ITALIA:
LA SHOAH DEGLI "INUTILI"
È FORSE INIZIATA?
FORZE OSCURE STANNO USANDO ELUANA COME UN
CAVALLO DI TROIA PER CERCARE D'INTRODURRE
L'EUTANASIA IN ITALIA! la morte come
cura degli inutili...
(a cura di Claudio Prandini)
SIGNOR PRESIDENTE È SICURO DI
ESSERE
ANCORA IL PRESIDENTE DI TUTTI GLI
ITALIANI?
di Claudio Prandini
UN PAESE SEMPRE PIÙ DISGREGATO E MORALMENTE ALLO SBANDO, QUESTO È L'ITALIA. NON C'È DUNQUE ALCUNA VIA D'USCITA AL DECLINO? Solo lo shock della povertà e LA LUCE CHE VIENE DAL PAPA ci potranno SALVARE!
stiamo entrando in un nuovo oscurantismo dove giudici, magistratura, politici e persino il capo dello stato, hanno decretato CHE ELUANA NON debba più VIVERE, LASCIANDOLA COSì AL SUO atroce DESTINO, cioè la morte per fame e per sete. nemmeno un cane lo si lascia morire di fame e di sete, ma per eluana invece non c'è compassione. c'è qualcosa di intrinsecamente diabolico in tutta questa vicenda. forze oscure stanno infatti usando eluana, e la disperazione di un padre, per cercare d'introdurre l'eutanasia in Italia. la morte come cura degli inutili...
come farà ora, signor presidente della replubblica, a sentirsi veramente il presidente di tutti gli italiani, in modo particolare dei più deboli e fragili come eluana? chi ora è nelle sue stesse condizioni, in italia si pensa siano circa 2000-2500, sa che non può più nemmeno contare su di lei, signor presidente!
e per quanto mi riguarda non la riconosco più come
mio presidente, perchè con il suo no ha tradito la parte più debole di questo
paese... ma è anche una notevole fetta del popolo italiano, quello ha lottato e sperato fino all'ultimo affinché il delitto non si compisse, che ORA NON CREDE più IN LEI, SIGNOR PRESIDENTE, E NELLA SUA autorità MORALE!
certo, ora ci verranno a dire che un decreto legge per salvare eluana era costituzionalmente e politicamente scorretto... Certo, può anche essere, ma qualcuno disse anche che il "sabato era per l'uomo e non l'uomo per il sabato".
chi può capire capisca! |
INTRODUZIONE
La zia GEmma, "Mio fratello sbaglia:
deve lasciar vivere Elu"
"Dio te l'ha data e solo Dio te la può togliere".
La sorella di Beppino: "Quando gli ho detto
ciò che pensavo mi ha buttato giù il telefono. E da allora non mi parla più"
Sutrio (Udine) - «Non è il caso di tirar su il riscaldamento. Ci sono quattro
gradi, fuori. Si sta bene, oggi». Sorride, facendo finta di non accorgersi che
sto battendo i denti, nel suo tinello-freezer, Gemma Englaro. Questione di pochi
secondi. Poi, quasi si fosse pentita di quel sorriso, l’unico che si concederà
durante la nostra conversazione, prende a fissare la fotografia di Elu, che ha
sistemato sopra la credenza, proprio accanto alla Madonnina di Lourdes. C’è la
neve, fuori. Montagne di neve che cingono d’assedio questa casa gialla di tre
piani, con le tendine merlettate. Una sorta di Fortezza Bastiani nel deserto
bianco. In fondo a un budello che è l’appendice di un’appendice: Priola frazione
di Sutrio. Carnia. Quella Carnia che ti costringe a far galleggiare le emozioni
dentro nuvole basse presagio d’incertezza. Vive sola, Gemma, 77 anni, la zia di
Eluana.
Il marito Attivo, «Sì, Attivo Moro, Attivo, ha capito bene, un nome indovinato
perché non stava mai fermo. Come l’Eluana quando veniva qui in vacanza», l'ha
lasciata dodici anni fa. «E da allora ho imparato a ragionare fra me e me. A
guardare il mondo con i miei occhi, nella mia solitudine. Perché mia figlia,
Anna Rita, ha la sua famiglia, i suoi figli cui badare, giù in Friuli. Sa cosa
le dico? Che se non ci fosse stato mio fratello Beppino a darmi la forza di
andare avanti, a farmi coraggio forse mi sarei lasciata andare anch’io. Poi con
la disgrazia di Eluana è cambiato tutto».
