GUERRA IN LIBIA

LA GRANDE FARSA DELL'AIUTO DEI

 REGIMI DEMOCRATICI

(a cura di Claudio Prandini)

 

 

 

 

INTRODUZIONE

di Claudio Prandini

Mentre stiamo creando il dossier sulla Libia ci giunge la notizia della presunta uccisione di Osama Bin Laden da parte di un commando della marina militare statunitense. Non c'è che dire, si tratta di un colpo mediatico fantastico, degno di una sapiente sceneggiatura hollywoodiana! In piena crisi sistemica del dollaro, che cala sempre di più e con molti stati sull'orlo del fallimento, l'America di Obama ha bisogno di un nemico virtualmente morto per poter sperare in un domani radioso. Parlo di morte virtuale perché fin'ora non ci sono prove che quel cadavere gettato in mare sia veramente quello di Osama e non invece quello del cugino Khamir, anch'egli nel giro del terrorismo islamico.  Ma cosa ha fatto il povero Osama per meritare tanta attenzione? Dicono che sia stato lui a buttare giù le torri gemelle! A parte che negli Stati Uniti il suo nome non è mai comparso fra i ricercati dell'FBI per il crollo delle torri, ma voi ci credete ancora alla favola che le torri sono cadute grazie a quattro straccioni che sapevano si e no guidare un aereo da turismo a elica?

La distruzione delle torri è opera di apparati altamente preparati sia dal punto di vista tecnologico che strategico e tutto interno al governo americano. La stessa mistificazione si sta compiendo oggi con la Libia la quale, con la scusa della guerra umanitaria, si sta avviando ad essere divisa e balcanizzata. Mi sembra infatti sempre più chiaro che l'interesse occidentale sia quello di far fuori Gheddafi, come lo fu per Saddam e ora per Bin Laden. Il problema è però il dopo Gheddafi. La Libia è un paese fondamentalmente tribale. Come faranno a mettersi d'accordo? Si rischia la divisione del paese a tutto vantaggio delle compagnie petrolifere e dei vari governi occidentali che in tal modo avranno un immenso territorio da sfruttare e un'ottima piattaforma di lancio per tutto il Medio Oriente. Un'ottima base per le guerre future, magari contro l'Iran e la Siria! Ci sono già voci di preparativi da parte di Israele in territorio iracheno, con l'aiuto americano, per bombardare i centri nevralgici del nucleare iraniano.

L'annuncio dell'uccisione di Bin Laden potrebbe così far parte di un piano di psicologia di massa per preparare l'opinione pubblica mondiale ad altre operazioni di più alto impatto. Tutti sanno che in tempi di crisi economica una guerra può risollevare la borsa e un dollaro destinato presto a diventare carta straccia.  La situazione attuale delle economie “occidentali” globalizzate sono infatti allo sbando. LEAP/E2020 in Geab 54 prevede per l’autunno di quest’anno una crisi sistemica profonda e dolorosissima che al confronto quella del 2007/2009 ne è stato solo un piccolo assaggio. “la prossima tappa della crisi sarà davvero il “gravissimo collasso del sistema economico, finanziario e monetario mondiale”, e che questo storico fallimento avverrà nell’autunno del 2011. Le conseguenze monetarie, finanziarie, economiche e geopolitiche di questo “gravissimo collasso” saranno di proporzioni storiche, e faranno vedere la crisi dell’Autunno del 2008 per quello che essa era nella realtà: un semplice detonatore”.

E poi Obama, dopo aver fatto fuori l'ectoplasma di Bin Laden, è quasi sicuro di essere rieletto il prossimo anno, crac finanziario permettendo! L'ultimo rantolo di un sistema che si sta sgretolando dal suo interno perché tutti gli imperi terreni sono destinati a perire sotto l'incalzare della giustizia divina!

Per dimostrare che l'intervento occidentale in Libia è tutto fuorché umanitario riporto alcune righe che provengono dal Bahrain, scosso anch'esso da proteste popolari, di cui in occidente non si sa quasi nulla. Eppure anche là la gente viene massacrata e soffre la dittatura! Perché la Nato non interviene anche in quel paese per difendere i civili e i medici che soccorrono i manifestanti feriti? La verità è che il Bahrain è già un protettorato dell'America in quanto in quel paese c'è un'importante base americana e nessuno ha interesse a intervenire, tanto meno Obama. Questa è libertà americana....

MANAMA - Sono stati rinviati a giudizio almeno 23 medici e 24 infermiere per aver assistito i dimostranti feriti durante le proteste represse da parte del regime di Manama. È quanto si apprende dalle dichiarazioni del ministro della Giustizia di Bahrein secondo il quale queste persone dovranno tutti rispondere dell’accusa di atti contro lo Stato e saranno giudicati da una corte militare. Le organizzazioni umanitarie temono per la loro vita in quanto il regime non garantisce loro un processo regolare nè avvocati difensori che possano salvarli dalla pena capitale. Gli accusati, sono colpevoli di aver soccorso i dimostranti colpiti dai proietti dei militari sauditi e di Bahrein mentre partecipavano alle manifestazioni per la libertà di espressione e l’eguaglianza. Lo riferisce press TV precisando che l’altro ieri sono stati arrestati due ex parlamentari della principale partito di opposizione, Al Wefaq. Nessuno conosce il luogo della loro detenzione.

 

 

Costanzo Preve: contro la guerra in Libia (aprile 2011)

 

 

GLI STATI UNITI RISCHIANO UNA

GUERRA CON CINA E RUSSIA

Fonte web

Sebbene le rivolte in Tunisia ed Egitto abbiano colto di sorpresa gli Stati Uniti, qualcuno ipotizza che ci siano proprio loro dietro le ribellioni in Libia e Siria. Intanto, anche Cina e Russia osservano gli sviluppi della situazione.

Press TV: Si dice che ai vertici di Washington sia stato consigliato di armare i ribelli in Libia. Ritiene che sia una buona idea?

Paul Craig Roberts: Li stanno già armando. C’è qualcosa di unico nella rivolta in Libia. Non è una sollevazione pacifica; non sta avendo luogo nella capitale; si tratta di una ribellione armata della parte orientale del paese. Sappiamo che la CIA è coinvolta direttamente, sul campo, quindi sono già armati.


Press TV: Che analogie vede tra questo intervento militare e quello in Bahrein?

