita degna, che sarà goduta nell'aldilà.
Per il mondo tradizionale, l'utopia esiste fuori del tempo, o in un paradiso a-temporale.
La civiltà moderna ha sostituito alla salvazione religiosa un'utopia materiale. Dai secoli in cui l'Illuminismo e la rivoluzione scientifica hanno detronizzato la religione come forza intellettuale dominante della nostra società, il progresso materiale e sociale ha sostituito la salvezza spirituale come scopo dell'esistenza.

Un ovvio esempio politico di questo utopismo moderno: la campagna americana per de-regolare la finanza planetaria e aprire il mondo agli investimenti americani.
Qui agisce in qualche misura l'interesse statunitense; […] ma la globalizzazione è accettata da tutti, in Europa e in USA, in quanto idea progressista, che renderà più ricche le altre società, ovunque nel mondo, portandole nel sistema di mercato internazionale (2).
Però la globalizzazione e la deregulation dell'economia mondiale hanno accidentalmente distrutto qualcosa che c'era: economie autosufficienti che funzionavano secondo modelli tradizionali di commercio, manifatture artigianali per il mercato locale, agricoltura di sussistenza – e tutti i principii culturali su cui si reggevano questi modi di vita. Nessun occidentale ha dedicato molta riflessione al danno inferto.
L'Occidente porta il progresso.
Il progresso inteso come partecipazione ad un mercato di consumatori globali, con merci a basso prezzo e alimenti prodotti industrialmente in massa, e promosso dalle comunicazioni globali.

Il danno collaterale – la distruzione di società autosufficienti, lo sradicamento, la proletarizzazione dei loro popoli – sembra semplicemente inevitabile, in quanto spinge questa gente nella modernità, e sulla strada del progresso.
Da questo punto di vista la stessa guerra in Iraq è una spiacevole necessità per plasmare un nuovo Medio Oriente e porre le basi per un mondo migliore.

Poiché ogni società tradizionale è tenuta insieme da una religione tradizionale, di fatto il moderno Occidente ha sferrato la guerra alla religione in quanto tale (3).
Non c'è da stupire se i difensori della religione tradizionale reagiscono.
Ancor più a proposito: giovani uomini che hanno avuto il destino di nascere a cavallo fra il mondo moderno e quello tradizionale (i musulmani di seconda generazione nei ghetti di Londra, Madrid o Parigi) non hanno la possibilità reale di vivere pienamente dentro nessuno dei due mondi. Non c'è da meravigliarsi se aggrediscono la fonte del loro malessere (4). L'Islam comprende oggi milioni di giovani che o sono nati nei ghetti occidentali, o sono stati inviati fuori dalle loro società tradizionali per studiare materie iper-moderne, in società super-moderne che la loro civiltà propria sente come atee.

Bisogna tenere conto di un fatto che generalmente si trascura. La civiltà moderna occidentale è un prodotto autoctono della storia e della cultura dell'Occidente; l'Occidente è quello che è a causa del suo passato. Nessuno ha imposto all'Occidente idee ad esso estranee. Perciò noi occidentali ci sentiamo a nostro agio nella modernità. La modernità l'abbiamo creata noi occidentali e ci appartiene (5).

Per contro, l'Occidente impone le sue idee – estranee agli altri – a tutti; e sono idee che contraddicono e mirano a sradicare i valori e principii fondamentali di ogni società non occidentale. E dice loro: è il progresso.
Il nostro progresso è la vostra destabilizzazione, la distruzione delle vostre culture, la creazione di milioni di alienati culturali, di sradicati, di profughi strappati dal proprio passato per integrarli in un'etica radicalmente materialistica.
Non ci dovrebbe scandalizzare che la reazione a questa imposizione sia la violenza nichilista".

 

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Note

1) William Pfaff, "Traditional culture strike back", International Herald Tribune, 21 luglio 2005.

