ISLAM E CRISTIANESIMO:
NO ALLE CROCIATE
138 STUDIOSI musulmani scrivono una
lettera al papa E ALLE CHIESE CRISTIANE
(A cura di Claudio Prandini)
introduzione
“Abbiamo una nostra road-map da seguire: fare delle religioni un nome di pace”, ha detto il porporato francese, nominato recentemente da Benedetto XVI alla presidenza del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso... Il terrorismo copre di infamia chi lo compie. Ogni violenza giustificata in nome della fede è profanazione del nome di Dio”, ha spiegato Tauran citando Benedetto XVI." Secondo il Cardinale, per molti anni segretario di Giovanni Paolo II per i Rapporti con gli Stati, “il dialogo è per tutti un pellegrinaggio e un rischio”. “Con il dialogo, infatti, accetto di mettermi in cammino per ascoltare situazioni diverse e metto me stesso a rischio davanti agli interrogativi degli altri”, ha osservato il Card. Tauran che in questi giorni ha presenziato all’Incontro Internazionale per la Pace, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, a Napoli, fino al 23 ottobre scorso sul tema: "Per un mondo senza violenza - Religioni e culture in dialogo" (Vedere qui).
Fare delle religioni un luogo di pace significa prima di
tutto capire che Dio, l'essere supremo e trascendente, è pace e amore. Gesù lo
chiamava "Padre" come per far capire quanto il Creatore sia vicino alle sue
creature. Del resto anche nel mondo islamico Dio è il "Misericordioso" e il
"Clemente", tanto che un maestro islamico diceva: «Davvero Allah ha pietà
di un servo anche per una sua sola qualità…Se Egli trova un tratto di bene in
te, come modestia, generosità o un po' d'amore ad esempio, o un cuore pacifico o
un parlare veritiero, o qualcosa di ciò nelle tue azioni per Lui, Egli ha
simpatia per te e ti prende per mano». E ancora: « «Il peccato è solo un
accidente quando la persona malata rimane avvolta nell'amore per il suo
Creatore; il suo destino è nelle mani del suo Signore. Nessun altro se non Dio
sa come decidere il suo destino» (vedere
qui).
Se il dialogo vuol dire impegno per una umanità nuova esso non può non poggiare
sui due pilastri fondamentali della civiltà umana: la legge naturale e i dieci
comandamenti. La lettera aperta dei 138 intellettuali e religiosi islamici al
Papa e alle altre chiese cristiane dimostra che una base comune esiste e che va
approfondita, cercandola appunto nell'Amore verso Dio e verso gli altri. C'è
tuttavia una cancrena, una specie di morbo mortale, che può intaccare la
dimensione religiosa dell'uomo e di conseguenza le religioni: il fondamentalismo.
Il dizionario della lingua italiana De Mauro, dà questa definizione: «tendenza a considerare la propria fede religiosa, politica e sim., fondamentale rispetto alle altre, applicandone i principi in modo rigido e intransigente». Quindi il fondamentalismo, nella sua dimensione religiosa, mina alle radici il vero volto di Dio e spinge l'uomo a pensieri e a comportamenti che non possono venire da Dio. Giovanni Paolo II diceva che l'uomo ha due ali, la ragione e la fede. Se ci fosse solo la fede, cioè la dimensione religiosa, il fanatismo e l'intolleranza sarebbero la norma, mentre se ci fosse solo la ragione, ovvero la dimensione immanente e contingente della storia umana, saremmo dei semplici animali intelligenti, molto simili a dei robot, senza però alcun sbocco o speranza nell'eternità. In altre parole saremmo senza anima e senza salvezza! Ma essendoci entrambe, la fede e la ragione, la nostra vita è chiamata alla speranza e all'amore mediante la fede, da una parte, e alla ricerca della pace e della concordia mediante la ragione dall'altra.