Tutto cosa, signora Gemma?
«Quella frase. Gli ho detto: Beppino stai
sbagliando. Tu non stai facendo la felicità di Eluana. Lasciala stare, lasciala
vivere. Che cosa ne sai tu di quello che può succedere un domani. Ci sono i
miracoli. E se non ci credi ai miracoli, se ti hanno detto di non credere, c’è
sempre la medicina, la scienza. Fanno progressi gli scienziati. Lasciala vivere
l’Eluana. Perché Dio te l’ha data e solo Dio te la può togliere. Non devi
permettere che la facciano morire».
E Beppino che cosa le ha risposto?
«Che io non capivo, non potevo capire. Se
la pensi così, mi ha detto, vuol dire che Eluana non la conosci, non l’hai mai
conosciuta. Sei tu che, con questi consigli, con queste tue idee, la tradisci.
Non io. Tu non stai dalla mia parte: allora fai una cosa. Non chiamarmi più, non
cercarmi più. Così, mi ha detto. Poi mi ha buttato giù il telefono. E io adesso
ho paura persino a mandarlo a salutare».
Ma la casa di Beppino, a Paluzza, sta a due chilometri. Tutte le volte che è
tornato in Carnia…
«Macché. È come se non fossimo più neanche fratelli. Eppure gli ho fatto un po’
da mamma a Beppino, ha nove anni meno di me, quando eravamo ragazzini era sempre
lì a far domande e a confidarsi. Poi è stato in giro all’estero per lavoro. E il
suo dispiacere è sempre stato quello che non poteva stare con Eluana. Me lo
ripeteva sempre. Adesso invece non ci sentiamo più. Sarà un anno che non si fa
sentire. Nemmeno per dirci due parole a Natale. Non dico auguri, perché capisco
che nel suo cuore c’è troppo dolore, ma almeno due parole. Forse avrei dovuto
stare zitta, ma io non mi sono mai pentita di quello che gli ho detto per Eluana.
Glielo direi ancora adesso. Perché è quello che penso quando sono qui in tinello
e alzo gli occhi verso quella foto della Elu».
Andrà a Udine a trovare Eluana, alla «Quiete»?
«Mi piacerebbe. Vorrei tanto accarezzarla.
Ma mi hanno detto che ci vuole il permesso scritto. E se è così Beppino non lo
firmerà mai quel permesso. Eluana è sua figlia certo, ma da un po’, da quando
anche sua moglie poveretta si è ammalata, Eluana è diventata una cosa sua, solo
sua. Non so se capisce cosa voglio dire… ».
Mezza Italia che protesta. Che vuole, come lei, che Eluana continui a vivere.
Come finirà, secondo lei?
«Io non lo so come finirà. Non ci voglio nemmeno pensare alla fine di questa
brutta storia. So solo che quando Eluana morirà, anche Beppino avrà finito di
vivere. E sarà terribile. Perché se la faranno morire di fame e di sete, mio
fratello dovrà fare i conti con la sua coscienza. Io sono convinta che adesso
che è tutto preso con le sue battaglie legali lui non se renda conto. Ma poi,
quando resterà solo e non avrà più nemmeno Eluana da guardare, come farà a
vivere? Ecco, anche questo vorrei dirgli ancora, se accettasse di parlarmi per
qualche minuto. Come facevamo da bambini quando ci dicevamo tutto... ».
Eluana veniva qui in vacanza tutte le estati, che cosa si ricorda di lei?
«Che non si riusciva a starle dietro. Saltava, ballava. Fino a quando ha compiuto i 14 anni è sempre venuta qui. Non voleva rinunciare alle sue corse nei prati. E alla polenta col frico. Se le dicevo, per scherzo, che non gliela avevo preparata si arrabbiava. Ma poi tornava subito a sorridere. Ecco, il suo sorriso, mi ricordo. Quel sorriso là, nella foto vicino alla Madonnina di Lourdes».
È buio fuori, ormai. E fa ancora più freddo. E dalle nuvole basse spunta solo il campanile della chiesetta dell’Immacolata. Don Giorgio, che si inerpica, ogni giorno, tra Sutrio, Priola e Noiaris, ha appena finito di celebrare una messa per Eluana. «Lei vive, vivrà sempre», ha detto nell’omelia.
