India pacifica
ma non con i cristiani
CONTINUA IL NOSTRO VIAGGIO TRA LE PERSECUZIONI
DEI CRISTIANI DI CUI NON PARLA NESSUNO
(Con video TV indiana)
(a cura di Claudio Prandini)
Lo Stato indiano di Orissa, il più segnato dagli scontri
INTRODUZIONE
Al pari degli indici economici, crescono nel grande paese asiatico anche gli attacchi contro chiese e fedeli. Nel silenzio e nel disinteresse del mondo. Un reportage dallo Stato dell'Orissa, il più segnato dalle violenze.
Mentre gli occhi severi del
mondo sono puntati sulla Cina, in India violazioni altrettanto gravi della
libertà e dei diritti umani avvengono nel disinteresse generale. Con i cristiani
come vittime.
L'epicentro delle violenze è l'Orissa, uno Stato che si affaccia sul Golfo del
Bengala, a sud di Calcutta. Qui, da Natale a oggi, si sono contati 7 morti, 5
mila senza tetto, 70 chiese, 600 case, 6 conventi, 3 seminari distrutti.
"Una distesa di cenere, questo è ciò che rimane", ha esclamato il cardinale
Telesphore Toppo, arcivescovo di Ranchi, dopo una visita nelle zone colpite
dalle violenze anticristiane.
Ma anche da altri luoghi dell'India arrivano notizie allarmanti.
Nel Maharashtra, lo Stato con capitale Mumbai, nel mese di marzo due suore
carmelitane che da tredici anni svolgono il loro ministero tra le tribù fuori
casta sono state aggredite da estremisti indù. "Gridavano accusandole di operare
conversioni", hanno raccontato alcuni testimoni.
Nel Madhya Pradesh, a Pasqua, il governo ha dovuto schierare le forze
dell’ordine a difesa delle chiese: una misura presa dopo oltre cento aggressioni
dal dicembre 2003, cioè da quando il BJP, il partito nazionalista indù, ha
conquistato questo governo locale.
Negli stessi giorni, il parlamento di un altro Stato indiano, il Rajasthan, ha
approvato una legge anti-conversione che infligge una pena di cinque anni di
carcere e una multa di 50 mila rupie (circa 1250 dollari) a chi opera
conversioni "tramite forza, coercizione o frode". Con il Rajasthan, sono ora sei
gli Stati indiani dove è in vigore questo tipo di normativa, di fatto puntata
contro i missionari cristiani.
Ma il peggio avviene nell'Orissa, lo Stato indiano con quasi metà dei suoi 36
milioni di abitanti fatta di tribali e dalit, cioè i gruppi sociali più
svantaggiati dal rigido sistema delle caste. Nell'Orissa povertà, arretratezza e
modernizzazione convivono e producono una miscela esplosiva.
Ed è su questo sfondo che si scatena la violenza anticristiana. Nel disinteresse
di un Occidente tutto assorbito dal boom economico di questo gigante asiatico.
A rompere il silenzio sulla tragedia c'è il reportage riprodotto qui sotto,
pubblicato sul numero di maggio 2008 del mensile "Mondo e Missione" del
Pontificio Istituto Missioni Estere:
Testo del cartello: Non combattete contro i cristiani,
ma gareggiate con loro nel fare il bene per i poveri dell'India
Orissa, i perseguitati di serie B
di Giorgio Bernardelli
"Nel villaggio il clima tra noi e gli indù era
sempre stato buono. Li invitavamo alle nostre feste e noi partecipavamo alle
loro. Ma adesso abbiamo tutti paura". Parla della sua Baminigam padre Santosh
Kumar Singh, giovane prete dell’arcidiocesi di Chuttack e Bhubaneswar. Parla di
un villaggio come tanti altri in questa zona dell’India Orientale. Un gruppo di
case nella foresta che, all’improvviso, si trasforma nell’epicentro della più
imponente ondata di violenze anti-cristiane degli ultimi anni.
È la storia di quanto avvenuto qui in Orissa a Natale. Con le scorribande dei
fanatici indù dell’RSS che hanno lasciato dietro di sé sette morti e centinaia
di case, chiese, scuole e dispensari bruciati nel distretto di Kandhamal. E in
un clima di intimidazione che – a ormai diversi mesi di distanza – qui si tocca
ancora con mano.