2) Vale la pena di ricordare che il compito storico degli Stati Uniti è stato quello di sradicare – con la violenza più estrema, quando necessario – le civiltà tradizionali. Ne sanno qualcosa gli indiani d'America e il Giappone, a cui le cannoniere dell'ammiraglio Perry imposero, nell'800, di aprire il suo "mercato" alle merci estere. Anche la guerra totale ai fascismi va inserita in questa missione storica. I fascismi furono fra l'altro un tentativo europeo di risacralizzazione delle società, l'affermazione di un anti-individualismo basato sul passato storico o mitico (Roma antica per Mussolini, la "razza ariana" per il nazionalsocialismo). Precisamente questo, il tentativo di ricreare comunità e identità organiche, è stato definito "il Male assoluto", il "Male radicale" nell'ortodossia corrente.

3) Difatti. La guerra al "terrorismo islamico" è guerra all'Islam, e più in generale guerra alla religione come tale. L'Islam, anche nella sua forma degradata e reimbarbarita attuale, è l'ultimo nucleo di resistenza alla "trasparenza assoluta del mercato globale", alla proposta di una dozzinale felicità dei consumi nell'aldiquà, al "felice individualismo libertario". Non ci s'illuda, la guerra è anche contro la religione cattolica; se non ha bisogno di essere sferrata con bombe intelligenti, è perché non esiste più una comunità cristiana autentica, e il cristianesimo e la Chiesa hanno stilato vasti compromessi con la modernità. Ma ogni minimo segno di resistenza viene prontamente aggredito e squalificato: allora si è lesti a ricordare che la Chiesa "perseguitò Galileo", fece i "roghi con Torquemada" e così via.

4) Bisogna sottolineare che l'islamismo fondamentalista, specie quello dei giovani inurbati in Occidente, è profondamente "inautentico". Giovani che condividono tutte le voglie e gli stili consumisti, di colpo si fingono (a se stessi) "religiosi"; e spesso non sanno leggere il Corano in arabo. E del messaggio di Maometto colgono solo la guerra. E' un fenomeno di affermazione difensiva di identità fittizie, che percorre largamente il mondo moderno: basta pensare ai baschi, o alla "Padania" (mai esistita) dei leghisti, o persino all' "orgoglio gay". O ancor peggio: alle microscopiche "nazionalità" che pullulano là dov'è marcita l'immane carcassa dell'impero sovietico, e pretendono di essere riconosciute come "Stati sovrani": ciò che non sono mai state nella storia, e che non riescono neppure ad essere (appena "indipendenti", si divorano in particolarismi interni, sempre più pulviscolari). Questi fenomeni, separatismi, particolarismi, sono appunto come i vermi che si agitano nella carogna. E la carogna è sempre quella di un impero, ossia di una grande idea politica: quella che chiamava "popoli diversi e persino ostili ad unirsi per compiere qualcosa di grande insieme", secondo la definizione di Ortega y Gasset. I separatismi nascono quando "non c'è più niente di grande da fare assieme", o ogni gruppo si ripiega e chiude sui suoi piccoli, egoistici fini, sulle sue certezze minime, o minimi interessi.

5) Andrà notato anche che, una volta distrutte le vere culture tradizionali, fondate sulla speranza di salvezza eterna e sull'ordine cosmico, gli USA si possono dichiarare "religiosi" e "cristiani". Si tratta di una contraffazione post-moderna, miscuglio sospetto di "religione civile", religiosità come conforto psichico e pseudo messianismo spurio ("cristiani rinati") oggi impazzito, con Leo Strauss e i neocon, fino a configurare "la prima ideologia apocalittica atea che sia apparsa nella storia" (R. Buffagni). Non sfuggirà che contraffazione della vera fede e ateismo apocalittico sono "segnature" sataniche, dell'Anticristo.
 