Dico questo perché il fondamentalismo non si nasconde solo in certi gruppi provenienti dalla cultura islamica, ma proviene anche da certe correnti religiose dell'evangelismo americano (Vedere qui), dal mondo ebraico (Vedere qui) o, più laicamente, da chi negli anni 90 in occidente (Stati Uniti e GB) teorizzava lo scontro di civiltà fra occidente e islam (Cfr. Campagna di islamofobia in Europa e Samuel Huntington), Con i fatti dell'11\9 2001 e la guerra in Iraq anche tra i cattolici è serpeggiato uno "spirito di crociata", ma grazie ai grandi papi che abbiamo avuto (ricordo il fermo no di Giovanni Paolo II alla guerra in Iraq) la Chiesa è rimasta quasi immune da questo morbo mortifero. Il tempo sta così dando ragione ai papi e la lettera dei 138 tra teologi e religiosi islamici ne è una prova. Il dialogo tra le religioni vincerà nonostante tutti i fondamentalismi tanto che se ci dovesse essere una terza guerra mondiale, che qualcuno sta purtroppo preparando, questa non verrà dalle religioni ma dall'empietà delle forze oscure di questo mondo. Dio, nel giorno del giudizio, non si scorderà certo di loro e delle loro azioni malvagie...
Claudio Prandini
Benedetto XVI con un leader islamico siriano
Un anno dopo Ratisbona, 138 musulmani
scrivono una nuova lettera al papa
Propongono come terreno d'intesa tra musulmani e cristiani i due "più grandi comandamenti" dell'amore di Dio e del prossimo. Predicati sia nel Corano che nei Vangeli. Come reagirà la Chiesa di Roma?
ROMA, 12 ottobre 2007 – Un anno fa, un mese
dopo la memorabile lezione di Benedetto XVI a Ratisbona, 38 personalità
musulmane scrissero al papa una lettera aperta nella quale in parte concordavano
e in parte dissentivano con le posizioni da lui sostenute.
I 38 appartenevano a varie nazioni e a differenti correnti di pensiero. Nel
mondo islamico era la prima volta che personalità così diverse parlavano con una
sola voce, ed esponevano al capo della più importante Chiesa cristiana i
principi dell'islam, con l'intento di arrivare a una "mutua comprensione".
Nei mesi successivi altre firme si aggiunsero a quelle iniziali e i 38 divennero
100. Ora, un anno dopo, i 100 sono diventati 138 e hanno resa pubblica una
seconda lettera, in coincidenza con la fine del Ramadan.
Rispetto alla prima, la seconda lettera ha allargato la rosa di destinatari.
Oltre che a papa Benedetto XVI, essa è indirizzata anche al patriarca ecumenico
di Costantinopoli Bartolomeo I, al patriarca di Mosca Alessio II e ai capi di
altre 18 Chiese d'oriente; all'arcivescovo anglicano di Canterbury Rowan
Williams; ai leader delle federazioni mondiali delle Chiese luterane, riformate,
metodiste e battiste; al segretario generale del Consiglio Mondiale delle
Chiese, Samuel Kobia, e in generale "ai leader delle Chiese cristiane".
Quanto al contenuto, la prima lettera sosteneva posizioni molto nette a favore
della libertà di professare la fede "senza costrizioni".
Rivendicava la razionalità dell'islam pur tenendo ferma l'assoluta trascendenza
di Dio.
Ribadiva con decisione i limiti posti dalla dottrina islamica al ricorso alla
guerra e all'uso della violenza. condannando i "sogni utopistici nei quali il
fine giustifica i mezzi".
E concludeva auspicando un rapporto tra islam e cristianesimo fondato sull'amore
di Dio e del prossimo, i "due grandi comandamenti" richiamati da Gesù nel
Vangelo di Marco 12, 29-31.
La seconda lettera parte proprio dalla conclusione della prima, e la sviluppa. I
comandamenti dell'amore di Dio e del prossimo – presenti sia nel Corano che
nella Bibbia – sono la "parola comune" che offre all'incontro tra islam e
cristianesimo "la più solida base teologica possibile".
Il testo della lettera è stato discusso e messo a punto lo scorso settembre in
un incontro tenuto in Giordania presso il Reale Istituto al-Bayt per il Pensiero
Islamico, patrocinato da re Abdullah II.
È convinzione dei promotori che, prima di questa lettera, "mai dei musulmani
hanno offerto alla cristianità una proposta di consenso così forte".
Aref Ali Nayed – teologo libico che ha firmato sia la prima che la seconda
lettera ed è autore ben noto ai lettori di www.chiesa – ha sottolineato
l'adesione di musulmani di tutte le tendenze, sunniti, sciiti, ismailiti,
jaafariti, ibaditi:
"invece che entrare in polemica, i firmatari hanno adottato, seguendo la
migliore tradizione dell'islam, una posizione di rispetto delle Scritture
cristiane. E hanno fatto appello ai cristiani perché siano non meno ma più
fedeli ad esse".
