E C O N O M I A :
ITALIA A RISCHIO DEFAULT? C'È
CHI DICE DI SI E C'È CHI DICE DI NO!
Tuttavia, il turbo-capitalismo terminale di quest'ultimi decenni sta tirando
le cuoia perché è il dogma monetario stesso, sul quale si fonda il
capitalismo, che è marcio dalla radice! Vediamo il perché...
(si prega di vedere i video altrimenti non si comprende tutto il discorso)
(a cura di Claudio Prandini)
INTRODUZIONE
Quale futuro per l'economia italiana?
Il quotidiano francese Le Monde ha ospitato martedì 4 marzo un dibattito virtuale sulle sorti dell'economia italiana dal titolo "Potrà l'Italia ritornare alla crescita?". L'articolo è, sfortunatamente, disponibile solo a pagamento sul sito di Le Monde ma è disponibile in versione PDF nella rassegna stampa del Ministero del Tesoro.
Protagonisti del dibattito sono Francesco Daveri, Ordinario di Economia all'Università di Parma e sostenitore del no, e Giovanni Ajassa, responsabile dell'Ufficio Studi di BNL e sostenitore della futura crescita italiana.
Secondo Daveri, il ritorno ai tassi di crescita degli anni Ottanta "non si avrà nei prossimi 5 anni": esistono solo due possibilità, per il docente, di raggiungere tale obiettivo ma entrambe altamente improbabili. "Seguire l'esempio spagnolo e accelerare la creazione di posti di lavoro portando a termine la riforma del mercato del lavoro" è la prima opzione: impossibile da realizzare per il leader della destra, Silvio Berlusconi e difficile anche per il suo avversario Walter Veltroni nonostante i sindacati siano più propensi nei suoi confronti.
L'altra opzione, secondo Daveri, praticabile solo a lungo termine sarebbe "il modello finlandese di sostegno alla produttività": un'opzione che richiede di "rivedere radicalmente il sistema formativo e lasciare operare la piena concorrenza in modo che le migliori aziende possano raccogliere maggiori profitti, rendendo socialmente sostenibile questa liberalizzazione finanziando degli strumenti di sicurezza per i più vulnerabili".
E' decisamente più ottimista Giovanni Ajassa, confidente nella "capacità di ritornare a medio termine ad una crescita del 2-2,5% accompagnata da una inflazione più contenuta che negli anni Ottanta". Gli ingredienti individuati per questo successo sono "il dinamismo delle aziende industriali e la solvibilità finanziaria delle imprese" alla base della ripresa a cui si deve necessariamente aggiungere "un balzo nella produttività". Un balzo necessario per "tradurre la crescita dell'occupazione in un rialzo dei ricavi delle aziende e per migliorare la competitività delle esportazioni": si tratta, secondo Ajassa, di "una sfida che richiederà un miglior sistema educativo più selettivo, meno burocrazia ed un sistema giudiziario più efficace".
IL DOGMA MONETARIO
Draghi... Il
pinocchio di Bankitalia!!!
Sacconi: «L'Italia rischia di andare a finire
come l'Argentina». Ma poi corregge il tiro
Il ministro del Welfare a «Economix»: «Nessun dissidio con
Tremonti. Sono preoccupato per il rischio di "default"»
Fonte web - Il Corriere della Sera (04/12/08)
Maurizio Sacconi (Lapresse) |
ROMA - Rischiamo di finire come l'Argentina. È una fosca previsione quella fatta dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi durante la registrazione della puntata di Economix: «Come Tremonti sono anche io vincolato dal debito pubblico e sono anche io preoccupato per il rischio di "default" del Paese. E c'è qualcosa di peggiore della recessione, che è la bancarotta dello Stato, un'ipotesi improbabile ma comunque possibile». Sacconi ha sottolineato come «non possiamo permetterci neanche lontanamente che vada deserta un'asta pubblica di titoli di Stato. Ci sarebbe una carenza di liquidità per pagare pensione e stipendi e faremmo come l'Argentina».
«NESSUN RISCHIO BANCAROTTA» - In serata il ministro ha corretto il tiro: «Sono costretto a intervenire dalla disinvoltura con cui alcuni hanno interpretato una considerazione più volte ripetuta circa la necessità di tenere alto il livello di guardia sul debito pubblico, attribuendomi addirittura un presunto rischio bancarotta. Non ho mai detto né lasciato intendere che vi può essere un rischio di tale natura». Sacconi sottolinea di aver affermato «che il debito pubblico costituisce per la sua dimensione un vincolo ineludibile per le politiche di spesa. La robusta politica di controllo della finanza pubblica, che abbiamo realizzato con la manovra di giugno, ci mette quindi al riparo da ogni pericolo ed è all'interno di essa che abbiamo definito il pacchetto di misure per sostenere la crescita e proteggere il disagio sociale».