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I NEOCONSERVATORI E IL PNAC:

DALL'IMPERIALISMO GLOBALE ALLA SOLUZIONE FINALE

 

 

Segretario della Difesa americana Donald Rumsfeld - Fu uno dei firmatari del PNAC

 

fonte web

Il Project for the New American Century (Pnac, Progetto per il nuovo secolo americano) esordì nel gennaio 1997 con una Dichiarazione di princìpi sottoscritta da 25 esponenti di quei settori della politica e della cultura statunitensi che in seguito si sarebbero chiamati “neoconservatori”. Tra in nomi illustri, o destinati a diventarlo, c’erano Jeb Bush, Dick Cheney, Francis Fukujama, Robert Kagan, William Kristol, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz. Almeno otto dei firmatari avevano avuto un ruolo di rilievo nelle amministrazioni Reagan e Bush senior. La Dichiarazione proponeva il rilancio di una politica di potere militare e lucidità morale basata su quattro doveri americani:

  • aumentare in modo significativo la spesa per la difesa;

  • rafforzare i nostri legami con gli alleati democratici e sfidare i regimi ostili ai nostri valori e interessi;

  • promuovere la causa della libertà politica ed economica all'estero;

  • accettare la responsabilità del ruolo straordinario che l'America svolge nel preservare e ampliare un ordine internazionale propizio alla nostra sicurezza, alla nostra prosperità e ai nostri princìpi.

Il testo era più esplicito nell’esposizione dell’opportunità e delle sfide che gli Usa dovevano affrontare per “forgiare” il nuovo secolo secondo i loro interessi. Il documento era stato preceduto da una lunga elaborazione, le cui origini vanno dal Committee on Present Danger (Comitato sul pericolo presente) del 1977 al Defense Plannig Guidance (Linee guida per la pianificazione della difesa) del 1992, ma che affondano nella storia otto-novecentesca della politica e dell’ideologia dell’imperialismo statunitense. Lì stanno i veri incunaboli dell’“Iperpotenza”.

Ma certo è stato decisivo il nuovo milieu interno formatosi negli anni Novanta. La fase di passaggio dal confronto con l’Unione Sovietica all’improvvisa scomparsa del nemico pareva consentire la possibilità di un deciso cambiamento della politica internazionale degli Usa – e quindi dell’intero sistema mondiale. Non è andata così, ed è peggio per il mondo.

Nella crisi e nella guerra irachena del 1990-91, nell’aggiramento e nella sostanziale neutralizzazione dell’opposizione democratica, nella invenzione ed insistente evocazione di nuove sfide e minacce, nella risicata e sospetta vittoria elettorale di Bush junior si colloca il fallimento dell’occasione storica. Un fallimento al quale i neocons hanno attivamente contribuito, giocando prima sulla debolezza di Clinton e poi sull’adesione di molti tra gli stessi democratici al loro programma, con una campagna di impronta nazionalistica e imperialistica senza precedenti: o meglio, con il procedente della politica aggressiva e reazionaria di Reagan, che a sua volta può riconnettersi all’asse dell’espansionismo statunitense della “frontiera” e del “destino manifesto”.

Priva di concrete possibilità di alternativa politica e strategica, con alle spalle un’opposizione sociale frantumata e depoliticizzata, la storia americana – in particolare quella del potere americano – mette perpetuamente di fronte alla tentazione di dichiararne la sostanziale continuità, al di là di quanto possano dimostrare l’analisi differenziale della società yankee e lo stesso credito che nella sinistra mondiale del ‘900 hanno riscosso e riscuotono personalità come quelle di Daniel De Leon, di Sweezy, di Chomsky. Ma i neocons – via via che sviluppano le loro iniziative pubblicistiche e la loro forza di pressione sull’apparato, fino allo sfondamento operato con George W. Bush e la sua amministrazione – vanno ben oltre quella continuità. Essi sono a tal punto invasati dal senso della missione americana da esigere una scelta essenziale di guerra, a prescindere cioè dai motivi concreti che possono provocare una guerra singola, e ad organizzare una serie ben collegata di rotture, con l’Onu, con l’Europa, con il mondo arabo-islamico, con ogni possibilità di mediazione; una scelta che conduce alla distruzione non solo del diritto, ma anche della politica internazionale.