I 138 firmatari sono di 43 nazioni. Alcuni di essi vivono in Europa e negli
Stati Uniti ma la maggior parte vivono in paesi musulmani: dalla Giordania
all'Arabia Saudita, dall'Egitto al Marocco, dagli Emirati allo Yemen; ma anche
in Iran, in Iraq, in Turchia, in Pakistan, in Palestina.
Per l'Italia c'è la firma di Yahya Sergio Yahe Pallavicini, vicepresidente del
CO.RE.IS, Comunità Religiosa Islamica, che ha curato anche la traduzione
italiana ufficiale della lettera.
Alcuni dei firmatari della lettera – tra i quali Aref Ali Nayed che è stato
docente, a Roma, al Pontificio Istituto di Studi Arabi e d'Islamistica – hanno
in più occasioni incontrato dei dirigenti della curia vaticana.
I primi contatti risalgono a un anno fa. Un primo segnale pubblico di
apprezzamento da parte della Chiesa di Roma è però venuto solo dopo la
pubblicazione di questa seconda lettera.
Il 12 ottobre il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del pontificio
consiglio per il dialogo tra le religioni, ha detto alla Radio Vaticana:
"Si tratta di un documento molto interessante e nuovo, poiché proviene sia da
musulmani sunniti sia da musulmani sciiti. È un documento non polemico, con
numerose citazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento. [...] Rappresenta un
segnale molto incoraggiante, poiché dimostra che la buona volontà e il dialogo
sono capaci di vincere i pregiudizi. È un approccio spirituale al dialogo
interreligioso, che chiamerei il dialogo delle spiritualità. I musulmani e i
cristiani devono rispondere a una sola domanda: per te Dio nella tua vita è
veramente l’unico?".
Tra le posizioni espresse nella lettera e quelle di Benedetto XVI circa il
dialogo interreligioso vi è una sicura sintonia.
L'ultima volta in cui il papa ha toccato questo tema è stato lo scorso 5
ottobre.
Parlando ai membri della Commissione Teologica Internazionale, Benedetto XVI ha
indicato nella "legge naturale" e nei dieci comandamenti "il fondamento di
un'etica universale" valida per "tutte le coscienze degli uomini di buona
volontà, laici o anche appartenenti a religioni diverse".
E i dieci comandamenti si riassumono nei due "più grandi" dell'amore di Dio e
del prossimo: "la sottomissione a Dio, fonte e giudice di ogni bene, e altresì
il senso dell'altro come uguale a se stesso".
Sono gli stessi due comandamenti su cui si impernia la lettera al papa dei 138
musulmani.
In occasione di un ricevimento in Vaticano
Leader musulmani scrivono al Papa e ai capi delle
Chiese cristiane: lavoriamo insieme per la pace.
Il commento del cardinale Tauran
138 intellettuali e leader musulmani di tutto
il mondo, sia sunniti che sciiti, hanno indirizzato una lettera aperta a
Benedetto XVI e agli altri capi delle Chiese cristiane proponendo una solida
cooperazione tra cristiani e musulmani per promuovere la pace nel mondo. La
lettera, datata 13 ottobre 2007 – in occasione della fine del Ramadan - rileva
che “musulmani e cristiani insieme rappresentano più della metà della
popolazione mondiale”. “Il futuro del mondo dipende – afferma dunque la lettera
- dalla pace tra musulmani e cristiani”. “Se cristiani e musulmani non sono in
pace – si legge nel documento – il mondo non può essere in pace”. Su questa
lettera ascoltiamo il commento del cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del
Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, al microfono di Giovanni
Peduto:
R. – Direi che si tratta di un documento molto interessante, perchè è un
documento nuovo poiché proviene sia dai musulmani sunniti, sia dai musulmani
sciiti. E’ un documento non polemico, con numerose citazioni sia dell’Antico
Testamento, sia del Nuovo Testamento.
D. – Violenza e religione non possono andare insieme: cosa devono fare a questo
proposito i leader religiosi?