TREMONTI PREOCCUPATO - Tremonti nel primo pomeriggio aveva invece ricordato che il debito italiano è il «terzo del mondo» e spiegato che i pericoli più che dalla finanza pubblica vengono dal mercato. Il responsabile della politica economica del governo no aveva usato toni allarmistici e anzi aveva ricordato che la crisi ha mostrato come pericoloso sia anche il debito privato, che vede esposti altri Paesi e non l'Italia.
PATTO NON SI TOCCA - Il patto di stabilità europeo è «un muro invalicabile». Lo avrebbe detto, secondo quanto riportano alcuni partecipanti, il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, replicando alle domande dei senatori del Pdl durante un incontro su Finanziaria e decreto anti-crisi nella serata di mercoledì. Di fronte alle sollecitazioni dei senatori su questo punto e sulle possibili ricadute sul patto interno, Tremonti ha ribadito che il rapporto deficit-Pil al 3% non può essere sforato. E riguardo a una sua possibile flessibilità ha evidenziato che questo «è tutto da discutere a livello europeo» così come «anche una sua ricaduta» sul Patto di Stabilità Interno.
COMPETITIVITA’ TITOLI DI STATO - «Un'ulteriore criticità - aveva detto Tremonti nel pomeriggio - è che, ferma la magnitudine del nostro debito, in futuro lo scenario sarà più competitivo con le crescenti emissioni di altri Paesi». In pratica, sostiene il ministro dell'economia, l’Italia deve riuscire a rispettare i limiti imposti dal Patto di stabilità per evitare difficoltà nella collocazione dei titoli di Stato italiani e nello spread (ovvero nel differenziale dei tassi d’interesse riconosciuti agli acquirenti) con gli altri Paesi. (....)
il futuro economico Italiano assomiglia
a quello argentino degli anni 90?
OTTOBRE ROSSO:
ASPETTANDO IL DEFAULT?
Fonte web - di Eugenio Benetazzo (15/07/09)
Riceviamo
ogni giorno bombardanti rassicurazioni da portavoce di organi istituzionali che
il peggio sembra sia passato e che per rilanciare l'economia bisogna solo
iniziare a spendere e consumare. Tutto questo in evidente contraddizione con
quanto si sta paventando invece negli States, innanzi alla più grande crisi
occupazionale della loro storia, forse peggiore di quella degli Anni Trenta. Più
che affermare che il crollo è terminato mi sento di dire che siamo innanzi ad un
rallentamento della caduta. La mia personale view vede infatti un sostanziale
miglioramento del climax finanziario a livello interbancario dovuto soprattutto
agli interventi di stato ed a un ridimensionamento degli impieghi. Su
quest'ultima voce ritengo che abbiano molto da raccontarci tutti i piccoli e
medi imprenditori che in questi ultimi mesi oltre ad una contrazione violenta
dei loro fatturati, adesso si vedono negato o revocato l'accesso al credito:
inutile dire di come tutto questo avrà spiacevoli conseguenze sulla fiscalità
diffusa.
Qui sta il vero pericolo in questo momento di mercato ovvero come gestire nei
prossimi trimestri il crollo dei fatturati che in prima battuta si riversa in
contenziosi occupazionali e sucessivamente va a ledere la vita intrinseca
dell'apparato statale. Vedo infatti che nonostante si possano reperire dati
agghiaccianti sulla dimensione della crisi, nessuna forza (o forse bisognerebbe
dire farsa) politica si sta preooccupando di come gestire o tamponare l'ormai
annunciato crollo del gettito fiscale che si sta delineando per l'anno d'imposta
2009.
Già alla fine del primo bimestre di quest'anno Bankitalia ha emesso un gravoso
monito sulla sensibile contrazione delle entrate, suscitando non poche
preoccupazioni su come verranno gestite le minori entrate. A riguardo per ben
comprendere i rischi che si stanno delineando per il sistema Italia (al pari di
altri paesi occidentali) mi permetto di riassumere la dinamica evolutiva della
fiscalità diffusa, in modo da consentire a tutti di voi di percepire la reale
dimensione della spesa pubblica italiana.
Dai dati riferiti alla fine del 2008 possiamo ricavare la seguente torta che
ripartisce il debito italiano (oltre 1.660 miliardi di euro) in quattro
contenitori: 3/4 del debito sono titoli a medio lungo termine (metà dei quali in
mano ad investitori non residenti) ed il restante suddiviso in prestiti e debiti
a breve termine. Significativo è il contributo della raccolta postale che
concorre a finanziare quasi un decimo del debito. Tutto questo montante di
debito genera interessi passivi per oltre 80 miliardi di euro, oltre il 5 % del
PIL (significa che l'azienda Italia è finanziariamente oppressa e a meno di
fenomenali colpi di spugna non vi è possibilità di ripresa, in quanto gli oneri
finanziari incidono eccessivamente sulla vita del paese minandone la capacità di
ripresa).