Paul Craig Roberts: Non vogliamo rovesciare il governo del Bahrein o dell’Arabia Saudita, due paesi i cui governi trattano con violenza i dissidenti, per il semplice fatto che entrambi sono nostri burattini e abbiamo una grande base navale in Bahrein.
Vogliamo rovesciare Gheddafi e Assad in Siria perché vogliamo tagliare fuori dal Mediterraneo la Russia e la Cina. La Cina ha fatto enormi investimenti in campo energetico nella Libia orientale e sta facendo affidamento sulla Libia, oltre che sull’Angola e la Nigeria, per soddisfare il suo fabbisogno energetico. L’America si impegna per negare l’accesso cinese alle risorse energetiche, proprio come hanno fatto Washington e Londra con i giapponesi negli anni trenta.
Wikileaks ha mostrato come ci sia l’America dietro alle proteste in Siria. Ci interessano perché i russi hanno una grande base navale in Siria, che garantisce loro la presenza nel Mediterraneo. Come vedete, Washington è decisa nell’intervento contro la Libia e spinge con sempre maggiore forza per quello in Siria: questo perché vogliamo liberarci dei russi e dei cinesi.
Non abbiamo nulla da dire sui sauditi o su come trattano i loro dissidenti, né abbiamo nulla da obiettare circa le violenze esercitate sui dimostranti in Bahrein.

Press TV: Sta dicendo che, in ultima analisi, l’attacco alla Libia è legato a questioni petrolifere?

Paul Craig Roberts: Non si tratta solo del petrolio, si tratta della penetrazione della Cina in Africa per assicurarsi le forniture di petrolio necessarie ai suoi bisogni. Dovreste essere a conoscenza del fatto che il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato un documento in cui si dichiara che la ‘Age of America’ [“l’epoca americana”, il periodo di egemonia mondiale degli USA, ndt] è finita e che l’economia americana verrà sorpassata da quella cinese entro cinque anni, diventando così la seconda economia al mondo. Per questo, una delle cose che Washington sta cercando di fare è di utilizzare le sue superiori capacità militari e strategiche per bloccare l’acquisizione di risorse da parte della Cina, in modo da rallentarne lo sviluppo economico. Questa è la ragione principale per le attività della CIA nella Libia orientale, è la ragione per cui le proteste sono scoppiate nell’est del paese e non nella capitale, come invece è accaduto negli altri paesi arabi, ed è la ragione per cui si tratta di una rivolta armata.

Press TV: Pensa che l’isolamento diplomatico della Libia sia stato la ragione principale di questo intervento militare?

Paul Craig Roberts: Non penso che sia la ragione principale. Credo che la ragione principale sia quella di sfrattare la Cina dalla Libia, cosa che sta accadendo. C’erano 30.000 cinesi laggiù e ne hanno dovuti evacuare 29.000.
È anche una vendetta nei confronti di Gheddafi per essersi rifiutato di entrare a far parte dello US Africa Command (AfriComm) [comando delle forze armate USA, responsabile per le relazioni e le operazioni militari in 53 paesi africani, ndt] . È operativo dal 2008 ed è nato come risposta americana alla penetrazione cinese in Africa: abbiamo scelto una risposta militare e Gheddafi si è rifiutato di partecipare, dichiarando che si trattava di un atto imperialista mirato ad acquistare un intero continente.
Infine credo che la terza ragione sia il fatto che Gheddafi in Libia controlli un settore importante della costa mediterranea, e lo stesso vale per la Siria. Perciò credo che questi paesi rappresentino due ostacoli per il percorso egemonico degli Stati Uniti nel Mediterraneo e, di sicuro, gli americani non vogliono una robusta flotta russa in quell’area né vogliono che la Cina estragga risorse energetiche.
Lo scoppio delle rivolte in Tunisia e in Egitto ha colto Washington di sorpresa, tuttavia gli americani hanno capito in fretta che avrebbero potuto nascondersi dietro alle rivolte nei paesi arabi e utilizzarle per sfrattare Russia e Cina, riuscendo a evitare un indesiderabile confronto diretto. Perciò hanno organizzato queste proteste.
Sappiamo per certo che per un po’ di tempo la CIA ha seminato zizzania nella Libia orientale, è un dato di fatto. E la pubblicazione dei cablo di Wikileaks ha dimostrato il coinvolgimento degli americani nel fomentare disordini in Siria.
Non abbiamo innescato alcuna sollevazione in Egitto, in Bahrein, in Tunisia né in Arabia Saudita. Siamo probabilmente responsabili delle rivolte nello Yemen, perché siamo ricorsi a incursioni aeree e droni contro diversi elementi tribali.
Quindi, la grande differenza è che dietro ai disordini in Libia e Siria c’è la mano degli Stati Uniti, che hanno organizzato le manifestazioni, foraggiato le ribellioni e così via. Ci sono e ci saranno sempre persone scontente che possono essere comprate e promesse che possono essere fatte.

Press TV: I droni vengono ora utilizzati in Libia. Da dove decollano? Tecnicamente non possono arrivare dall’Italia per la scarsa capacità dei serbatoi, quindi da dove partono?

Paul Craig Roberts: Non lo so, forse da navi militari americane. Credo che l’ultimo rapporto sui droni arrivasse da un ufficiale della marina. Vorrei ancora aggiungere qualcosa. Forse il rischio maggiore, che nessuno ha preso in considerazione, è il caratteraccio della Cina. Con questo intervento, le aziende cinesi stanno perdendo centinaia di milioni di dollari. Hanno 50 massicci investimenti che stanno andando in malora e ciò viene chiaramente percepito dai cinesi come un atto ostile nei loro confronti. Non si fanno illusioni e di sicuro non si bevono le sciocchezze che leggono sul New York Times o sul Washington Post. Quello che vedono è una manovra americana contro la Cina.

Press TV: Sta suggerendo che gli americani vogliono far fuori la Cina e rimpiazzare gli investimenti cinesi con aziende americane?

Paul Craig Roberts: Americane o altro, esattamente. Penso anche che i russi inizino a percepire l’intera faccenda siriana come una manovra contro di loro e la base che hanno laggiù.
Dunque, quello che stiamo facendo in realtà è inimicarci due grandi nazioni: la Cina, la cui economia è probabilmente migliore di quella americana dal momento che i suoi abitanti hanno ancora un lavoro, e la Russia, che dispone di un arsenale atomico potenzialmente illimitato. Stiamo quindi iniziando a fare pressione, in un modo molto imprudente, su due paesi molto forti; ci stiamo comportando in maniera profondamente pericolosa e irresponsabile.
Una volta messo in moto tutto questo, e una volta che Russia e Cina arriveranno alla conclusione che non si può interagire in modo razionale con gli USA e che anzi gli americani sono determinati a fare qualunque cosa per sottometterli e danneggiarli, può succedere di tutto e può verificarsi qualunque escalation. È un pericolo reale, stiamo rischiando una guerra di portata mondiale.