Eluana, svegliati ti vogliono uccidere!
Eluana Englaro è anche figlia nostra
"L'Italia?
E' un'avanguardia dell'osceno"
Intervista a Giuseppe Genna
Perché
nel suo ultimo libro parla dell’Italia come del luogo che ha "disimparato ad
amare"?
“L’Italia ha avuto una mutazione antropologica e sociale negli ultimi 30 anni,
da noi l’oscenità si sta manifestando in modo più potente che in altri luoghi.
Si è inverata la profezia pasoliniana dell’involgarimento di massa, della
spettacolarizzazione, del discorso unico che sostituisce il dialogo… E se da un
lato c’è un imbarbarimento del luogo Italia, dall’altro io stesso sono connesso,
con ossa, nervi e muscoli, a questo processo di anestesia emotiva e disamore.
Io, che ho disimparato ad amare e ad amarmi, sono questo luogo…”
E fuori dall’Italia le cose stanno diversamente?
“Sì, senza dubbio. Penso che l’Italia sia in questo momento un paese di
avanguardia, dove stanno arrivando a maturazione processi disgregativi e
trasformazioni dell’umano che sono la china su cui discenderà tutto l’Occidente…
Altri popoli sono più indietro lungo questa forma di evoluzione, la metastasi lì
è rallentata, c’è ancora qualcosa che frena la metamorfosi dell’umano in
insetto. Ad esempio, recentemente a Copenaghen ho avvertito una maggiore pietà
per l’altro, una percezione che l’altro sia parte di sé, che da noi, attorno a
me e dentro me, è come evaporata”.
E perché, a suo avviso, in Italia questa disumanizzazione
è più accentuata che altrove?
“In primo luogo perché noi non siamo un popolo, non abbiamo mai elaborato una
cultura nazionale… al più abbiamo una cultura statale e parastatale. E la storia
del paese, dalla 2a guerra mondiale agli anni ‘70 è continuamente messa in
discussione da revisionismi devastanti. Lo Stato è da sempre un'entità distante
dai cittadini. A questo si aggiungano i misteri di Stato mai chiariti e le
ferite mai sanate, in primis quella del terrorismo in rapporto quale si pretende
un pentimento carcerario, una reclusione sine die e non il recupero della
persona. E sopra tutta questa disgregazione noi ci abbiamo steso lo spettacolo”
In che modo?
“E’ un processo che inizia negli anni ’80 con la nascita delle emittenti
televisive private, che si fanno veicolo di un immaginario fragile e distorto.
Non c’è nazione in cui l’immaginario è stato contaminato dallo spettacolo come
in Italia. Basti pensare alle masse di ragazzini, correva l’anno ’84, che
urlavano parole senza senso come “Ass Fidanken”… La memoria del paese è
spettacolare, è una berlusconizzazione… di cui lo stesso Berlusconi è un
sintomo, non la causa. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini che è in
tv, durante la diretta da Vermicino, mentre un bambino muore in un pozzo, e
l’anno successivo è al Nou Camp di Madrid, mentre l’Italia sta per vincere la
finale dei mondiali calcio, e dice “Non ci prendono più…”. Ma si rende conto
Pertini di essere dentro uno spettacolo, che segna una linea di discrimine nella
nostra storia? O Antonio Ricci che dice che “Striscia la notizia” è servizio
pubblico, quando non è altro che un veicolo di un trauma dell’immaginario. Tutto
questo espropria l’umano dell’umano, del linguaggio e di ogni idea o possibilità
di cambiare la realtà”
Ma questo fenomeno non riguarda un po’ tutto l’Occidente?
“Sì, ma in Italia si è manifestato in modo più vistoso, anche rispetto agli
Stati Uniti, dove, grazie alla struttura federale e al fatto che la tv pubblica,
la Pbs, non era sotto controllo politico come la Rai, la disgregazione culturale
è stata meno drammatica. Ricordo che nel ’69, quando venne fermato dalla polizia
l’anarchico Pietro Valpreda, a pochi giorni dalla morte di Giuseppe Pinelli,
c’era un giornalista che intervistava il questore di Milano e dava per certo,
usando un tono quasi autoritario, che fosse stato preso il colpevole. Il
giornalista veicolava una falsità, spacciandola per verità, in relazione a un
fatto intricato e complicatissimo… Bene, quel giornalista era Bruno Vespa, che
oggi continua a fare le stesse cose. Questa è l’Italia. Si veicolano falsità e
spettacolo come se fossero verità… La realtà viene spogliata della sua verità,
in modo pop…e poiché, salvo poche, luminose eccezioni non ci sono intellettuali
in grado di opporsi, il paese è in balia di un unico linguaggio, di un unico
discorso”.