Lo stato italiano è un'azienda come tante altre con costi e ricavi propri: i
costi sono le spese necessarie a mantenere la sua infrastruttura ed a pagare gli
stipendi al personale statale, mentre i ricavi rappresentano le entrate che
derivano dall'imposizione fiscale diretta ed indiretta. Il duplice grafico a
torta descrive invece come spende e come incassa lo stato italiano, suddividendo
per aree di spesa e categorie di entrata.
Tanto per iniziare potete notare come le entrate siano superiori alle uscite di
circa 15 miliardi di euro, questo statisticamente è in linea delle attese in
quanto si verifica regolarmente negli ultimi cinque anni, tuttavia non
rappresenta il bilancio complessivo delle spese ed entrate per lo stato in
quanto dobbiamo aggiungere anche le voci di entrata e spesa delle partite in
conto capitale (come investimenti e contributi alla produzione) che negli ultimi
cinque anni sono state sempre superiori ai 50 miliardi, portando quindi
l'indebitamento netto ad oltre i 40 miliardi (questo significa che l'azienda
Italia ha necessitato negli ultimi cinque anni di almeno 40 miliardi, 43 per
essere precisi nel 2008, al fine di essere finanziarimente in equilibrio):
questa considerazione spiega perchè il debito pubblico è in continua
lievitazione.
Il bilancio dello stato per quel che concerne la fiscalità diffusa pesa circa la
metà del debito pubblico a medio e lungo termine, con 666 miliardi suddivisi tra
imposte dirette, indirette e contributi sociali: questo fa comprendere
l'effettivo carico di oneri a cui sono gravati contribuenti e mondo
imprenditoriale. Particolarmente inquietante è il peso che ha il welfare
italiano sul PIL (ovvero il pagamento di pensioni sociali, di anzianità e di
vecchiaia) che assorbe quasi il 40 % delle entrate correnti, a dimostrazione di
come ormai il Titanic Italia si stia trasformando sempre più in un cimitero di
elefanti. Curiosità: nella voce altre entrate il peso delle accise sugli
idrocarburi si attesta a 20 miliardi di euro (in linea con la media degli ultimi
cinque anni), mentre raddoppia decisamente il contributo apportato da lotto e
lotterie, passando dai 6 miliardi del 2003 ai 12 del 2008.
La voce di spesa più interessante in termini di analisi per macroaree è relativa
agli stipendi del personale, oltre 170 miliardi, suddivisa in 94 miliardi per il
personale delle amministrazioni pubbliche ed in 78 miliardi per gli enti locali
e previdenziali (gli impiegati e dirigenti di INPS & Company costano nemmeno 4
milardi). Focalizzandosi sulle spese per il personale per tenere in piedi gli
apparati ministeriali si scopre quanto segue (guardate la torta):
Pubblica istruzione, difesa e ministero dell'economia rappresentano oltre il 70
% della spesa per stipendi all'apparato statale (fa riferimento al ministero
dell'economia per esempio tutto il corpo della Guardia di Finanza). Da una
attenta analisi si palesa come la voce riferita un tempo alla "sanità" sia del
tutto inconsistente: nella fattispecie il nuovo Ministero della Salute e del
Lavoro risulta semplicemente coordinare e gestire l'Istituto del Servizio
Sanitario Nazionale, il quale eroga prestazioni sul territorio attraverso enti
locali quali le aziende ospedaliere (facenti parte del bilancio delle
amministrazioni locali e non centrali). Pertanto il peso della cosidetta sanità
pubblica (almeno dal punto di vista dell'onere occupazionale) deve essere
estrapolato dai 78 miliardi di cui si menzionava precedentemente: per ragioni
espositive me ne occuperò in un prossimo redazionale.
Sulla base di quanto sino ad ora esposto proviamo a fare una disamina sullo
scenario dei conti pubblici italiani, se le entrate caleranno in proporzione al
crollo del PIL possiamo stimare un gettito minore di 20/25 miliardi rispetto al
2008, senza considerare che ci sono piccole e medie imprese che stanno valutando
addirittura di chiudere per sempre la propria attività (a mio avviso stanno
percorrendo la strada migliore). I costi di esercizio dell'azienda Italia
purtroppo sono difficilmente negoziabili, dispetto magari un'azienda industriale
che può chiedere l'intervento della Cassa Integrazione Guadagni o meglio ancora
ridefinire parte dei propri costi industriali come gli oneri di manodopera. Non
è possibile delocalizzare gli insegnanti delle scuole italiane e nè diminuire le
prestazioni del servizio sanitario o il pattugliamento del territorio da parte
delle forze dell'ordine. Ad ottobre pertanto bisognerà pensare dove iniziare a
tagliare oppure come raccogliere velocemente 40/50 miliardi di euro, in questo
senso abbiamo in pole position il prossimo condono per il rientro di nuovi
capitali oltre frontiera, il quale se produrrà i risultati finanziari attesi non
farà altro che spostare in avanti il problema.