Press TV: (l’Italia dipende in larga misura dal petrolio libico) Cosa può dire del ruolo dell’Italia (come membro della NATO) in Libia?

Paul Craig Roberts: C’è un altro aspetto unico di questo intervento in Libia. Cosa ci fa la NATO in una guerra in Africa? La NATO è stata formata per difendere da una possibile invasione sovietica i paesi dell’Europa occidentale. L’Unione Sovietica non esiste più da vent’anni. Sotto la guida degli Stati Uniti e del Pentagono, la NATO è stata trasformata in una forza ausiliaria, che ora è coinvolta in una guerra di aggressione in Africa. Perché qui stiamo parlando di una guerra di aggressione, un attacco militare.
Questa è una trasformazione straordinaria. Perché sta succedendo tutto questo? Non siamo ricorsi alla NATO in Egitto o in Tunisia e certamente non lo faremo in Arabia Saudita o in Bahrein, perciò stiamo assistendo a qualcosa di veramente strano: la NATO in una guerra in Africa. Questo meriterebbe una spiegazione.

 

 

Robert Gates, capo del Pentagono e il Presidente Obama

 

 

La Libia e la nuova dottrina strategica degli Stati Uniti

 

di Thierry Meyssan

Fonte web

L’operazione militare alleata in Libia segna un importante cambiamento strategico. Washington ha rinunciato ad una guerra di occupazione e ha affidato ai suoi alleati le future operazioni di terra. Thierry Meyssan delinea il nuovo paradigma strategico degli Stati Uniti: la globalizzazione forzata viene interrotta, l’era dei due mondi comincia.
 

Si dice spesso che i generali non vedano i cambiamenti e preparino la prossima guerra come se dovesse essere simile alla precedente. Questo vale anche per i commentatori politici: interpretano i nuovi eventi, non per quello che sono, ma come se ripetessero quelli che li hanno preceduti.

Quando i movimenti popolari hanno rovesciato Zine el-Abidine Ben Ali in Tunisia e Hosni Mubarak in Egitto, molti hanno pensato di assistere ad una "rivoluzione gelsomino" [1] e a una "rivoluzione dei loti" [2], come nelle rivoluzioni colorate che la CIA e la NED hanno organizzato a catena dopo la fine dell’URSS. Alcuni fatti sembrano dar loro ragione, come la presenza di agitatori serbi al Cairo o la diffusione di materiale da propaganda [3]. Ma la realtà era ben diversa. Queste rivolte erano popolari e Washington ha cercato senza successo di cavalcarle. In definitiva, i tunisini e gli egiziani non aspiravano alla American Way of Life, ma piuttosto a sbarazzarsi dei governi fantoccio manipolati dagli Stati Uniti.

Quando i disordini sono esplosi in Libia, questi stessi commentatori hanno cercato di recuperare il loro ritardo sulla realtà, spiegando che questa volta si trattava di una sollevazione popolare contro il dittatore Gheddafi. Hanno poi accompagnato i loro editoriali dalle dolci bugie presentando il colonnello come un eterno nemico della democrazia occidentale, dimenticando che collaborava attivamente con gli Stati Uniti da otto anni [4].

Eppure, se guardiamo più da vicino, quello che sta accadendo in Libia è la prima riemersione dell’antagonismo storico tra la Cirenaica da un lato, e la Tripolitania e il Fezzan dall’altro. E’ solo in modo secondario che questo conflitto ha preso una piega politica, l’insurrezione s’identifica con i monarchici, presto raggiunti da ogni sorta di gruppi di opposizione (nasseriani, komeinisti, comunisti, islamisti ecc...). In ultima analisi. In nessun momento l’insurrezione si è diffusa in tutto il paese.

Qualsiasi voce che denuncia la fabbricazione e la strumentalizzazione di questo conflitto da parte di un cartello coloniale raccoglie contestazioni. L’opinione della maggioranza ammette che l’intervento militare straniero permette al popolo libico di liberarsi dal suo tiranno, e che gli errori della coalizione non possono essere peggiori del crimine di genocidio.

Tuttavia, la storia ha già dimostrato la fallacia di questo ragionamento. Per esempio, molti iracheni contrari a Saddam Hussein e che hanno accolto come dei salvatori le truppe occidentali dicono che, otto anni e un milione di morti dopo, che la vita era migliore nel loro paese al tempo del despota.

È importante sottolineare che questo giudizio si basa su una serie di false convinzioni:

Contrariamente alla propaganda occidentale, e a ciò che sembra dar credito la vicinanza cronologica e geografica con la Tunisia e l’Egitto, il popolo libico non s’è sollevato contro il regime di Gheddafi. Ha ancora la legittimazione popolare in Tripolitania e Fezzan, regioni in cui il colonnello aveva distribuito armi alla popolazione per resistere all’avanzata dei ribelli nella Cirenaica e alle potenze straniere.

Contrariamente alla propaganda occidentale e a ciò che sembra dar sostegno alle dichiarazioni furiose del "Fratello Leader" stesso, Gheddafi non ha mai bombardato la propria popolazione civile. Ha usato della forza militare contro il colpo di stato, senza badare alle conseguenze per la popolazione civile. Questa distinzione non è importante per le vittime, ma nel diritto internazionale separa i crimini di guerra dai crimini contro l’umanità.

Infine, contrariamente a ciò che afferma la propaganda occidentale e il romanticismo rivoluzionario da operetta di Bernard Henry Levy, la rivolta in Cirenaica non ha nulla di spontaneo. E’ stata preparata dal DGSE, dal MI6 e dalla CIA. Per formare il Consiglio nazionale di transizione, i francesi si sono appoggiati alle informazioni e ai contatti di Massoud El-Mesmar, ex compagno e confidente di Gheddafi, che disertò nel novembre 2010 e ha ricevuto asilo a Parigi [5]. Per ripristinare la monarchia, gli inglesi hanno riavviato le reti del principe Muhammad al-Sanusi, pretendente al trono del Regno Unito di Libia, attualmente in esilio a Londra, e hanno distribuito dappertutto la bandiera rosso-nero-verde col la mezzaluna e la stella [6]. Gli USA hanno preso il controllo economico e militare rimpatriando gli esiliati libici a Washington, per occupare i ministeri chiave e lo stato maggiore del Consiglio Nazionale di Transizione.