R. – Invitare anzitutto i loro seguaci a condividere le tre convinzioni che sono
contenute nella lettera e quindi che Dio è unico; Dio ci ama e noi dobbiamo
amare questo Dio; Dio ci chiama ad amare il nostro prossimo. Direi che questo
rappresenta un segnale molto incoraggiante, poiché dimostra che la buona volontà
e il dialogo sono capaci di vincere i pregiudizi. E’ un approccio spirituale del
dialogo interreligioso, che chiamerei il dialogo delle spiritualità. I musulmani
ed i cristiani devono rispondere ad una unica domanda: per te Dio nella tua vita
è veramente l’unico?
Rappresentatività della Lettera
Notevole è il fatto che i firmatari sono
aumentati rispetto all’anno scorso: da 38 – come era per lo scorso anno – si è
passati a 138. Essi rappresentano circa 43 nazioni, tra nazioni musulmane e
altre (in particolare occidentale). Ci sono dei gran mufti (cioè capi di fatwa
in un Paese), dei responsabili religiosi, dei studiosi e dei privati.
Fra i firmatari, oltre a rappresentanti dei due grandi gruppi sunniti e sciiti,
abbiamo anche rappresentanti di gruppi più piccoli, di sette e perfino di
tendenze divergenti, per esempio la tendenza più mistica (sufi), in maggioranza
occidentali. Vi sono ad esempio ismailiti, che sono una derivazione degli
sciiti; giafariti, anch’essi una deviazione dallo sciismo; ribaditi, che è un
vecchio gruppo dell’islam, di cui non si parla molto, ma che ha un
rappresentante nello Yemen.
Ciò indica un allargamento del consenso da parte di un certo ambiente islamico,
un passo verso ciò che l’islam chiama l’ijmaa (consenso). Nella tradizione
islamica ogni punto della fede si fonda su tre fonti: il Corano, la tradizione
muhammadiana (hadith ossia detti, e vita di Maometto), il consenso della
comunità, appunto l’ijmaa. Questo terzo passo finora non è mai stato molto
valorizzato. Anzi, c’è molta divisione nel mondo islamico: un giorno un imam
dice una cosa; il giorno dopo un altro dice una cosa diversa.
Questa lettera non dice che vi è accordo tra tutti i musulmani, ma mostra che si
va verso un certo consenso. Questa convergenza è avvenuta sotto l’egida del re
di Giordania e della fondazione Aal al-Bayt (cioè la Famiglia del Profeta
dell’islam), guidata dallo zio del re, il Principe Hassan. Quest’uomo
rappresenta forse quanto di meglio oggi esiste nell’Islam, dal punto di vista
della riflessione, dell’apertura e anche della devozione. Pur essendo un
musulmano credente e devoto, egli è sposato a una donna indù che – fatto
insolito nell’Islam attuale - non ha dovuto convertirsi all’islam, cosa che
invece viene richiesto alle cristiane oggi in Occidente, ma che non è previsto
per nulla dal Corano.
Il primo punto positivo della lettera è perciò la sua rappresentatività, il suo
provenire da un gruppo convergente. La lettera è rappresentativa anche perché è
inviata a tutto il mondo cristiano. Se si prende l’elenco dei destinatari,
abbiamo un quadro molto completo e accurato: oltre al papa, abbiamo tutte le
tradizioni dell’Oriente cristiano, i patriarchi delle Chiese calcedoniane e
pre-calcedoniane; poi le Chiese protestanti e infine il Consiglio mondiale delle
Chiese. Il che mostra che dietro questa lettera vi è qualcuno che conosce bene
il cristianesimo e la storia della Chiesa.
La struttura
Venendo al contenuto, risalta il fatto che il
titolo è preso dal Corano: “Una parola comune tra noi e voi” (Sura della
famiglia di Imran, 3:64). Questo è ciò che nel Corano Maometto dice ai
cristiani: quando vede che non riesce a mettersi d’accordo con loro, allora
dice: Venite, accordiamoci almeno su una cosa comune: che non adoriamo che un
solo Dio (cioè sull’unicità divina) “e che non prenderemo alcuni di noi come
padroni all’infuori di Dio”.
Da notare che questa parola comune nel Corano, non prende in considerazione
alcuna definizione su Maometto. In questa frase non si parla di Maometto come il
profeta, o l’ultimo messaggero di Dio. Ciò che qui viene sottolineato come
parola comune è l’unicità di Dio. Il che è anche un passo positivo, pur partendo
sempre dal Corano.