Quali sono le luminose eccezioni?
“Beh, l’Italia è un’avanguardia per quanto riguarda l’espropriazione dell’umano,
ma lo è anche nella produzione dell’umano. La nostra è la lingua letteraria più
antica tra quelle moderne. Alcuni scrittori italiani stanno producendo cose che
a livello planetario non si fanno. Nessun americano o inglese è all'altezza del
poeta Andrea Zanzotto… pochissimi agiscono politicamente e linguisticamente
dentro il testo come Tommaso Pincio, i Wuming, Valerio Evangelisti o Walter
Siti, probabilmente il più grande scrittore vivente in Italia. Si tratta di
minoranze esigue… ma molto costanti nel tempo e avanzatissime. Seamus Heaney o
Derek Walcott, gli ultimi Nobel anglosassoni, sono fermi a quello che Giusuè
Carducci faceva nelle sue “Odi Barbare”. In Italia siamo oltre la morte della
lingua… lo ha detto Carmelo Bene, e negli ultimi anni non si è visto un altro
come lui… Ma se si guarda al campo della pubblica attenzione la figura
dell’intellettuale viene attaccata, ignorata oppure spettacolarizzata, come è
successo a Roberto Saviano, che è stato trasformato in un’icona che non
corrisponde a quello che Saviano sente e vuole provocare nel lettore”.
In “Italia De Profundis” esprime un giudizio critico sullo
stile della poesia italiana di oggi…
“La poesia italiana non parla più… salvo pochissime eccezioni, come l’ultimo
libro di Mario Benedetti, “Pitture nere su carta”, edito da Mondatori o Milo De
Angelis e lo stesso Andrea Zanzotto. Questi poeti rappresentano un’avanguardia
mondiale. Tutti gli altri fanno piccole cose, nel solco della nostra tradizione
lirica, quasi a prolungare una sorta di deriva neopetrarchista… non entrano
nell’immaginario e nemmeno nello scavo di sé… è inevitabile che se non scavano
dentro di loro non possono parlare agli altri”.
(Non c'è alcuna via d'uscita al declino? "Solo lo shock della povertà ci può
salvare")
Le cose vanno così male anche per il cinema?
“Qui c’è un problema di industria culturale, non si ha la voglia e la capacità
di rischiare, di uscire fuori da alcuni schemi rigidi e prestabiliti. E, sia
chiaro, non si rischia producendo “Gomorra”, che pure è un film molto
interessante, o “Il Divo” con Servillo… Nella mia esperienza di giurato alla
Mostra del Cinema di Venezia (2006, ndr), grazie allo sguardo panoptico sulla
cinematografia mondiale regalatomi da quella occasione, mi sono reso conto di
quanto sia povero, debole e morto il cinema italiano… Anche l’ultimo dei cinesi
ha un impatto estetico, etico, politico, emotivo di una forza a cui nessuna
opera del nostro cinema attuale può arrivare”.
E non c’è soluzione a un simile degrado culturale?
“L’Italia per diventare paese deve subire uno shock forte, passare per una fase
dura di depauperamento determinata da varie ragioni, dalla crisi climatica alle
ondate migratorie provenienti dalle aree più povere. Questo shock sociale
diventerà un grande evento politico per il nostro paese. Gli italiani, da
poveri, probabilmente recupereranno la loro umanità… forse mi sbaglio, ma io
vedo solo questa possibilità di cambiamento. Chi spende il 18% del suo stipendio
per il telefonino e non se ne rende conto non è più umano...”.
Non le sembra di avere un approccio un po’ pessimista, di
legare la sua analisi a dei presupposti radicalmente negativi?