Inoltre, il dibattito sull’opportunità di un intervento internazionale è l’albero che nasconde la foresta. Se vogliamo fare un passo indietro, ci rendiamo conto che la strategia delle potenze occidentali è cambiata. Certo, continuano ad usare ed abusare della retorica della prevenzione dei genocidi e del dovere agli interventi umanitari dei fratelli maggiori, perfino anche il sostegno fraterno ai popoli che lottano per la loro libertà, purché aprano i loro mercati, ma le loro azioni sono diversi.

La "dottrina Obama"

Nel suo discorso alla National Defense University, Obama ha definito alcuni aspetti della sua dottrina strategica sottolineando ciò che la distingue da quella dei suoi predecessori, Bill Clinton e George W. Bush [7].

Ha subito detto: "In un solo mese, gli Stati Uniti sono riuscito con i loro partner internazionali a mobilitare un’ampia coalizione per ottenere un mandato internazionale per proteggere i civili, per frenare l’avanzata di un esercito, per evitare un massacro e per stabilire, con gli alleati e partner, una no-fly zone. Per mettere in prospettiva la velocità della nostra risposta militare e diplomatica, ricordiamoci che nel 1990, quando le popolazioni sono state brutalizzate in Bosnia, c’è voluto più di un anno alla comunità internazionale ad intervenire con la potenza aerea per proteggere quei civili. Ci sono voluti solo 31 giorni questa volta".

Questa rapidità contrasta con il periodo di Bill Clinton. Si spiega in due modi. Da un lato gli Stati Uniti del 2011 hanno un disegno organico, vedremo quale, mentre negli anni ’90, hanno esitato tra godere del crollo dell’URSS per arricchirsi commercialmente o costruire un impero senza rivali.

D’altra parte, la politica del "reset" (azzeramento) dell’amministrazione Obama, volto a sostituire il confronto con la trattativa, ha parzialmente portato i suoi frutta con la Russia. Anche sia una dei grandi perdenti della guerra economica alla Libia, l’ha accettata in linea di principio - anche se i nazionalisti Vladimir Putin [8] o Vladimir Chamov [9] hanno dei mal di pancia-.

Poi, nello stesso discorso del 28 marzo 2011, Obama ha continuato: "La nostra alleanza più efficace, la NATO, ha preso il comando per l’esecuzione dell’embargo sulle armi e la no-fly zone. La scorsa notte, la NATO ha deciso di prendersi maggiori responsabilità nella protezione dei civili libici. Gli Stati Uniti svolgeranno un ruolo di sostegno (...) - soprattutto in termini di intelligence, supporto logistico, assistenza nella ricerca e soccorso, e del disturbo delle comunicazioni del regime. Grazie a questa transizione verso una coalizione più ampia, basata sulla NATO, i rischi ed i costi di queste operazioni - per le nostre truppe e i nostri contribuenti - saranno notevolmente ridotti".

Dopo aver messo avanti la Francia e aver finto di esservi trascinata, Washington ha ammesso che ha "coordinato" tutte le operazioni militari fin dall’inizio. Ma ciò per di annunciare l’immediato trasferimento di questa responsabilità alla NATO.

In termini di comunicazione interna, è ovvio che il Nobel per la Pace Barack Obama non vuole dare l’immagine di un presidente che guida il suo paese in una terza guerra al mondo musulmano, dopo l’Afghanistan e l’Iraq. Tuttavia, questo problema di pubbliche relazioni non dovrebbe dimenticare l’essenziale: Washington non vuole più essere il poliziotto del mondo, ma intende esercitare una leadership sulle grandi potenze, intervenendo a nome dei loro interessi collettivi e mutualizzandone i costi. In questo contesto, la NATO diventerà la struttura di coordinamento militare l’eccellenza, a cui la Russia, o anche più tardi la Cina, dovrebbero essere coinvolte.

Infine, Obama ha concluso presso la National Defense University: "Ci saranno occasioni in cui la nostra sicurezza non sarà minacciata direttamente, ma dove i nostri interessi e i nostri valori lo saranno. La storia ci mette faccia a faccia con alcune delle sfide che minacciano la nostra umanità e la nostra sicurezza comune - intervenire in caso di calamità naturali, per esempio, o impedire il genocidio e per preservare la pace, la sicurezza regionale e mantenere il flusso del commercio. Questi non sono forse problemi unicamente statunitensi, ma sono importanti per noi. Questi sono problemi che devono essere risolti. E in queste circostanze, noi sappiamo che gli Stati Uniti, come nazione più potente del mondo, saranno spesso chiamati a fornire assistenza."

Barack Obama rompe con il discorso infuocato di George W. Bush che pretendeva di estendere al mondo l’American Way of Life con la forza delle baionette. Mentre ammette di schierare le risorse militari per cause umanitarie od operazioni di mantenimento della pace, non contempla la guerra che per "la sicurezza regionale e mantenere il flusso del commercio".

Questo merita una spiegazione approfondita.

Il mutamento strategico

Per convenzione o convenienza, gli storici chiamano ogni dottrina strategica intitolandola al presidente che la implementa. In realtà, la dottrina strategica è oggi sviluppata dal Pentagono e non dalla Casa Bianca. Il cambiamento fondamentale non si è verificato con l’ingresso di Barack Obama nello Studio Ovale (gennaio 2009), ma con quello di Robert Gates al Pentagono (dicembre 2006). Gli ultimi due anni della presidenza Bush non uscivano dalla "Dottrina Bush", ma prefiguravano la “dottrina Obama". E perché ha trionfato che Robert Gates progetta di andare in pensione orgoglioso del lavoro svolto [10].

Per fare capire, distinguerei quindi una "dottrina Rumsfeld" e una "dottrina Gates".

Nella prima, l’obiettivo è quello di cambiare i regimi politici, uno per uno, in tutto il mondo, finché non sono tutte compatibili con quello degli Stati Uniti. Questo si chiama "democrazia di mercato" essendo in realtà un sistema oligarchico in cui i pseudo-cittadini sono protetti dall’azione arbitraria dello stato e possono scegliere i loro leader, senza essere in grado di scegliere le loro politiche. Questo obiettivo ha portato all’organizzazione delle rivoluzioni colorate come all’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq. Eppure, dice Barack Obama nello stesso discorso: "Grazie ai sacrifici straordinari delle nostre truppe e alla determinazione dei nostri diplomatici, siamo fiduciosi per il futuro dell’Iraq. Ma il cambiamento di regime ha richiesto otto anni, costando migliaia di vite americane e irachene e quasi mille miliardi di dollari. Non possiamo permettere che ciò accada di nuovo in Libia."