Ancora alla Domenica delle Palme, ad esempio, nel villaggio di Tyiangia, una
folla istigata dai soliti noti si è radunata gridando slogan anti-cristiani. Le
violenze sono state evitate solo perché il parroco ha deciso di annullare la
processione.
Tutto è cominciato a Baminigam il 24 dicembre, vigilia di Natale. "Vuoi sapere
come è andata davvero?", chiede subito padre Santosh. Ci tiene a raccontarlo.
Perché di ricostruzioni dei fatti ne girano parecchie. E quella apparsa sui
giornali indiani cita come scintilla l’aggressione contro lo swami Laxmananda
Saraswati, un santone indù legato all’RSS che gira per l’Orissa per "riportare
alle loro origini" i tribali convertitisi al cristianesimo.
"Non è così", ribatte padre Santosh. "Tutto è nato quando la mattina del 24
dicembre ci è stato revocato il permesso di celebrare in piazza il Natale. Sono
arrivati i nostri negozianti e gli è stato detto che dovevano tornare a casa. Ci
sarà stata anche tensione. Ma dalla foresta sono subito spuntati fuori duecento
uomini armati di bastoni che hanno cominciato a distruggere e bruciare tutto".
Sono andate avanti quattro giorni queste violenze. Favorite da inspiegabili
ritardi nell’intervento delle forze dell’ordine. Con i cristiani costretti a
scappare nella foresta per sopravvivere, mentre le loro case continuavano a
bruciare. Vi sono rimasti per giorni e notti, al freddo, nutrendosi di quello
che trovavano. Finché, finalmente, le autorità locali hanno allestito delle
tendopoli. E nel distretto di Kandhamal è tornata una calma carica di tensione e
di grossi dubbi.
"Avevamo capito quello che stava per accadere", racconta mons. Raphael Cheenath,
l’arcivescovo di Chuttack-Bhubaneswar, nel cui territorio si trova il distretto
di Kandhamal. "Il 22 dicembre avevamo detto chiaramente alle autorità che per
Natale temevamo di subire violenze. Loro ci avevano promesso protezione. Invece
non hanno fatto proprio niente".
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Immagine degli scontri |
Incontro mons. Cheenath a Bhubaneswar, la
capitale dell’Orissa. Il distretto di Kandhamal dista da qui cinque o sei ore di
macchina nella foresta. Eppure in quei giorni la violenza è arrivata fino
all’arcivescovado, con una bottiglia incendiaria lanciata contro l’ingresso. E
non è un mistero per nessuno che le riunioni dell’RSS in cui si additano i
cristiani come nemici avvengano anche in questa città di 800 mila abitanti. Ma,
più dei conciliaboli segreti, sono le decisioni pubbliche a preoccupare
l’arcivescovo. L’atteggiamento perlomeno ambiguo tenuto dal governo locale,
guidato dal primo ministro Naveen Patnaik, alleato del BJP, il partito
nazionalista indù.
"A febbraio – continua l’arcivescovo – proprio qui in Orissa c’è stato un
attacco da parte dei guerriglieri maoisti. Hanno assaltato una caserma di
polizia e ucciso alcuni agenti. Lo stato di emergenza è scattato immediatamente:
nel giro di poche ore i militari sono arrivati in massa. A Natale, invece, –
quando nel distretto di Kandhamal a subire le violenze erano i cristiani – ci
sono voluti quattro giorni. Perché questa differenza di comportamento?".
Ma c’è anche il problema dell’assistenza alle vittime, ancora aperto. "Non
permettono alle nostre organizzazioni di portare aiuti", denuncia mons. Cheenath.
"Là c’è gente che ha perso tutto: hanno bruciato loro le case, sono rimasti con
i vestiti che avevano addosso. Il governo ha promesso che provvederà, ma gli
aiuti non arrivano. E la popolazione continua a soffrire".
Con le case, nel distretto di Kandhamal, è l’intero lavoro di trent’anni a
essere andato distrutto: scuole, dispensari, centri di assistenza. Persino la
casa dei Missionari della Carità, il ramo maschile dell’ordine di Madre Teresa
di Calcutta – che ospita lebbrosi e malati di tubercolosi –, è stata attaccata.