Le uniche area di spesa sulle quali è possibile intervenire velocemente sono
rappresentate dagli oneri sul debito pubblico, che se fossero semplicemente la
metà degli attuali permetterebbero un avanzo netto annuale di oltre 40 miliardi,
significa che ogni anno lo stato italiano avrebbe 40 miliardi (quasi il 3 % del
PIL) da poter spendere per abbattere ancora il montante di debito residuo oppure
per politiche sociali con interventi a pioggia sul territorio. Considerando che
metà del debito a medio lungo termine è in mano ad investitori non residenti
potrebbe essere proposta una qualche forma di congelamento degli interessi al
fine di limitare l'onere finanziario: questa affermazione vi potrà sembrare
azzardata o ridicola, tuttavia la matematica ormai non lascia molto
all'immaginazione per quanto abbiamo sin'ora trattato. Ricordo che quando
l'Argentina dichiarò il proprio default (ovvero impugnò il proprio debito), il
rapporto debito/PIL si attestava oltre il 120 per cento ed i 3/4 del debito
erano sottoscritti da investitori esteri. Alla fine del 2008 il rapporto
debito/PIL italiano era al 105 per cento: ora considerando che al momento in cui
scrivo, questi dati riguardavano più di sei mesi fa, mentre oggi sappiamo che il
debito pubblico italiano si attesta a 1.750 miliardi di euro e le proiezioni sul
PIL italiano parlano di una contrazione superiore al cinque per cento (visione
ottimistica), mi verrebbe da dire che il debito/PIL italiano per la fine del
2009 potrebbe stimarsi oltre il 115 per cento.
Ognuno di voi pertanto tragga le relative conclusioni: almeno questi sono dati
contabili oggettivi che non possono essere smentiti o tacciati di catastrofismo.
Purtroppo anche per il nostro paese si delinea sempre più il cosidetto scenario
argentino ovvero uno scenario per il paese con un'economia debole e una moneta
troppo forte che porta alla perdita di competitività e al continuo ricorso
all'indebitamento. Non mi stupirei se venisse paventata anche una
superpatrimoniale improvvisa sui depositi con prelievi coatti per tamponare il
più possibile l'emorragia finanziaria che si sta delineando per i prossimi
semestri (vi ricordo che già nel 1991 il Governo Amato si inventò il prelievo
del 6 per mille su tutti i depositi dalla sera alla mattina).
Altre soluzioni che consentano di risolvere velocemente quanto sollevato non ne vedo, a meno di iniziare a tassare la prostituzione o ridefinire la spesa di rappresentanza popolare (dal consigliere comunale all'europarlamentare passando dal dirigente dell'ASL). Su queste considerazioni intravedo pertanto un clima politico da ottobre rosso per il nostro paese con l'attuale governo che potrebbe esporsi ad una improvvisa destabilizzazione politica a causa della continua cantilena messa in onda ogni giorno sul tubo catodico del tutto va bene a fronte di un peggioramento ingestibile dei conti pubblici. La recente candidatura di Beppe Grillo alla guida del PD (che mi sento di appoggiare pienamente), qualora lo portasse alla guida del partito, forse potrebbe dare quella sterzata improvvisa al timone del Titanic Italia per evitare di colpire l'iceberg che ormai si è avvistato a prua. E per una volta tanto non ci sarebbe niente da ridere con un comico alla guida di un movimento popolare che punta ad un rinnovamento e rinascita nazionale.
Il presidente della Fed, Ben Bernanke
Idee disperate per la
crisi che peggiora
Fonte web - Maurizio Blondet (21/06/09)
Per tentare di contrastare la deflazione,
in Giappone si sta ventilando un estremo rimedio: l’adozione di tassi negativi
sui prestiti e depositi (1).
Quando si instaura la deflazione, si innesca un circolo vizioso. I prezzi delle
merci ribassano, il che induce i compratori a ritardare gli acquisti in attesa
di ulteriori ribassi; le aziende produttrici riducono la produzione (ciò che
aumenta il costo di ogni singolo oggetto prodotto), e licenziano (il che riduce
il potere d’acquisto dei consumatori), generando altri consumatori non più in
grado di consumare; ciò ribassa ulteriormente i prezzi delle merci, il cui costo
unitario è invece aumentato per l’impresa. I profitti delle imprese si riducono
o diventano negativi; le imprese non sono più in grado di rifondere i fidi,
ossia di servire il loro debito, pagando i tassi richiesti dalle banche. Quando
c’è la deflazione, anche il tasso zero sui prestiti - in Giappone vige da anni -
è eccessivo. Occorre adottare tassi negativi: ma come convincere chi ha 100 yen
a metterli in banca per ottenerne, a fine anno, solo 96?
E’ il problema cui si applicò Silvius Gesell, l’economista selvaggio lodato da
Keynes e da Ezra Pound, che trovò la soluzione: emettere moneta «deperibile»
(2). Ossia banconote che, per essere
mantenute in corso, dovevano essere bollate una volta al mese. Il costo del
bollo, diciamo 1 euro per mantenere in corso un biglietto da 100, configura un
interesse negativo del 12% l’anno, o se vogliamo un’inflazione predeterminata, o
se si vuole una tassa sulla deflazione. Spinge i detentori a non tesaurizzare il
denaro e a spenderlo, rimettendo in moto l’economia.