La struttura comprende tre parti: la prima è intitolata “L’amore di Dio”,
suddivisa in due sottoparti, “L’amore di Dio nell’islam” e “L’amore di Dio come
primo e più grande comandamento nella Bibbia”. In realtà, il titolo arabo
originale è più preciso: dice “nel Vangelo”. Mettere la parola “Bibbia” (che
comprende l’Antico e il Nuovo Testamento) permette di integrare in questo
discorso anche il giudaismo (sebbene la lettera sia indirizzata solo ai
cristiani). La seconda parte è intitolata “L’amore per il prossimo” (hubb al-jâr).
Anche qui si divide in due sezioni: «l’amore per il prossimo nell’islam» e
«l’amore per il prossimo nella Bibbia». Di nuovo, l’originale arabo dice “nel
Vangelo”.
La terza parte conclude riprendendo la citazione coranica: “Venite a una parola
comune tra noi e voi”, e offre un’analisi interessante in tre parti: “parola
comune”, ““Venite a una parola comune” e “Tra noi e voi”.
Giovanni Paolo II con
un leader islamico
La risposta dei protestanti mondiali
alla
lettera dei leader musulmani
Samuel Kobia:
"Speranza per ciò che le persone di fede possono fare insieme"
Roma (NEV),
17 ottobre 2007 - Reazioni positive sono giunte dal mondo evangelico
internazionale alla lettera che 138 esponenti musulmani hanno indirizzato l’11
ottobre ai leader cristiani del mondo, la quale invita al dialogo e afferma che
il mondo non può vivere in pace se i cristiani e i musulmani non vivono in pace.
Tra i destinatari della lettera, il pastore Samuel Kobia, segretario generale
del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC), i pastori Clifton Kirkpatrick e
Setri Nyomi, rispettivamente presidente e segretario generale dell’Alleanza
riformata mondiale (ARM), e il vescovo Mark Hanson, presidente della Federazione
luterana mondiale (FLM).
"È significativo - ha dichiarato Kobia - che la lettera sia firmata da un così
vasto gruppo di leader e intellettuali musulmani di tutto il mondo, cosa che lo
rende un fatto senza precedenti. Una così rara unità di intenti dà molta
speranza per ciò che le persone di fede possono fare insieme", ha concluso.
Per i rappresentanti dell’ARM Kirkpatrick e Nyomi l’appello musulmano è giunto
in un momento quanto mai opportuno: "Concordiamo sul fatto che le persone di
fede abbiano la capacità, anzi la responsabilità, di desumere dalle risorse
delle nostre diverse tradizioni di fede che dobbiamo lavorare insieme per la
pace, in un mondo in cui i sentimenti religiosi sono stati erroneamente usati
per fomentare il conflitto e la guerra".
Il vescovo Hanson, che considera la lettera una testimonianza dell’amore di Dio,
ha risposto: "Incoraggio tutti a leggere la bellezza di questi passi dei testi
sacri delle fedi abramitiche, che mostrano la visione di Dio su come e chi amare
in un mondo spezzato. Questa comune visione per ebrei, musulmani e cristiani
significa fedeltà e comunione in un mondo in cui il conflitto offende la nostra
comune eredità di figli di Dio".
APPENDICE
Appello per la Pace al termine
dell’Incontro dei leader religiosi a Napoli
NAPOLI, martedì, 23 ottobre 2007 (ZENIT.org).-
Pubblichiamo l'Appello per la Pace lanciato a conclusione dell'Incontro
Internazionale Uomini e Religioni, svoltosi a Napoli dal 21 al 23 ottobre.
Uomini e donne di religione diversa, provenienti da tante parti
del mondo, ci siamo riuniti a Napoli per stringere legami fraterni, per invocare
da Dio il grande dono della pace. Il nome di Dio è la pace.
Nel cuore del Mediterraneo e di questa straordinaria città, che ben conosce la
miseria e la grandezza del cuore, ci siamo chinati sulle ferite del mondo. C’è
una malattia che tutto inquina e che si chiama violenza. La violenza è la cupa
compagnia quotidiana di troppi uomini e donne del nostro pianeta.
Si fa guerra, terrorismo, povertà e disperazione, sfruttamento del pianeta. Si
alimenta di disprezzo, stordisce nell’odio, uccide la speranza e semina paura,
colpisce gli innocenti, sfigura l’umanità. La violenza tenta il cuore dell’uomo
e gli dice: “nulla può cambiare”. Questo pessimismo fa credere che è impossibile
vivere insieme.