In breve, questo obiettivo di una pax americana, che protegge e domina tutti i popoli della terra, è economicamente irrealizzabile. Allo stesso modo, inoltre, dell’idea di convertire l’umanità all’American Way of Life.

Un’altra visione imperiale, più realistica, si è gradualmente imposta al Pentagono. E’ stata resa popolare da Thomas PM Barnett nel suo libro The Pentagon’s New Map. War and Peace in the Twenty-First Century (La Nuova Mappa del Pentagono. Guerra e pace nel XXI.mo secolo).

Il mondo futuro sarà diviso in due. Da un lato il centro stabile, costruito intorno agli Stati Uniti dai paesi sviluppati e più o meno democratici. Dall’altro una periferia, lasciata a se stessa, in preda a sottosviluppo e violenza. Il ruolo del Pentagono sarebbe quello di garantire l’accesso del mondo civile che ha bisogno delle ricchezze naturali della periferia, che non sa utilizzarle.

Questa visione presuppone che gli Stati Uniti non siano più in concorrenza con altri paesi sviluppati, ma ne diventino il loro leader nella sicurezza. Sembra possibile con la Russia, da quando il presidente Dmitry Medvedev ha aperto la strada alla cooperazione con la NATO, durante la parata per commemorare la fine della Seconda Guerra Mondiale, e poi al vertice di Lisbona. Questo può essere più complicato con la Cina, la cui nuova dirigenza sembra più nazionalista di quella precedente.

Dividere del mondo in due zone, stabile e caotica, dove la seconda è il serbatoio naturale della prima, solleva ovviamente la questione dei confini. Nel lavoro di Barnett (2004), i Balcani, l’Asia centrale, la maggior parte dell’Africa, le Ande e l’America centrale sono gettate nelle tenebre. Tre stati-membri del G20, di cui uno è anche membro della NATO, sono condannati al caos: Turchia, Arabia Saudita e Indonesia. Questa mappa non è statica e dei ripescaggi restano possibili. Così, l’Arabia Saudita sta guadagnando i suoi galloni schiacciando nel sangue la rivolta in Bahrain.

Dal momento che non è più una questione di occupare paesi, ma solo di mantenere delle aree di sfruttamento e di effettuare incursioni in caso di necessità, il Pentagono deve estendere a tutta la periferia il processo di frammentazione, di "rimodellamento", iniziato nel "più vasto Medio Oriente" (Greater Middle-East). Lo scopo della guerra non è più lo sfruttamento diretto di un territorio, ma la disintegrazione di ogni possibilità di resistenza. Il Pentagono si sta concentrando sul controllo delle vie marittime e sulle operazioni aeree per esternalizzare il più possibile le operazioni di terra ai suoi alleati. Questo fenomeno è appena iniziato in Africa con la divisione del Sudan e le guerre in Libia e in Costa d’Avorio.

Se, in termini di discorso democratico, il rovesciamento del regime di Muammar Gheddafi sarebbe un traguardo gratificante, non è né necessario né auspicabile dal punto di vista del Pentagono. Nella “dottrina Gates”, è meglio mantenere un isterico e umiliato Gheddafi nella ridotta tripolitana che una Grande Libia, capace un giorno di resistere di nuovo all’imperialismo. Naturalmente questa nuova visione strategica non sarà indolore. Ci saranno dei flussi di migranti, che sono sempre più in fuga dall’inferno della periferia per entrare nel paradiso del centro. E ci saranno quelli umanisti incorreggibili per pensare che il paradiso degli uni non dovrebbe essere costruito sull’inferno degli altri.

È questo il progetto in gioco in Libia ed è in relazione a esso che ognuno deve essere determinato.

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[1] «Washington affronta l’ira del popolo tunisino », Thierry Meyssan, Rete Voltaire, 23 gennaio 2011.

[2] « L’Egitto sull’orlo del bagno di sangue », Thierry Meyssan, Rete Voltaire, 31 gennaio 2011.

[3] « Le manuel états-unien pour une révolution colorée en Égypte », Réseau Voltaire, 1 marzo 2011.

[4] « Mon album de famille, par Mouammar Kadhafi », Réseau Voltaire, 25 marzo 2011.

[5] «La France préparait depuis novembre le renversement de Kadhafi», Franco Bechis, Réseau Voltaire, 24 marzo 2011.

[6] « Quand flottent sur les places libyennes les drapeaux du roi Idris », Manlio Dinucci, Réseau Voltaire, 1 marzo 2011.

[7] « Remarks at National Defense University in Address to the Nation on Libya », Barack Obama, Voltaire Network, 28 marzo 2011.

[8] « Remarks on the situation in Libya », Vladimir V. Putin, Voltaire Network, 21 marzo 2011.

[9] « L’ambassadeur Chamov accuse Medvedev de trahison en Libye», Réseau Voltaire, 26 marzo 2011.

[10] « Robert Gates sta partendo», Rete Voltaire, 7 aprile 2011.

 

 

 

 

LA LIBIA DI FRONTE ALL’IMPERIALISMO UMANITARIO

 

INTERVISTA A JEAN BRICMOND

Fonte web

Jean Bricmont insegna fisica in Belgio ed è membro del Tribunale di Bruxelles. Il suo libro, Imperialismo Umanitario, è pubblicato da Monthly Review Press.
 
Può ricordarci in cosa consiste l’Imperialismo Umanitario?
 
Jean Bricmont: E’ un’ideologia mirante a giustificare gli interventi militari contro nazioni sovrane in nome della democrazia e dei Diritti Umani. Il motivo è sempre lo stesso: un popolo è vittima di un dittatore, perciò dobbiamo agire. Poi si tirano fuori tutti i riferimenti consueti: la Seconda Guerra Mondiale, la guerra con la Spagna, e così via. Lo scopo è quello di vendere la tesi secondo la quale un intervento armato è indispensabile. E’ quello che è accaduto per il Kosovo, l’Iraq e l’Afghanistan.
 
E adesso è il turno della Libia.
 