Tutto è stato lasciato per ore a bruciare, mentre i cristiani scappavano nella
foresta. E adesso si fa lezione sotto le tende. "Misereor" – l’organizzazione di
solidarietà internazionale della Chiesa tedesca – si è fatta avanti per aiutare
a ricostruire. Ma il governo dell’Orissa non dà i permessi. Allo stesso
arcivescovo per 42 giorni è stata negata la possibilità di recarsi a visitare le
comunità colpite.
"Ufficialmente – commenta monsignor Cheenath – ci dicono che è per motivi di
sicurezza. Ma la verità è che vogliono ostacolare la presenza delle
organizzazioni cristiane. Gli estremisti indù ci accusano di operare conversioni
attraverso gli aiuti. Ma è un’accusa falsa: lo hanno visto tutti qui in Orissa
nel 1999, quando c’è stato un tremendo ciclone. Furono duemila i nostri
volontari mobilitati. E aiutarono tutti, senza distinzioni". Per sbloccare
questa situazione è dovuta intervenire l’8 aprile la corte suprema indiana, con
una sentenza che ha dichiarato illegittimo il divieto.
Nel guardare questa grande città, così uguale a tante altre, si fa fatica a
credere che sia un covo di fanatici. "Sappiamo che molti indù sono contrari alle
violenze", conferma l'arcivescovo. "Privatamente ci hanno anche espresso
solidarietà. Però hanno paura di esporsi. E così questa campagna d’odio condotta
dai fanatici sta producendo risultati. Ci dipingono come i nemici, dicono
apertamente che vogliono distruggerci".
"Ma secondo lei da dove nasce tutto questo odio contro i cristiani?", gli
chiedo.
"Sono convinto – risponde l’arcivescovo – che dietro all’estremismo religioso vi
sia una motivazione più nascosta, che è di ordine sociale. Il vero problema non
sono le conversioni, ma l’opera di promozione che negli ultimi 140 anni in
Orissa i cristiani hanno compiuto a favore dei tribali e dei dalit, gli ultimi
nella scala delle caste. Prima erano come schiavi. Adesso – almeno una parte di
loro – studiano nelle nostre scuole, mettono in piedi attività nei villaggi,
rivendicano i propri diritti. E chi – anche nell’India del boom economico –
vuole mantenere intatta la vecchia divisione in caste, ha paura che acquistino
troppa forza. L’Orissa di oggi è un laboratorio. In gioco c’è il futuro dei
milioni di dalit e tribali che vivono in tutto il paese".
L’Orissa è come il nuovo laboratorio dei fondamentalisti: lo ripetono in tanti
nella comunità cristiana. Perché è vero che questo è uno degli Stati più poveri
del subcontinente. Però anche qui a Bhubaneswar qualcosa si sta muovendo. Esci
dall’arcivescovado e ti imbatti nel Big Bazar, il nuovissimo centro commerciale
in stile americano. L’aeroporto – come tutti gli scali indiani – è in
espansione. E in città crescono le torri dei centri direzionali.
"Sembra incredibile, ma quando abbiamo aperto, vent’anni fa, qui intorno c’era
ancora la giungla", racconta padre E. A. Augustine, direttore dello Xavier
Insitute of Management, uno dei vanti della città. Una facoltà di economia dalla
storia interessante: è frutto di un accordo tra il governo dell’Orissa e la
locale Provincia dei gesuiti.
Anche in uno Stato come l'Orissa in cui vige la legge anti-conversione, dunque,
non c’è alcuna difficiltà a intitolare a San Francesco Saverioun ente di diritto
pubblico. Perché in India Xavier School è ovunque sinonimo di qualità. "Tutti
vogliono le nostre strutture – continua padre Augustine –, ne riconoscono la
qualità. A parte pochi fanatici, ci rispettano. Però noi non vogliamo essere un
centro d’élite. Ad esempio, organizziamo anche corsi di management rurale,
pensati specificamente per lo sviluppo dei villaggi".
E poi – sempre qui a Bhubaneswar – c’è l’altro volto della presenza dei gesuiti.
Quello dello Human Life Center, con i suoi corsi popolari di inglese parlato per
aiutare chi è emigrato in città dalle aree rurali. O i corsi di sartoria, di
dattilografia, di informatica, per dare un’opportunità a chi non ne avrebbe
altre. E poi le sette scuole aperte direttamente negli slum di Bhubaneswar.
Perché il cambiamento deve arrivare anche lì.