Da Napoli possiamo dire con più forza di ieri che chiunque usa il nome di Dio
per odiare l’altro, per compiere atti di violenza, per fare la guerra, bestemmia
il nome di Dio.
Come ci ha detto Benedetto XVI: “Mai, invocando il nome di Dio, si può arrivare
a giustificare il male e la violenza”.
Ci siamo chinati sulle nostre tradizioni religiose, abbiamo ascoltato il dolore
del Sud del mondo, e abbiamo sentito il peso del pessimismo che si leva dal
Ventesimo secolo col suo carico di guerre e di illusioni cadute. C’è bisogno
della forza dello Spirito di amore che aiuta a ricostruire e riunire un’umanità
divisa. La forza dello spirito cambia il cuore dell’uomo e la storia.
Entrando nel profondo delle nostre tradizioni religiose abbiamo riscoperto come,
senza dialogo, non c’è speranza e si è condannati alla paura dell’altro. Il
dialogo non annulla le differenze. Il dialogo arricchisce la vita e scioglie il
pessimismo che porta a vedere nell’altro una minaccia. Il dialogo non è
l’illusione dei deboli ma la saggezza dei forti che sanno affidarsi alla forza
debole della preghiera: la preghiera cambia il mondo e il destino dell’umanità.
Il dialogo non indebolisce l’identità di nessuno ma provoca ognuno a vedere il
meglio dell’altro. Nulla è mai perduto con il dialogo, tutto è possibile con il
dialogo.
A chi ancora uccide, semina il terrorismo e fa la guerra nel nome di Dio
ripetiamo: “Fermatevi! Non uccidete! La violenza è sempre una sconfitta per
tutti”.
Ci impegniamo a cercare e a proporre ai nostri correligionari l’arte del
convivere. Non c’è alternativa all’unità della famiglia umana. Occorrono
costruttori coraggiosi, in tutte le culture, in tutte le tradizioni religiose.
Abbiamo bisogno della globalizzazione dello spirito che fa vedere quello che non
si vede più, la bellezza della vita e dell’altro, in ogni circostanza, anche la
più difficile.
Le nostre tradizioni religiose ci insegnano che la preghiera è una forza storica
che muove i popoli e le nazioni. Umilmente, mettiamo questa saggezza antica al
servizio di tutti i popoli e di ogni uomo e di ogni donna, per aprire una nuova
stagione di libertà dalla paura e dal disprezzo dell’altro. E’ lo spirito di
Assisi che qui, da Napoli, si oppone con forza e coraggio allo spirito di
violenza e a ogni abuso della religione come pretesto per la violenza.
Certi che, su questa strada, la pace può diventare un dono per il mondo intero,
ci affidiamo all’Altissimo.
***
Il Pontificio Istituto di Studi Arabi
commenta la lettera dei 138 musulmani
“Un evento altamente significativo”
ROMA, venerdì, 26 ottobre 2007 (ZENIT.org).-
“Un evento altamente significativo, che non va passato sotto silenzio”. Così
hanno commentato i membri del Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica
(PISAI) di Roma la lettera aperta che 138 tra i principali intellettuali e muftì
musulmani di tutto il mondo hanno indirizzato a Benedetto XVI e alle altre guide
delle Chiese cristiane.
Lo sostengono in un documento diffuso questo giovedì e firmato dal Preside del
PISAI, p. Miguel Ángel Ayuso Guixot, dal Direttore degli Studi, p. Etienne
Renaud, e dai professori p. Michel Lagarde, p. Valentino Cottini e p. Felix
Phiri.
In primo luogo, si dicono “colpiti dai larghi orizzonti in cui questo testo si
pone”: “larghezza nei firmatari, centotrentotto personalità musulmane di
numerosi Paesi e di tutti i continenti, la cui appartenenza presenta sfumature
diverse; larghezza nei destinatari, tutte le guide delle diverse Chiese
cristiane, ventotto delle quali nominate esplicitamente”.
Allo stesso modo, viene anche sottolineata “l’estensione dell’ambito proposto,
che comprende i musulmani, i cristiani, gli ebrei e gli uomini di tutto il
mondo”.
La lettera, datata 13 ottobre 2007 e resa nota in occasione della fine del
Ramadan, lanciava la proposta per una più solida cooperazione tra cristiani e
musulmani nella promozione della pace nel mondo.