Qui c’è una differenza, perché è stata una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a rendere possibile la guerra. Ma tale risoluzione è stata approvata contro i principi della stessa Carta delle Nazioni Unite. Infatti, io non vedo alcuna minaccia esterna rappresentata dal conflitto in Libia. Benché si sia evocato il concetto della “responsabilità di protezione” verso le popolazioni, si è ricorsi a molte scorciatoie. D’altronde, non vi è alcuna prova che Gheddafi stia massacrando il suo popolo per il solo gusto di macellarlo. La questione è un po’ più complessa: si tratta di un’insurrezione armata, e io non conosco nessun governo che non reprimerebbe un’insurrezione di questo tipo. Certo, ci sono stati danni collaterali e vittime civili. Ma se gli Stati Uniti conoscono un modo per evitare tali danni, allora dovrebbero parlarne agli israeliani e applicarlo loro per primi in Iraq e in Afghanistan. Oltretutto, non vi è alcun dubbio che anche i bombardamenti della coalizione abbiano provocato vittime civili.
 
Da un punto di vista strettamente giuridico, io penso che la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sia discutibile. Infatti, essa è il risultato di anni di pressioni lobbystiche miranti ad ottenere il diritto all’interferenza, che qui è stato legittimato.
 
Eppure molte persone – perfino tra i partiti della sinistra – hanno ritenuto necessario intervenire in Libia per fermare il massacro. Crede si sia trattato di un errore di valutazione?
 
Sì, e per molte ragioni. Prima di tutto, questa campagna militare inaugura il regno dell’arbitrio. Infatti, il conflitto libico non è affatto eccezionale. Ci sono molti altri conflitti simili in ogni parte del mondo, che si tratti di Gaza, del Bahrein o del Congo, in cui vi è stata una guerra simile alcuni anni fa. In quest’ultimo caso, la guerra scoppiò nel contesto di un’invasione straniera da parte di Ruanda e Burundi. L’intervento delle forze del diritto internazionale avrebbe potuto salvare milioni di vite, ma non venne attuato. Come mai?
 
D’altronde, se applicassimo a livello generale i princìpi di interferenza che stanno alla base dell’aggressione alla Libia, ciò vorrebbe dire che chiunque può intervenire dovunque ne abbia voglia. Immaginiamo che i russi intervengano in Bahrein o i cinesi nello Yemen: il mondo cadrebbe in preda ad una guerra generalizzata e incessante. Pertanto, la principale caratteristica del diritto d’interferenza è la rottura degli standard del diritto internazionale. E se dovessimo cambiare il diritto internazionale, per sostituirlo con nuove regole che giustifichino il diritto d’interferenza, il risultato sarebbe una guerra di tutti contro tutti. Si tratta di un problema al quale i sostenitori del diritto d’interferenza non hanno mai dato una risposta.

Infine, interventi del genere rafforzano quello che io chiamo “effetto barricata”: tutti i paesi nel mirino degli Stati Uniti inizieranno a sentirsi minacciati e cercheranno di incrementare i propri armamenti. Tutti ricordiamo ciò che successe a Saddam. A quell’epoca, Gheddafi aveva detto alla Lega Araba: “Abbiamo appena perduto uno stato membro della Lega e nessuno di voi ha fatto nulla. Ma la stessa cosa può succedere anche a voi, perché, anche se siete tutti alleati degli USA, anche Saddam lo era stato, in passato”. Ora la stessa cosa si sta ripetendo con Gheddafi e la minaccia che pende sul capo di molti stati finirà probabilmente per rilanciare la corsa agli armamenti. E potrebbe andare anche peggio: se la Libia avesse avuto armi nucleari, non sarebbe mai stata aggredita. In effetti, è proprio per questo che la Corea del Nord è intoccabile. Perciò, la sinistra che appoggia l’intervento in Libia farebbe bene a rendersi conto che l’interferenza umanitaria finirà inevitabilmente per rilanciare la corsa agli armamenti e porterà a guerre di lungo periodo.
 
Nonostante questo, un intervento armato contro Gheddafi non può essere visto come un male minore?
 
Bisogna considerarne le conseguenze. Ora che le forze occidentali si sono impegnate, ovviamente dovranno andare fino in fondo, rovesciare Gheddafi e portare al potere i ribelli. E poi cosa succederà? La Libia sembra divisa. L’Occidente occuperà forse il paese e si imbarcherà in una guerra infinita come quelle in Iraq e in Afghanistan?
 
Ammettendo che sia così, supponiamo che tutto vada per il meglio: i membri della coalizione rimuovono Gheddafi in pochi giorni, i ribelli prendono il potere e il popolo libico è unito. Tutti sono felici. Ma poi? Non penso che l’Occidente dirà: “Bene, lo abbiamo fatto perché siamo gente buona e amante dei diritti umani. Ora potete fare tutto quello che volete”. Cosa accadrà se il nuovo governo libico sarà troppo musulmano o non limiterà in modo appropriato i flussi migratori? Lei pensa che l’Occidente li lascerà fare? E’ ovvio che dopo l’intervento il nuovo governo libico sarà legato mani e piedi agli interessi occidentali.
 
Se l’intervento militare non è una soluzione, allora la soluzione qual è?
 
Sarebbe stato meglio se avessimo sperimentato con onestà tutte le opzioni pacifiche. Magari poi non avrebbero funzionato, ma qui c’è stata l’intenzione lampante di rifiutare soluzioni di questo tipo. E a proposito, anche questa è una caratteristica tipica delle guerre umanitarie. All’epoca del Kosovo, c’erano state da parte della Serbia proposte minuziose per arrivare ad una soluzione pacifica, ma furono tutte respinte. Addirittura l’Occidente impose condizioni che rendevano impossibile qualunque negoziato, come quelle di far occupare la Serbia dalle truppe NATO. In Afghanistan, i Talebani avevano proposto di far processare Bin Laden da un tribunale internazionale, se fosse stata loro fornita la prova del suo coinvolgimento negli attacchi al WTC. Ma gli USA rifiutarono la proposta e bombardarono il paese. In Iraq, Saddam aveva accettato il ritorno degli ispettori delle Nazioni Unite e altre condizioni estremamente restrittive. Ma non era mai abbastanza. In Libia, Gheddafi ha accettato un cessate il fuoco e ha proposto di far entrare nel paese gli osservatori internazionali. Ma gli osservatori non sono stati inviati e tutti hanno detto che Gheddafi non rispettava il cessate il fuoco. L’Occidente ha anche rifiutato l’offerta di Chavez di fare da mediatore per la Libia, nonostante essa fosse sostenuta da molti paesi latino-americani e dalla stessa Unione Africana.
 