Ma i responsabili giapponesi non vogliono adottare il sistema Gesell. Ne hanno
in mente uno più fatale: l’abolizione della moneta fisica, delle banconote. La
moneta fisica - ragionano - è un titolo al portatore a interesse zero (troppo
alto: fra due o venti mesi di deflazione, gli stessi 100 yen varranno di più,
potranno comprare più merci). Invece, l’abolizione delle banconote fisiche
obbliga tutti ad effettuare i pagamenti in via elettronica, con carte di credito
e chips. E su questi depositi virtuali e forzosi, la Banca Centrale può
applicare tassi negativi a piacere. Di fatto praticando un prelievo fiscale
aggiuntivo su chi non spende.
Ma perchè non adottare la moneta bollata di Gesell? Pare evidente: con la moneta
elettronica obbligatoria, i banchieri ottengono l’esaudimento del loro sogno
proibito: il controllo totale sul borsellino di ogni singolo cittadino.
Saprebbero quanto ciascuno possiede. Non esistendo più una moneta al portatore,
cesserebbe ogni anonimato, e nessuno potrebbe tenere più una riserva sotto il
materasso (come già fanno i giapponesi, visto che tenere i soldi in banca rende
zero e meno di zero, con le spese). Nulla sfuggirebbe alla iper-tassazione e
alle manipolazioni bancarie. Difatto, un esproprio assoluto.
E’ il progetto più vicino al marchio della Bestia di cui parla l’Apocalisse, di
cui chi ne fosse privo «non può nè vendere nè comprare». Il totalitarismo
finanziario finalmente compiuto. Il Grande Fratello di Orwell si rivela come il
sistema bancario capitalista e terminale.
L’idea è politicamente difficile da realizzare, dice il Times da cui traggo la
notizia: in Giappone il circolante fisico (banconote) tocca il 16% del PIL,
contro il 3% dei Paesi anglo sassoni. L’esproprio provocherebbe una rivolta? C’è
da sperarlo. Ma con la crisi che si aggrava di giorno in giorno, è possible che
la gente, alla fine, possa essere indotta - con una adeguata propaganda - ad
adottare l’idea disperata, quella sognata dai banchieri.
Non è la sola idea disperata - e patologica - che la depressione in corso sta
suscitando.
A Flint, cittadina ai margini di Detroit, la crisi dell’auto ha prodotto una
disoccupazione al 20%, e un collasso del prezzo delle case (ritornate sul
mercato in massa dopo essere state pignorate agli abitanti che non possono più
pagare il mutuo). L’idea del tesoriere della contea, tale mister Dan Kildee, è
di abbattere le case di troppo coi bulldozer, onde sostenere i prezzi
immobiliari. L’idea piace: la Brookings Institution (un think tank ebraico
liberal) propone di estenderlo a 50 città USA dove la crisi ha fatto crollare
l’immobiliare.
L’idea proviene dalla presunta legge fondamentale del «libero mercato», quella
della domanda-offerta: si vuol creare una scarsità artificiale dell’offerta, per
adeguarla alla domanda calante, e rincarare le poche case rimaste.
E’ un’idea che fu già provata negli anni ‘30. Quando crollarono i prezzi
agricoli, con l’intenzione di sostenere gli agricoltori alla fame, si bruciarono
migliaia di ettari di frumento sui campi, si buttarono a mare migliaia di
tonnellate di carne, si sparsero milioni di ettolitri di latte: e ciò, mentre
nel Paese più ricco del mondo milioni di disoccupati facevano la fila alle mense
dei poveri, e le loro famiglie non avevano da mangiare.
Il tentativo fallì. La sua fallacia dovrebbe essere chiara: si tentava di
rivivificare un «mercato» che la crisi finanziaria aveva di fatto azzerato.
Fallirà anche a Flint: chi compra le case a prezzo rincarato, se già oggi
nessuno compra case che sono abbondanti e costano pochissimo?
Per risolvere il problema, bisogna dare un lavoro - e produttivo - ai
disoccupati, perchè creino ricchezza reale. O ancora, destinare agli indebitati
poveri una frazione dei trilioni che la Federal Reserve e il Tesoro hanno dato
alle banche. In modo che si possano tenere la casa.
Come?
La proposta è dell’economista Michael Hudson (3),
e richiede una spiegazione preliminare. Negli scorsi decenni, la finanza
creativa ha mescolato i mutui che aveva in portafoglio, li ha spezzettati e
confezionati, e venduti come titoli recanti un interesse (dato dai debitori, che
pagano le rate dei mutui). Da quando è scoppiata la crisi dei subprime, questi
titoli non li vuole più nessuno: non solo quelli sub-prime, ma anche quelli
relativamente buoni, i cui debitori continuano a onorare i ratei. Sicchè si
vendono al 20% del loro valore. Sono i cosiddetti titoli tossici.