La guerra diventa non la continuazione e l’eventuale soluzione di uno stato di crisi politica, ma l’istituzione permanente che sostituisce la politica, diventando costituente d’una inedita barbarie. L’attentato dell’11 settembre alle Twin Towers è tanto provvidenziale agli sviluppi di questa ideologia, e alle iniziative che essa ispira, da alimentare un sempre più forte e irrisolto sospetto sulle origini e la dinamica dei fatti. E il disegno di rimodellamento del mondo è tanto criminalmente grande, da far comparire la caduta delle torri come un preliminare tattico, o una semplice miccia. Chi si avvicini ai testi della “rivoluzione democratica dei neoconservatori” si sente quasi accompagnato per mano a considerare l’11 settembre come un episodio di maestosa spettacolarità, funzionale ad una economia strategica di scala e perciò continuamente riproposto..

Nella “guerra infinita al terrorismo internazionale”, nella scoperta e punizione dei più o meno improbabili colpevoli, la cultura neoconservatrice trova l’orgasmo lungamente desiderato e preparato. Secondo alcuni osservatori, non mancano in Bush e nei suoi consiglieri tratti di fondamentalismo giudaico-cristiano che sostengono la guerra globale con i valori d’una torbida tradizione mistica. Essi però sono – in quella società - utili all’esplicazione politica d’una prospettiva imperialistico-missionaria che negli scritti dei neocons tocca vertici deliranti: quella che lo stesso Brezinski ha bollato come “visione paranoica del mondo” .

In perfetta conseguenza con i quattro doveri sopra esposti, due dei cervelli più brillanti del gruppo - i già reaganiani e poi co-fondatori del Pnac R. Kagan e W. Kristol - hanno sostenuto in un famoso articolo di quattro anni fa, Present Danger, che al pericolo rappresentato dall’Urss è succeduto quello d’una autosvalutazione che ha condotto la Superpotenza dotata di responsabilità globale a deplorevoli atteggiamenti di “potere in declino, volontà vacillante e confusione circa il suo ruolo nel mondo”. (p. 44) La presidenza Clinton ha incoraggiato queste tendenze al “disarmo strategico e morale” e all’indebolimento militare, mentre entro una decina d’anni “l’Iraq, l’Iran, la Corea del Nord e la Cina saranno in grado di attaccare gli Stati Uniti con armi nucleari” (p. 46) e la Russia “potrebbe decidere di reclamare una parte di quanto perso nel 1991”. I due autori chiedevano quindi un “cambiamento fondamentale” circa il “ruolo dell’America nel mondo” come forza del Bene capace di preservare, estendere, plasmare, modellare un “ordine internazionale compatibile sia con i nostri interessi materiali, sia con i nostri princìpi (p. 50) E poiché “determinare che cosa sia nell’interesse nazionale americano è un’arte, non una scienza”, occorre anche - a giudizio di Kagan e di Kristol – “occasionalmente intervenire all’estero, anche quando non possiamo dimostrare che è in gioco un ‘interesse vitale’ degli Usa definito in maniera circoscritta” ( p. 51) E quindi sostenevano l’opportunità di “cominciare a creare problemi a nazioni ostili o potenzialmente ostili, piuttosto che aspettare che queste ultime creino problemi a noi”.

Tra le nazioni ostili, a parte quelle minori, note ormai come “asse del male” l’accento batteva insistentemente sulla Cina. In The National Security Strategy l’insistenza sulla proiezione statunitense verso l’Asia profonda era tale da suggerire a commentatori e analisti che la Cina è l’obiettivo dell’Iperpotenza; e già le date del grande confronto corrono sulla stampa mondiale: 2017, 2025, 2030. La rincorsa presa dagli americani tra il 1989 e il 1991 va dunque diritta verso una nuova conflagrazione mondiale: sarebbe quello il capolavoro della nuova arte politica. La generazione dei bambini dei primi anni 2000 si prepari al nuovo e più terribile “infanticidio differito”, che sarà probabilmente il definitivo umanicidio.