Per questo motivo, mi arrabbio quando sento le sinistre europee denunciare l’orribile Alleanza Bolivariana delle Americhe che sostiene il dittatore Gheddafi. Hanno capito tutto a rovescio! I leader che sono al potere in America Latina hanno importanti responsabilità. Non sono dei semplici ometti di sinistra che fanno quattro chiacchiere nel loro angolino. Il loro principale problema è l’interferenza degli USA: quanto meno questi ultimi potranno fare ciò che gli piace, dovunque gli piaccia, tanto meglio sarà per quei paesi che tentano di svincolarsi dalla loro tutela rafforzando il potere dello stato, nonché per il mondo.
 
Il sistematico rifiuto delle soluzioni pacifiche significa che l’interferenza umanitaria è una scusa?
 
Certo che sì, ma funziona solo con gli intellettuali. Ho molti più dubbi su come reagiranno i popoli d’Europa. Continueranno a sostenere i loro leader durante l’aggressione a Gheddafi? La gente considera legittime soprattutto le guerre combattute per la sicurezza: ad esempio se qualcosa minaccia la nostra popolazione o il nostro stile di vita, ecc. Ma nel contesto di un clima di islamofobia (che io disapprovo, ma che esiste) diffuso tanto qui quanto in Francia, provate a spiegargli che stiamo combattendo in Cirenaica a favore di ribelli che vediamo strillare “Allah Akbar!”. Questa è una contraddizione!
 
Sul piano politico, molti partiti sono a favore dell’intervento, anche quelli di sinistra. I più moderati si sono limitati a sostenere l’implementazione della no-fly-zone, ma se Gheddafi manda i suoi carri armati a Bengasi, poi che si fa? Durante la Seconda Guerra Mondiale, i tedeschi persero rapidamente il controllo dello spazio aereo, ma nonostante ciò resistettero ancora per anni. Poiché l’obiettivo è sempre stato quello di rovesciare Gheddafi, i moderati avrebbero dovuto sospettare che si sarebbe andati ben oltre la creazione della no-fly-zone.
 
Incapace di assumere posizioni genuine e alternative, la sinistra si trova inrappolata nella logica dell’interventismo umanitario ed è costretta ad appoggiare Sarkozy. Se la guerra andrà bene e finirà in fretta, la posizione del presidente francese resterà senza dubbio solida in vista delle elezioni presidenziali del 2012, grazie anche alla sinistra che a ciò avrà contribuito. La sinistra, incapace di adottare una posizione coerente contro le guerre, è costretta ad adeguarsi alla politica interventista.
 
E se la guerra non andrà bene?
 
E’ spiacevole dirlo, ma l’unico partito francese che si è apertamente schierato contro l’intervento in Libia, in considerazione degli interessi della Francia, è il Fronte Nazionale. Lo ha fatto riferendosi in particolare ai flussi migratori e ha colto l’occasione per differenziarsi dall’Unione per un Movimento Popolare (UMP) di Sarkozy e dal Partito Socialista (SP), vantandosi di non aver mai collaborato con Gheddafi. Se la guerra in Libia non dovesse andare secondo i piani, sarà il Fronte Nazionale a trarne vantaggio nelle elezioni presidenziali del 2012.
 
Se l’interferenza umanitaria è solo un pretesto, allora qual è il vero obiettivo di questa guerra?
 
Le sollevazioni nel mondo arabo hanno colto di sorpresa l’Occidente, che non era molto informato su ciò che stava accadendo in Nord Africa e in Medio Oriente. Non metto in dubbio che vi siano persone esperte di questi argomenti, ma esse vengono di rado ascoltate a livello governativo e, tra l’altro, se ne lamentano spesso. Adesso, i nuovi governi di Egitto e Tunisia potrebbero non allinearsi più agli interessi dell’Occidente e di conseguenza divenire ostili a Israele.
 
Per prendere il controllo della zona e proteggere Tel Aviv, l’Occidente avrà dunque bisogno di liberarsi di quei governi che sono già ostili a Israele e all’Occidente. I tre principali sono Iran, Siria e Libia. L’ultimo, essendo il più debole, è stato attaccato per primo.
 
Funzionerà?
 
L’Occidente vorrebbe dominare il mondo, ma fin dal 2003, con il fiasco in Iraq, abbiamo potuto vedere che non ne è capace. In passato, gli Stati Uniti si erano già presi la libertà di rovesciare governanti che loro stessi avevano condotto al potere, come Ngô Dinh Diêm, nel Vietnam del Sud degli anni ’60. Ma oggi Washington non ne è più capace. In Kosovo, Stati Uniti ed Europa sono dovuti scendere a compromessi con un regime paramafioso. In Afhanistan, tutti sanno che Karzai è corrotto, ma non esiste altra scelta. In Iraq, hanno perfino dovuto accettare un governo che non li soddisfa nemmeno lontanamente.
 
Il problema sorgerà certamente anche con la Libia. Un iracheno mi disse una volta: “In questa parte del mondo non ci sono liberali nel senso occidentale del termine, eccezion fatta per alcuni sporadici e piuttosto isolati intellettuali”. Poiché l’Occidente non può contare su governanti che condividano le sue idee e difendano i suoi interessi, allora prova ad imporre dei dittatori con la forza. Ma questo genera ovviamente una discrepanza con i desideri della gente.
 
Del resto, questo approccio si è rivelato fallimentare e la gente non dovrebbe lasciarsi ingannare da ciò che sta accadendo.
 
L’Occidente, che credeva di poter controllare il mondo arabo con fantocci come Ben Ali e Mubarak, si è improvvisamente detto: “Abbiamo sbagliato tutto, meglio darsi da fare per sostenere la democrazia in Tunisia, Egitto e Libia”.

 

Il Consiglio nazionale di transizione libico, ovvero il governo provvisorio dei ribelli anti-Gheddafi con sede a Bengasi, ha costituito una nuova Banca centrale che "deve agire come autorità monetaria competente in politiche monetarie in Libia", contrapponendosi alla Central Bank of Libia di Tripoli. Alla guida del nuovo istituto è stato nominato Ali El Sharif.
La multinazionale bancaria inglese Hsbc è stata la prima a muoversi per supportare l'operazione. Un team di super-esperti del colosso londinese si trova già da tempo nella capitale cirenaica per allacciare i rapporti con la nuova entità. La posta in gioco è formata da cifre da capogiro. A chi andrà, infatti, la titolarità dei fondi sovrani libici, attualmente congelati nelle banche occidentali, soprattutto americane, inglesi, francesi, e che ammontano, secondo varie stime, tra i 100 e i 200 miliardi di dollari?
Per l'Italia sono in ballo almeno sette miliardi, comprese le partecipazioni a Unicredit (7,5% del capitale sociale) e Finmeccanica (2%). Ma i fondi libici hanno soprattutto un impatto in Africa. La Libyan Arab African Investment Company ha effettuato investimenti in oltre 25 paesi, 22 dei quali nell'Africa subsahariana e la Libia è uno dei principali finanziatori delle autorità finanziarie multilaterali africane: la Banca africana d'investimento, con sede a Tripoli, il Fondo monetario africano (FMA), la Banca centrale africana. Chi controllerà i fondi sovrani libici si troverà improvvisamente ad avere le mani in pasta negli affari ed investimenti di mezza Africa. Un boccone che fa gola a molti.