“Davvero restituisco questa impressione? Non è una cosa in cui mi riconosco,
certo rispetto allo stato di cose che ci circondano denuncio una negatività. Ma
se non avessi dentro di me l’idea di una positività non parlerei in questo modo”
Catastrofe senza catarsi
Nella fase decadente
delle società, l’individuo prevale sulla comunità, il significato della vita
viene posto nella ricerca della felicità personale e nel conseguimento del
piacere, si presta sempre più attenzione alla cura del corpo; la generale
indisciplina provoca una pletora di regolamenti, sempre più inutili e sempre
meno osservati; non ci sono più fedi forti, bensì un diffuso scetticismo fra i
ceti più colti e un ritorno a superstizioni e settarismi fra il popolino; tutti
i legami sociali, compreso il più basilare, quello familiare, si allentano; le
donne si mascolizzano e gli uomini si deresponsabilizzano, in una crescente
confusione di ruoli; la mentalità che giustifica la ricerca del piacere come
obiettivo primario della vita favorisce la diffusione di pratiche sessuali
sempre più devianti, fino alla perversione; nel relativismo dilagante si perde
il senso del confine netto fra ciò che è bene e ciò che è male, per cui quasi
tutto finisce con l’essere prima tollerato, poi permesso, infine accolto con una
sorta di compiacimento; anche nelle arti e nella letteratura si perde il senso
delle regole e delle distinzioni dei generi: tutto gode della stessa
considerazione, purché risponda alla legge del profitto e procuri piacere; in un
clima di falsa tolleranza, che è in realtà indifferenza a ciò che non comporti
un utile immediato, si può dire tutto perché nulla abbia più valore.
Quando una società è giunta all’estremo della decadenza, una crisi disastrosa fa
sì che vengano recuperati i valori profondi, i miti fondanti su cui si costruì
quella comunità, o si assumono più forti valori, introdotti da altri popoli.
Ritorna così una fase eroica, piena di vitalità, di grandi speranze e di slanci:
il ciclo riprende. In genere questo succede attraverso il trauma di una
rivoluzione sociale, quando i comportamenti della classe dirigente sono in
contraddizione troppo aperta con gli ideali che propugna e col ruolo che le è
attribuito, perdendo ogni prestigio davanti a quella parte della società non
ancora contaminata dalla decadenza dei costumi, oppure attraverso la sconfitta
in una guerra con un popolo più vigoroso e aggressivo, non ancora infiacchito
dalla degenerazione.
Ebbene, non c’è alcun dubbio che quel mondo che si usa definire occidentale e
che oggi pretende di esportare il suo modello in tutto il globo, col suo cinema,
le sue mode, la sua musica, il suo ricatto finanziario e i suoi bombardieri,
vive la sua fase di decadenza estrema, quella decadenza che prelude al crollo e
alla rigenerazione. Ma c’è una grande novità: i meccanismi tradizionali
attraverso i quali maturano le crisi delle società decadenti e si recuperano
valori più sani, non funzionano più. Questa è la vera tragedia dell’Occidente:
essere condannato a una lunghissima agonia, catastrofe senza catarsi.
Oggi non è più possibile una grande rivoluzione sociale in Occidente perché lo
sfruttamento sistematico delle risorse del resto dell’umanità ha permesso un
altissimo tenore di vita non solo all’élite dirigente ma anche alla maggioranza
della popolazione, la minoranza di esclusi non avendo la forza né la volontà di
rovesciare la situazione, anche perché le opportunità di mobilità sociale
vantate dal sistema, magari attraverso la vincita a una qualche lotteria, sono
una delle tante illusioni che inibiscono le velleità di una qualche ribellione;
e, oltre a ciò, le dinamiche demografiche, riducendo la percentuale dei giovani
rispetto a quella delle persone mature o anziane, riducono il peso delle
generazioni più inquiete e più disposte ai cambiamenti, generazioni del resto a
loro volta infiacchite dai costumi degradati e dalla droga.
D’altra parte non c’è neppure più la possibilità di una rigenerazione attraverso
il trauma di una guerra perduta, perché l’odierna guerra supertecnologica,
combattuta dall’alto dei cieli e da un corpo ristretto di specialisti
attrezzatissimi, permette di sconfiggere anche popoli più vigorosi e coraggiosi.