Hudson propone: perchè non farli comprare al debitore, a quello che ha la casa
gravata dal mutuo? Egli potrebbe così ridurre il suo debito dei quattro quinti,
o pagare la casa al 20% del valore originario.
Perchè non lo fa? Perchè non ha i soldi. Bisognerebbe che lo Stato lo
finanziasse. Invece lo Stato americano (ostaggio delle banche private) finanzia
con enormi spese i creditori - ossia le banche - mirando a minimizzare le loro
perdite: perdite meritate dalla loro finanza irresponsabile. Di fatto, il potere
pubblico sovvenziona artificialmente quei titoli, cercando di mantenerne il
«valore» artificialmente alto, a beneficio delle banche. Aiuta i creditori,
mentre dall’altra parte della catena i debitori restano obbligati a rimborsare i
ratei dei mutui come prima, senza riduzioni nè sconti, benchè il mutuo sia ormai
assai più caro del valore della casa acquisita a credito.
Dunque lo Stato-ostaggio, con la pretesa di mantenere la finzione del «mercato»,
in realtà ha fatto una scelta: a favore dei creditori ricchi, potenti e
colpevoli del crack globale, e a danno dei debitori, poveri, numerosi e senza
potere. E’ una scelta costosa - l’aiuto ai debitori costerebbe assai meno - e
rovinosa, perchè i debitori, l’uno dopo l’altro, non hanno altra scelta che
dichiararsi insolventi, perdendo così la casa - che torna su un mercato incapace
di assorbirla per assenza di domanda - e (per giunta) vedendosi vietare
l’accesso al credito per cinque anni, in quanto ex-insolventi. E’ ovvio che un
tale effetto aggrava la crisi, sia immobiliare sia dei consumi a rate. Un
disastro, prima ancora che morale, dell’intelligenza.
Dello stesso genere è la proposta della British Airways, coi conti in rosso, ai
suoi dipendenti: lavorare senza paga per alcuni mesi, per «salvare il posto».
Sorvoliamo sulla domanda: se a questo è ridotta la ben gestita British, come sta
veramente Alitalia?, e lodiamo il boss della BA,Willie Walsh, che ha dato
l’esempio non ritirando il suo bonus da 1,14 milioni di dollari (la nostra Casta
non ci pensa). La vera questione è che lavorare senza paga, a questo punto,
contribuisce ad aggravare la crisi, perchè riduce il potere d’acquisto
complessivo, approfondendo la deflazione.
Anche questo è stato già provato durante la grande crisi degli anni ‘30. Fu
provato nella repubblica di Weimar, dove per la deflazione gli industriali
lamentavano la crescita dei «costi incomprimibili» (i tassi bancari eccessivi, i
costi unitari aumentati su merci prodotte in quantità minore); molte imprese
fallivano, e cominciarono a fallire le banche che avevano dato i fidi alle
imprese fallite. Il cancelliere Bruning escogitò la soluzione sempre preferita
dal liberismo: decretò un taglio generalizzato dei salari del 15%. I salari,
secondo lui, erano i soli costi «comprimibili» a piacere: i costi umani.
L’effetto fu ovviamente una drastica ulteriore riduzione del potere d’acquisto,
quindi una riduzione fatale dei consumi, quindi ancor più beni invenduti, quindi
altri fallimenti di imprese e banche. E alla fine, il sorgere di Hitler, che
ristabilì il pieno impiego con i metodi spiegati nel mio «Schiavi delle banche»
(EFFEDIEFFE).
Già: ma perchè anche oggi si è instaurata la fatale deflazione col suo circolo
vizioso, dal momento che la Federal Reserve oggi, diversamente da allora, ha
inondato il sistema di liquidità? Come mai i trilioni di dollari iniettati nei
«salvataggi» delle banche stanno fallendo miseramente il tentativo di innescare
una qualche apparenza di ripresa? Se c’è tanto denaro in giro, perchè non arriva
(per ora) la temuta iper-inflazione? Gli Stati Uniti «stampano denaro» a
manetta, e non succede niente. Come mai?
Effettivamente, nonostante l’alluvione di pseudo-capitale a prestito, la massa
monetaria non aumenta. La moneta M1 è di fatto calata dal dicembre scorso, la M2
è aumentata di un modesto 3%, la M3 è piatta (4). Com’è possibile?
La teoria prevalente è che il crollo dei prestiti privati richiesti alle banche
super-compensa l’aumento dei prestiti di Stato. In base a questa teoria Bernanke
e il Tesoro dicono che per ora, «il deficit pubblico non è un problema».