 

 

La rapina del secolo: l’assalto dei

«volenterosi» ai fondi sovrani libici

Fonte web

Manlio Dinucci torna sugli aspetti sottolineati nelle nostre colonne, all’inizio della guerra in Libia: le potenze coloniali "volontarie" si sono appropriate dei colossali investimenti esteri dello stato Libico. Il denaro congelato nelle banche occidentali, minacciava il monopolio della Banca Mondiale e del FMI, finanziando dei progetti di sviluppo nel Terzo Mondo. Continua a "girare" (non più nella forma di investimento, ma di garanzie bancarie), questa volta a favore degli occidentali.

L’obiettivo della guerra in Libia non è solo il petrolio, le cui riserve (stimate in 60 miliardi di barili) sono le maggiori dell’Africa e i cui costi di estrazione tra i più bassi del mondo, né il gas naturale le cui riserve sono stimate in circa 1.500 miliardi di metri cubi. Nel mirino dei «volenterosi» dell’operazione «Protettore unificato» ci sono anche i fondi sovrani, i capitali che lo stato libico ha investito all’estero.

I fondi sovrani gestiti dalla Libyan Investment Authority (Lia) sono stimati in circa 70 miliardi di dollari, che salgono a oltre 150 se si includono gli investimenti esteri della Banca centrale e di altri organismi. Ma potrebbero essere di più. Anche se sono inferiori a quelli dell’Arabia saudita o del Kuwait, i fondi sovrani libici si sono caratterizzati per la loro rapida crescita. Quando la Lia è stata costituita nel 2006, disponeva di 40 miliardi di dollari. In appena cinque anni, ha effettuato investimenti in oltre cento società nordafricane, asiatiche, europee, nordamericane e sudamericane: holding, banche, immobiliari, industrie, compagnie petrolifere e altre.

In Italia, i principali investimenti libici sono quelli nella UniCredit Banca (di cui la Lia e la Banca centrale libica pos-siedono il 7,5%), in Finmeccanica (2%) ed Eni (1%): questi e altri investimenti (tra cui il 7,5% dello Juventus Football Club) hanno un significato non tanto economico (ammontano a circa 4 miliardi di euro) quanto politico.

La Libia, dopo che Washington l’ha cancellata dalla lista di proscrizione degli «stati canaglia», ha cercato di ricavarsi uno spazio a livello internazionale puntando sulla «diplomazia dei fondi sovrani». Una volta che gli Usa e la Ue hanno revocato l’embargo nel 2004 e le grandi compagnie petrolifere sono tornate nel paese, Tripoli ha potuto disporre di un surplus commerciale di circa 30 miliardi di dollari annui che ha destinato in gran parte agli investimenti esteri. La gestione dei fondi sovrani ha però creato un nuovo meccanismo di potere e corruzione, in mano a ministri e alti funzionari, che probabilmente è sfuggito in parte al controllo dello stesso Gheddafi: lo conferma il fatto che, nel 2009, egli ha proposto che i 30 miliardi di proventi petroliferi andassero «direttamente al popolo libico». Ciò ha acuito le fratture all’interno del governo libico.

Su queste hanno fatto leva i circoli dominanti statunitensi ed europei che, prima di attaccare militarmente la Libia per mettere le mani sulla sua ricchezza energetica, si sono impa-droniti dei fondi sovrani libici. Ha agevolato tale operazione lo stesso rappresentante della Libyan Investment Authority, Mohamed Layas: come rivela un cablogramma filtrato attra-verso WikiLeaks, il 20 gennaio Layas ha informato l’ambasciatore Usa a Tripoli che la Lia aveva depositato 32 miliardi di dollari in banche statunitensi. Cinque settimane dopo, il 28 febbraio, il Tesoro Usa li ha «congelati». Secondo le dichiarazioni ufficiali, è «la più grossa somma di denaro mai bloccata negli Stati uniti», che Washington tiene «in deposito per il futuro della Libia». Servirà in realtà per una iniezione di capitali nell’economia Usa sempre più indebitata. Pochi giorni dopo, l’Unione europea ha «congelato» circa 45 miliardi di euro di fondi libici.

L’assalto ai fondi sovrani libici avrà un impatto particolar-mente forte in Africa. Qui la Libyan Arab African Investment Company ha effettuato investimenti in oltre 25 paesi, 22 dei quali nell’Africa subsahariana, programmando di accrescerli nei prossimi cinque anni soprattutto nei settori minerario, manifatturiero, turistico e in quello delle telecomunicazioni. Gli investimenti libici sono stati decisivi nella realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Rascom (Re-gional African Satellite Communications Organization) che, entrato in orbita nell’agosto 2010, permette ai paesi africani di cominciare a rendersi indipendenti dalle reti satellitari sta-tunitensi ed europee, con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.

Ancora più importanti sono stati gli investimenti libici nella realizzazione dei tre organismi finanziari varati dall’Unione africana: la Banca africana di investimento, con sede a Tripoli; il Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria). Lo sviluppo di tali organismi permetterebbe ai paesi africani di sottrarsi al controllo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, strumenti del dominio neocoloniale, e segnerebbe la fine del franco Cfa, la moneta che sono costretti a usare 14 paesi, ex-colonie francesi. Il congelamento dei fondi libici assesta un colpo fortissimo all’intero progetto. Le armi usate dai «volenterosi» non sono solo quelle dell’operazione bellica «Protettore unificato».

 

 

APPROFONDIMENTO

 

I pericoli e le implicazioni di una partizione della Libia

La fase di stallo in Libia accresce il rischio di una partizione di fatto del paese, in base agli interessi delle compagnie petrolifere occidentali, accompagnata da una crisi prolungata che avrebbe ripercussioni sui paesi dell’Africa sub-sahariana – scrive il professore Hamdy Abdel Rahman