Così abbiamo un mondo in cui il trenta per cento dell’umanità vive in uno spreco
di risorse mai visto prima, mentre il settanta per cento si trova in condizioni
miserabili. I ritmi di vita e la competizione esasperata di tutti contro tutti,
la perdita di radici e lo smarrimento del senso del vivere civile, inducono però
alla disperazione anche quel trenta per cento che si crede felice. La
generalizzazione del modello occidentale, che è poi quello della modernità
capitalista senza più alternative, ha creato un settanta per cento di derelitti
e un trenta per cento che per non suicidarsi, per sopportare questa vita, deve
impasticcarsi di psico-farmaci, droga legalizzata, forse l’emblema più
significativo di questo sistema che pretende di imporsi come il migliore. Ecco
la grande tragedia della nostra epoca: una lunghissima decadenza senza possibile
alternativa. Non è un’alternativa il movimento che, con un’espressione
estremamente infelice, è stato definito no-global: Ethos contro kratos è sempre
perdente; il cosiddetto terrorismo, poi, non è altro che il frutto di una
delirante disperazione, dettata dall’impotenza, la cui pericolosità è stata
ingigantita e strumentalizzata dal potere anglo-americano per estendere e
approfondire il suo dominio.
Così siamo condannati a una decadenza lunghissima che finisce in putrefazione.
I segni sono evidenti ovunque, sono nella cronaca quotidiana, irrompono nella
nostra vita, anche nei suoi aspetti apparentemente banali. Negarli o ignorarli
significa voler essere ciechi e sordi.
Peppino Englaro. Mai padre fu tanto tenace nel
volere la morte della figlia. Che Dio abbia pietà di lui!
ELUANA/Bertoglio:
il mio incontro con Peppino
Englaro e il suo dramma
Dopo la sentenza sul caso Englaro si è aperta la macabra caccia all’ospedale che stacchi il sondino e che permetta la morte per fame e per sete di Eluana. Il primo ospedale cui Peppino Englaro si è rivolto è l’ospedale di Lecco. Ambrogio Bertoglio, direttore generale dell’ospedale, ha accettato di raccontare a ilsussidiario.net come si sono svolti i fatti.
Dottor Bertoglio, come le è arrivata la richiesta di procedere all’attuazione della sentenza che dà la possibilità di interrompere l’alimentazione e l’idratazione a Eluana?
Nel mese di giugno è arrivata all’ospedale una richiesta scritta firmata dal padre di Eluana, Peppino Englaro, in cui ci chiedeva la possibilità di utilizzare uno spazio all’interno dell’ospedale in cui poter accogliere per un numero limitato di ore Eluana, e durante questo tempo e in questo spazio sarebbe stato tolto il sondino da parte di operatori di fiducia del padre di Eluana. Nella richiesta si precisava che non erano necessari infermieri e che sarebbe stato sufficiente un aspiratore e nessun’altra attrezzatura.
E lei cos’ha risposto?
Ho scritto una risposta articolata in tre punti. Il primo punto era che l’ospedale costruisce una propria organizzazione, una propria fisionomia terapeutica, e la descrive all’interno del piano di organizzazione, che viene pubblicata; con questa presentazione l’ospedale si presenta al mondo, e quindi la gente che la legge decide di farsi curare in questo ospedale, sapendo qual è la struttura terapeutica e clinica che qui si mette in atto. Il secondo punto della risposta era che il nostro ospedale, per ovvia consuetudine, non aveva mai né affittato né prestato spazi all’interno dell’ospedale, perché altri dal di fuori venissero ad esercitare sotto il tetto dell’ospedale pezzi di terapia o di cura gestiti da altri. Terzo punto, il codice deontologico sia dei medici che degli infermieri, dice che anche in assenza e nell’impossibilità di essere efficaci terapeuticamente, comunque l’accudire la persona e il dar da bere e da mangiare va garantito comunque.
Poi cos’è successo?
La risposta, pur articolata e per niente forte, era però sicuramente una risposta molto burocratica. Quindi ho deciso di telefonare al signor Englaro per dirgli di venire e per potergli parlare direttamente. Lui è venuto la mattina stessa, e abbiamo fatto un lunghissima chiacchierata. Englaro mi disse subito che si aspettava quella risposta, e che aveva fatto la richiesta quasi per dovere, ma senza aspettarsi nulla. Qualche tempo dopo ha fatto la stessa richiesta in termini generali alla Regione Lombardia, e la risposta che ha ottenuto ripercorreva sostanzialmente le stesse argomentazioni, seppur articolate in maniera diversa. Quindici giorni fa è poi arrivata una comunicazione da parte della magistratura: ho appreso che il signor Englaro ha denunciato sia la Regione che il nostro ospedale perché non abbiamo ottemperato alla disposizione della sentenza.