Un’altra spiegazione - a mio parere geniale - la fornisce una economista
non-ufficiale, Ellen Brown (5). Ciò che si tende a dimenticare in malafede, dice
la Brown, è che praticamente tutta la liquidità («moneta», se vogliamo) è creata
dalle banche private: la creano facendo credito. La moneta attuale è
essenzialmente debito, che faticosamente i debitori, rateo dopo rateo, riempiono
di sostanza. Tanto che se per assurdo tutti ripagassero tutti i debiti (o se
tutti divenissero insolventi), non ci sarebbe più moneta. E di fatto, è quel che
avviene: per incredibile che appaia, mancano dollari a livello globale. La Banca
dei Regolamenti Internazionali, in un rapporto pubblicato a febbraio, ha
dimostrato che la banche europee non riescono a ripianare i loro debiti perchè
mancano 2 trilioni di dollari USA. Da qui le proposte di monete alternative.
Quando Putin invita la Cina e i membri della Shangai Cooperation Organization a
pagare gli interscambi con un paniere delle proprie monete, o con diritti
speciali di prelievo del fondo monetario, intende appunto ovviare a questa
scarsità di dollari-debito.
Appunto per questo il Tesoro e la FED stanno inondando di denaro le banche,
cercando di ricostruire il loro capitale in modo che possano fare abbastanza
prestiti da far riprendere l’economia. Con la riserva obbligatoria dell’8%,
significa che con 8 dollari di capitale le banche possono concedere prestiti per
100 dollari. E le banche americane - contrariamente a quelle europee - lo fanno.
Ma non c’è alcuna ripresa. Come mai?
Il motivo, dice Ellen Brown, è che sono scomparsi i «prestatori-ombra». Ossia
quegli enti e privati che fino al 2007 hanno comprato a man bassa i titoli oggi
detti «tossici». Come abbiamo già detto, questi titoli sono stati creati dalle
banche mescolando insieme migliaia di mutui e crediti vari (sulle carte di
credito, prestiti agli studenti, prestiti al consumo), tagliandoli a fette e
confezionando dei titoli ad interesse offerti a investitori: le famose
cartolarizzazioni (securitization) della finanza creativa. Con ciò, le banche -
che una volta erano costrette a tenere quei crediti nei loro libri contabili per
anni - li hanno rifilati ad altri, alleggerendosi da quel peso e liberando
capitale da riprestare a nuovi debitori.
La crisi dei titoli «coperti» (si fa per dire) dai mutui subprime, però, ha
bloccato il mercato di questi titoli. Nessuno li compra più. E non compra più
nemmeno i titoli più sani, nemmeno le obbligazioni emesse per finanziare le
imprese.
Ora, dei 25 trilioni di dollari di prestiti attualmente vigenti in USA, solo 8
sono prestiti forniti dalle banche. Altri 7 sono obbligazioni di tipo
tradizionale. Il grosso, 10 trilioni, veniva dal mercato dei debiti
cartolarizzati e rifilati a terzi, ora bloccato. E siccome la sfiducia ha
contagiato anche il mercato obbligazionario, sono 17 trilioni di debito (e
perciò di liquidità) che sono stati congelati. Come ha detto il presidente della
Camera di Commercio USA, mister Regalia: «Le banche prestano, ma il 70% del
sistema del credito non esiste più».
E le banche non possono compensare questa perdita facendo più prestiti. Non
possono anzitutto perchè proprio i mercati dei titoli cartolarizzati era il
meccanismo che consentiva loro di indebitare le famiglie e le imprese sempre di
più, e sempre più irresponsabilmente. Vendendo infatti i loro portafogli di
mutui e prestiti al consumo e alle imprese, le banche liberavano capitale per
fare nuovi prestiti; ora non più. E non c’è nemmeno speranza che questo
«mercato» dei coriandoli riprenda vita: i compratori di quei titoli, scottati,
non tornano più, e le banche e Wall Street sono costrette a tenersi quei
prestiti nei loro libri contabili, imbarcando perdite colossali. Le banche
europee sono nelle stesse condizioni, con la differenza che i nostri subprime
sono Paesi come la Lettonia e l’Ungheria, a cui le nostre banche hanno prestato
troppo, ossia oltre la possibilità di quei piccoli Paesi di restituire il
debito.
Il fatto è che quando il credito si congela, è la «moneta» che manca. La moneta
che è infatti privata, creata dalle banche private indebitando i popoli. Non c’è
abbastanza liquidità per comprare le merci prodotte, e per questo le fabbriche
chiudono e i lavoratori vengono licenziati, aggravando la spirale viziosa di
collasso economico reale e depressione.
La Banca Centrale dunque, «stampando moneta» o «monetizzando il debito di Stato»
(comprando Buoni del Tesoro con denaro creato ad hoc) non fa che sostituirsi
alle banche; fa quello che le banche fanno ogni giorno, e che non riescono a
fare più: creare dal nulla moneta-debito.
Ma perchè allora la FED e la BCE non riescono a reinnescare la ripresa?