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Fondamentalisti indù |
L’impressione è che alla fine il vero problema stia proprio qui. La violenza in
Orissa non è semplicemente l’eredità di un passato che l’India fa fatica a
lasciarsi alle spalle. Lo scontro riguarda il presente e soprattutto il futuro
del Paese. Riguarda una situazione sociale in cui quanti per secoli sono rimasti
ai margini cominciano ad alzare la testa. E allora chi – al contrario – vuole
mantenere lo status quo gioca la carta dell’identità minacciata.
C’è un importante appuntamento elettorale in vista: nel maggio del 2009 in India
ci saranno le elezioni generali. Il BJP – il partito nazionalista indù,
sconfitto nel 2004 dall’alleanza tra il Partito del Congresso e la sinistra –
mira alla rivincita. E – come hanno dimostrato nel 2002 le violenze contro i
musulmani in Gujarat – soffiare sulle tensioni tra gruppi religiosi è il modo
più efficace per rafforzare le fila. "Non è un caso – sostiene padre Jimmy
Dhabby, direttore a New Delhi dell’Indian Social Institute – che queste violenze
contro i cristiani siano scoppiate poche settimane dopo la riconferma alla guida
del Gujarat di Narendra Modi, uno degli esponenti di punta del BJP. E che siano
avvenute proprio in Orissa, uno Stato dove nel 2009 si voterà anche per il
governo locale".
È un gioco che – nonostante i fatti di Natale – a Bhubaneswar va avanti. Basta
aprire l’edizione locale del quotidiano "The Indian Express" in un giorno
qualunque per trovare dichiarazioni come questa, del leader del RSS K. S.
Sudar-shan: "Sono molte le minacce che incombono sulla nazione: la violenza dei
maoisti, la jihad islamica, le conversioni dei missionari cristiani. Dobbiamo
unirci per reagire. Non aspettate che altri lo facciano per voi".
La stessa inchiesta promossa dal governo dell’Orissa per fare luce su quanto
accaduto a Natale, sta procedendo con metodi alquanto discutibili. "Dopo mesi in
cui non si era saputo più nulla – ha denunciato sul suo blog John Dayal,
segretario generale dell’All India Christian Council – il giudice incaricato è
arrivato senza preavviso nel distretto di Kandhamal. Ha interrogato le suore e i
preti. Che sono rimasti a bocca aperta sentendosi domandare: Avete convertito
qualcuno qui?". Come se l’oggetto dell’inchiesta fosse l’operato dei cristiani,
non le violenze commesse dai fanatici indù.
Altro capitolo preoccupante è quello dei risarcimenti. "Finora non sono state
ancora date indicazioni ufficiali – continua Dayal –, ma sui giornali abbiamo
letto che mentre scuole, ostelli e dispensari potranno ricevere un contributo di
200 mila rupie (circa 5 mila dollari), le chiese e i conventi saranno esclusi da
ogni risarcimento. Se ciò fosse sarebbe non solo sorprendente ma offensivo. Il
principale obiettivo degli attacchi sono state proprio le chiese e i conventi.
Escluderli non ha alcun senso".
Questa è l'aria che si respira oggi in Orissa. "Sotto la cenere cova una
situazione esplosiva", denuncia Hemanl Naik, dell’Orissa Dalit Adivasi Action
Net. "Da tempo i nazionalisti indù fanno campagne per 'riconvertire' i tribali
cristiani. Non sono queste delle violazioni delle leggi anti-conversione? Perché
non le applicano?".
Dopo tante persone uccise, dopo tante case e chiese cristiane bruciate una
domanda si impone. Dove sta la differenza rispetto alle violenze islamiche in
altre regioni, alle quali – giustamente – è riservato così tanto spazio sui
media? E perché nessuno in Occidente alza la voce su ciò che accade nell'Orissa?
A Pasqua la protesta dei cristiani davanti al parlamento a New Delhi non ha
fatto notizia sui nostri giornali.
La risposta dell'arcivescovo Cheenath è amara: "L’India di oggi è un mercato che
fa gola a tutti – spiega –. Ci sono grandi interessi economici, tutti vogliono
avere buone relazioni con noi. In una situazione del genere ciò che accade alle
minoranze non interessa a nessuno".
È un grido di dolore scomodo, quello che sale oggi dai cristiani dell’Orissa.
Filmato della TV indiana sugli incidenti in Orissa
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