Il documento presidenziale del settembre 2002, del quale “Giano” ha più volte informato, e ancora informa e discute in questo fascicolo – ha dietro e dentro di sé quelle elaborazioni, le media con la politica come arte, e le mette al centro dello scenario di “guerra infinita”, anche “preventiva”, di proiezione militare dei “valori americani”, di rimodellamento del mondo a partire dall’Asia, dove a Israele è demandato di volta in volta il ruolo di punta di lancia contro il subcontinente arabo-islamico e di retrovia della “rivoluzione democratica globale”, infine di completo rovesciamento del diritto internazionale; nei suoi più ispirati discorsi - come quello del 6 novembre scorso al National Endowment of Democracy, forse il più neocon di tutti - il presidente Bush ricrea il mondo a immagine e somiglianza del binomio interessi-valori ignorando totalmente l’esistenza dell’Onu.

Non è facile –per richiamare nel quadro problematico che occorre tenere presente anche l’altro rischio planetario finale – rintracciare un pensiero ecologico coerente negli scritti dei neoconservatori, né nella Weltanschauung presidenziale. Alla luce delle discussioni in corso – che gli Usa stessi rendono frammentarie e infruttuose – propendiamo a negare che da quella parte un pensiero ecologico degno di questo nome vi sia, e che esso comunque abbia lo stesso range globale d’un delirio di onnipotenza che è delirio di annientamento. Una globalità scaccia l’altra. Gli Usa, più accentuatamente con il governo in carica, sono dunque a doppio titolo un pericolo per il mondo, nel senso letterale della possibile e reale fine della storia umana.

Ben lontani dal restringere questa imminenza della tragedia in un angusto “antiamericanismo”, non possiamo però evitare di ripetere e diffondere la nostra preoccupazione. Lo facciamo nel modo che ci è proprio: con studi e analisi rigorose, che tuttavia non fingono neutralità “scientifica”, la vera scienza essendo adesso quella di attrezzarsi e attrezzare il mondo ad una inedita emergenza. (D.)

 

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Nota. Citazioni testuali e riferimenti sono tratti da The National Security of the United States of America - September 2002, testo orig. in www.whitehouse.org ;

I nuovi rivoluzionari. Il pensiero dei neoconservatori americani a cura di Jim Lobe e Adele Olivieri, Milano, Feltrinelli, 2003 (Dichiarazione di princìpi [del Pnac], pp. 66-79; R. Kagan e W. Kristol, Il pericolo odierno, pp. 43-63);

Christian Rocca, Esportare l’America. La rivoluzione democratica dei neoconservatori, Milano, I libri del Foglio, 2003;

E. Caretto, L’impegno di Bush: “Democrazia in Medio Oriente”, “Corriere della sera, 7 novembre 2003;

Z. Brzezinski, Potere e paranoia dell’America di Bush, “la Repubblica”, 19 novembre 2003;

C. Del Bello, Il nuovo assolutismo americano e la fine della politica, “Giano”, n. 41, settembre-dicembre 2002, pp. 9-15;

S. Minolfi, La Superpotenza “hobbesiana” e la disarticolazione dell’Occidente, “Giano”, n. 42, settembre-dicembre 2002, pp. 29-51;

A.M. Imbriani, “Minaccia universale” e “guerra permanente” nella National Security Strategy 2002, ivi, pp. 53-73; D. Di Fiore, “Valori americani”, “Giano”, n.43, gennaio-aprile 2003, pp. 51-62

 

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APPENDICE

 

PORTO ALEGRE, IL PRIMATO DEL DIALOGO

(Le chiese contro le guerre)

 

DOPO L'IRAQ

IRAN NEL MIRINO DI BUSH

 

 

 

PERCHĖ  AHMADINEJAD VUOLE LA GUERRA

di Maurizio Blondet