A parte quest’ultimo aspetto della vicenda, che cosa è emerso dall’incontro che lei ha avuto con il signor Englaro?
È stato un incontro molto interessante: ci siamo guardati da padri e ci siamo messi a parlare della situazione. Lui non si è affatto nascosto, ed è stato molto cordiale e molto franco. Nel nostro dialogo ha raccontato di sé presentandosi come un vecchio socialista umanitario, molto amante della libertà. Un uomo proveniente dalla dura Carnia nei tempi del dopoguerra: una terra povera, e molto faticosa. Quindi mi si è presentato come una persona con un grande senso del dovere, e con l’idea di essere da solo contro la durezza della vita, che va affrontata facendo leva sulla propria forza di volontà.
Che cosa le ha detto invece di Eluana?
Lui dà un’immagine molto chiara di sua figlia: una ragazza amante della libertà, un “purosangue”, come lui stesso la definisce. E un purosangue non accetta di essere azzoppato, perché ama la libertà, ama correre. Un purosangue va ucciso per pietà, quando si trova in queste condizioni. Alla mia osservazione che le cose sono andate diversamente e che ora c’è qualcuno che si occupa di lei, e quindi bisogna accettare e stare di fronte a questa nuova situazione, mi ha semplicemente risposto che questa è una concezione da religiosi, inaccettabile per chi religioso non è. Il suo ragionamento è questo: nella mia coscienza ritengo giusta questa cosa e quindi devo essere lasciato libero di perseguirla, e nessuno può limitarmi e fermarmi nella realizzazione di quello che ritengo giusto. E di conseguenza ritiene di essere in una situazione di perseguitato perché la società non gli permette di fare questo. Quello che non sono però riuscito a capire è il perché della valenza pubblica che lui vuole dare a questa vicenda. Ammesso, e non concesso, di voler realizzare il proprio punto di vista, ma perché poi volerlo fare in ospedale? È come se volesse che la società glielo riconosca e lo metta in condizioni di farlo, come un suo diritto.
Ma non è prescritto dalla sentenza che la cosa debba essere fatta in un ospedale?
La sentenza prescrive che sia fatto in una struttura tipo hospice. Ma la sentenza è fatta di due parti: una parte è quella che dice che si può interrompere l’alimentazione e l’idratazione, e una seconda che è strettamente medica in cui, partendo dal dire dove deve la cosa deve essere fatta, si danno una serie di prescrizioni strettamente mediche: usare rilassanti, antidolorifici e tutto quello che serve per combattere quelle che sono le conseguenze cui va incontro chi non viene più alimentato e dissetato. Il problema è che, come qualcuno ha osservato, tutto ciò, dal momento che non ha alcuna valenza medico-sanitaria (non è nemmeno necessario togliere il sondino, perché basterebbe non mettere più dentro cibo e liquidi) lo si potrebbe fare anche a casa. Perché a casa no? L’accudimento non ha bisogno di macchine o strutture speciali che si possono assicurare solo in ospedale. Invece Englaro vuole che questa cosa sia fatta in ospedale, proprio per affermare quella valenza pubblica di cui dicevamo.
Secondo lei, ora, che cosa faranno gli altri ospedali?
Ora ci troviamo in una situazione paradossale: certamente mi sembra molto difficile che un ospedale, a meno che non sia fortemente ideologizzato, possa scegliere di ospitare un simile gesto. La Lombardia si è espressa in una certa maniera, e quindi questo vale per le strutture della Regione. Cos’altro possa accadere non lo posso prevedere.
la morte come cura
Mentre faccio altro, sento distrattamente
Radio Radicale. A cura della associazione «Luca Coscione», una tizia sta
promuovendo «la morte come terapia delle inabilità». La tesi della tizia – che
risulta essere ginecologa – è che per le «inabilità» essendo incurabili, la
vera, logica terapia medica è l’uccisione degli inabili. Consenzienti, è ovvio:
siamo o no liberisti, liberali e libertari?
Confesso che il ragionamento mi pare inattaccabile, nel quadro della ideologia
della secolarizzazione e dell’edonismo totalitario di cui i radicali sono
l’avanguardia avanzante, ma in cui tutti siamo già immersi. La sofferenza non ha
alcun senso né valore, l’uomo è un essere meramente zoologico, l’aldilà non
esiste. Dunque, perché no?