Perchè anche il denaro creato dalla FED è a debito. E perchè lo danno alle
banche, allo scopo improbabile di mantenere il valore della semi-moneta privata
rappresentata dai titoli tossici, che nessuno vuol più comprare al loro valore
facciale, anzichè ai debitori insolventi. Con ciò, la FED emette moneta sovrana
in eccesso, indebitando lo Stato (che paga interessi su quella moneta) correndo
due rischi congiunti: da una parte, di sballare completamente il dollaro,
dall’altra, di dover affrontare un aumento dei tassi d’interesse (per indurre a
comprare i suoi Treasury Bills) che strangolerebbe la improbabile ripresa
strangolando i debitori (fra cui lo Stato stesso) e mettendo in conto una
fiscalità schiacciante per i decenni a venire.
Perchè la FED fa questo? E perchè lo fa senza ammetterlo?
Perchè, sospetta la Brown, non vuole rivelare il trucco fondamentale su cui si
regge tutto il sistema bancario con i suoi profitti miliardari indebiti: ossia
che «le banche non hanno mai avuto il denaro che ci prestano, e che noi paghiamo
interessi su qualcosa creato dal nulla».
La soluzione, per Ellen Brown, è nella stessa Costituzione USA: lo Stato può
emettere moneta propria (senza pagare interessi alla FED e alle banche private
che la possiedono) per prestarla a famiglie e imprese, con interessi che vanno
allo Stato anzichè alle banche private. Riaffermare che la moneta è un bene
pubblico, e non un oggetto privato delle banche.
Michael Hudson ha una proposta ancor più radicale: annullare i debiti. Quei
crediti privati delle banche, dice, sono improduttivi e troppo numerosi;
mantenerli in essere li trasforma in debito pubblico, ossia in impoverimento
collettivo. Rifiutandosi di liquidare quei titoli al loro valore di mercato
attuale - una regola fondamentale del liberismo, dopotutto - lo Stato prende le
parti dei creditori (abbastanza ricchi da sopportare le perdite) contro gli
interessi della collettività nazionale.
E ciò dimostra che a comandare non è Washington, ma Wall Street.
E’ questo il problema. Come vedete, le idee non-convenzionali non mancano,
esattamente come non mancarono nel ‘29 la proposta di Gesell e le soluzioni
applicate dal Terzo Reich, la sola economia che crebbe nel decennio. Quello che
manca, è la volontà di applicarle. Di sottrarre alla finanza privata il suo
potere di creare moneta dal nulla, e di ri-attribuirlo allo Stato, l’unico che
ha il diritto di farlo.
La ripresa dovrà aspettare, perchè la finanza speculativa non vuol perdere il
suo potere. E l’ideologia che ha imposto vive della speranza - vana - che con
qualche trucco in più, con qualche debito in più, torni a funzionare ciò che
essa chiama «il mercato». Ma quel mercato non tornerà più, almeno per una
generazione.
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1) Leo Lewis, «To fight deflation, abolish cash.
Could Japan make reality of ‘science fiction’?», Times, 19 giugno 2009.
2) Silvius Gesell (1862-1930), commerciante tedesco in Argentina, constatò
concretamente i mali della deflazione proprio in Argentina: abbondava la carne,
ma restava invenduta, perchè chi aveva denaro lo tesaurizzava. Da qui la sua
proposta di rendere il denaro deperibile (come la carne) con l’apposizione di un
lieve bollo. Si veda anche «Gesell redux: pour lutter contre la déflation, des
économistes japonais préconisent l’instauration de taux négatifs, ce qui
nécessiterait la suppression de la monnaie fiduciaire», ContreInfo, 19 giugno
2009.
3) «Michael Hudson: il faut annuler les dettes et non pas renflouer les
créanciers», ContreInfo, 19 giugno 2009. Hudson è docente di Economia e Storia
Economica all’università del Missouri. Al sito indicato c’è anche un suo
video-intervista.
4) Ricordiamo che M1 è il circolante fisico (banconote e monete metalliche) più
i depositi a vista. M2 è la M1 più i depositi a risparmio o vincolati a termine.
M3 comprende M2 più le operazioni pronti contro termine, quote di fondi
d’investimento e monetari fino a 2 anni emessi da istituzioni finanziarie
monetarie; la «moneta» nel senso più ampio.
5) Ellen Brown, «The Retreat of the Shadow Lenders, Why Deflation and not
Inflation is the Order of the Day», GlobalResearch, 18 giugno 2009. Ellen Brown
non è un’economista di professione, ma un avvocato civile di Los Angeles;:il suo
ultimo saggio, «Web of Debt», difende il diritto dello Stato di creare la sua
moneta, sottraendo questa funzione alle banche private che l’hanno usurpata.
Come nel ‘29, le idee migliori sulla crisi non vengono da economisti ufficiali
tenuti al «pensiero unico» e corrivi agli interessi della finanza, ma da
economisti pratici, come Gesell.
APPROFONDIMENTO VIDEO
GENIUS SECULI - Il dogma monetario (parte 1 di 3)
GENIUS SECULI - Il dogma monetario (parte 2 di 3)
GENIUS SECULI - Il dogma monetario (parte 3 di 3)