Gli autori del testo “non si rifugiano in una sterile rivendicazione difensiva
dell’umma [comunità, ndr.]; si pongono piuttosto come partner dell’intera
umanità, per la quale propongono il loro proprio modo di concepire i fondamenti
e i principi – riconosciuti anche dalle altre comunità – in vista di preservarne
la sopravvivenza in una pace generale ed effettiva”.
Tratto importante è inoltre “l’ampiezza delle prospettive”, sottolineano. Gli
autori del testo si interessano infatti “sia alla sorte del mondo attuale, in
gioco qui e ora, sia al mondo delle ‘anime eterne’, in gioco altrove e nel
futuro”.
“La duplice prospettiva, insieme immanente e trascendente, mette in moto in
questo discorso una corrente forte e liberatrice”.
Lo staff del PISAI si dice quindi colpito “dal carattere fondamentale del
discorso, che pone in campo Dio e l’uomo”.
“È molto più facile limitarsi a idee generose, ma vaghe e generiche, piuttosto
che attirare l’attenzione sull’urgenza dei diritti di Dio e dell’uomo, che
esigono da ciascuno un’attenzione costante e un amore attivo e concreto”.
“Siamo impressionati anche dall’attenzione sincera, prestata dai firmatari della
lettera, al riferimento principale che fonda l’altro in quanto ebreo o
cristiano, cioè al doppio comandamento dell’amore di Dio e del prossimo nel
Deuteronomio e nell’Evangelo di Matteo”, proseguono.
La volontà di riconoscere l’altro nel desiderio più profondo di ciò che egli
vuole essere è visto come “uno dei punti nodali del documento”.
E’ solo questa volontà che può garantire il successo di una relazione vera tra
comunità culturalmente e religiosamente differenti, sostengono.
E’ apprezzabile, continuano i membri del PISAI, anche il modo in cui gli autori
del testo, in quanto musulmani, vedono in questi due comandamenti la definizione
stessa della loro identità.
Non lo fanno, sottolineano, “per compiacenza né per politica, ma in verità, solo
a partire dalla proclamazione dell’unicità divina, perno della fede musulmana”.
L’accettazione radicale dell’unicità divina, infatti, “è una delle espressioni
più autentiche dell’amore dovuto a Dio solo”, e “l’amore di Dio è indissociabile
da quello del prossimo”. La fede, come ribadisce il Corano, non è mai separata
dalle buone opere.
Il realismo dimostrato dai firmatari della lettera“non impedisce loro di avere
una visione positiva degli ostacoli e delle differenze che rimangono tra noi, al
punto che, fedeli alla tradizione coranica che li ispira, non vi vedono che
un’occasione per la ricerca del bene comune”.
“Stimolati dal loro atteggiamento, vogliamo ritenere anche noi l’interpretazione
massimalista, secondo la quale i testi del Corano e della Tradizione profetica
non limitano ai soli membri dell’umma i benefici che ogni musulmano è
tenuto a prodigare al suo prossimo in nome della sua fede in Dio e del suo amore
esclusivo per lui”, ammettono.
“Un tale documento ci incoraggia a proseguire decisamente il nostro impegno,
affinché la differenza delle nostre lingue e dei nostri colori, cioè le nostre
differenze culturali profonde, lungi all’imbrigliarci nel sospetto, nella
diffidenza, nel disprezzo e nel dissenso – come spesso si è verificato nelle
nostre relazioni non solo nel passato ma anche in questo nostro tempo attuale –
siano percepite come segni per coloro che comprendono, cioè, come una
misericordia che proviene dal Signore nostro”, concludono i membri del PISAI.
APPROFONDIMENTO
Una parola comune tra noi e voi
Trovi il testo integrale della lettera dei 138 nel sito ad essa
dedicato,
nelle versioni inglese, francese, italiana e araba:
La lezione pronunciata il 12 settembre
2006 da
Benedetto XVI a Ratisbona:
ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA LETTERA
di Samir Khalil Samir, sj
Rapporto tra Cristianesimo e Islam
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Islam e Cristianesimo: un dialogo possibile?
Elena Bolognesi si occupa di dialogo interreligioso, ha vissuto per sette
anni in Siria, attualmente insegna arabo e collabora con Caritas
Ambrosiana per progetti di cooperazione allo sviluppo in medio oriente.