Alcuni disabili militanti vengono incoraggiati ad approvare; essi lamentano la
propria mancanza di «autonomia», ripetono alcuni luoghi comuni del radicalismo,
però – stranamente – non sembrano convinti. Esitano a sottoscrivere, a
impegnarsi alla propria soppressione.
La tizia pontifica, paterna e superiore verso quegli esitanti. L’esperienza
radicale le dice che questo genere di battaglie vengono vinte sempre, dal
divorzio all’aborto alla libera droga all’eutanasia, è un percorso unitario e
perfettamente corente. Spengo la radio. Scusate, non me la sento di commentare.
«Il papà di Eluana»
Immagino che anche a voi, come a me ormai, la sola menzione del nome «Eluana»
in qualunque media dia la nausea. Quelle voci di giornalisti (più spesso
giornaliste) che trasudano pietà per quella che chiamano così familiarmente «Eluana»,
e ammirazione per il «papà di Eluana», così impegnato nella battaglia dell’amore
– vuole farla finita con la figlia in coma da 17 anni. Contrastato da un
ministro che cerca, il mostro, di «annullare una sentenza di Cassazione»
intimando alle cliniche convenzionate con il Servizio Sanitario di non procedere
alla soppressione.
Qui, reprimendo i conati, sale una domanda: ma perché il caro papà di Eluana,
alla sua figlia, non gli spara? Lui, personalmente? Perchè pretende che tutto
avvenga in clinica, togliendo a Eluana l’alimentazione e l’idratazione, il che
implica intollerabili lungaggini?
Già ha ottenuto la sentenza della Cassazione; quindi ha dalla sua l’ala più
progressiva del diritto, tutti i media, e l’atmosfera collettiva in cui è
immersa la pubblica opinione. Papà ammazzi la sua Eluana in proprio; non rischia
che qualche mese ai domiciliari, i media e i giudici sono pronti a riconoscergli
l’alta motivazione morale e civile della revolverata. Lo faccia. Perchè il più
l’ha già fatto.
Mi riferisco al modo in cui il «papà di Eluana» ha ottenuto la sentenza di
Cassazione a suo favore. Ha dichiarato che, vent’anni fa, Eluana aveva detto a
lui che non avrebbe «voluto vivere in quello stato», ossia in coma. Eluana non
può confermare né smentire. La Cassazione ha preso per buona la dichiarazione
verbale del «papà».
E’ qui che c’è qualcosa che non va. Di solito i giudici non accettano
dichiarazioni verbali fatte da uno a nome di un altro, che non può confermare.
Richiedono, come minimo, una manifestazione scritta di volontà
dell’interessato. E non in casi di vita e di morte, ma molto meno importanti.
Se io sostengo che un ricco defunto, magari mio parente stretto, mi aveva fatto
erede delle sue sostanze – parlandomene a tu per tu – mica i giudici ci credono.
Anche se io dico che il ricco defunto mi voleva dare 5 mila euro soltanto, i
giudici non ci cascano. Vogliono vedere un testamento scritto, una lettera
autografa, una cambiale firmata dal defunto: fanno i tignosi, per 5 mila euro.
Invece, per liquidare «Eluana», si contentano di una auto-dichiarazione del
«papà». La prendono per buona e provata.
Vedi, caro «papà», che i giudici sono d’accordo con te, ti fanno l’occhiolino,
scavalcano un principio fondamentale del diritto (la volontà di una parte non
può essere presupposta in base a testimonianze interessate e incontrollabili,
deve essere «provata») per venirti incontro.
I magistrati italiani si lagnano che Berlusconi li «delegittima»; sorvolando sul
fatto che loro si delegittimano da sè, minano la loro autorità manipolando i
principi del diritto per fare piaceri a chi è loro «amico» contro chi è loro
«nemico», o per mostrare la loro adesione all’ideologia alla moda.
Dunque fallo, papà di Eluana: ammazza tu tua figlia. La giustizia te lo
consente, chiuderà l’altro occhio. Ne ha già chiuso uno. Si è già suicidata da
tempo, la giustizia. Di fronte a questa eutanasia, cosa vuoi che sia quella di
Eluana. Solo una conseguenza.
IL PAPA DURANE L'ANGELUS
DEL 1 FEBBRAIO 2009
Cari fratelli e sorelle!
Quest’anno, nelle celebrazioni domenicali, la liturgia propone alla nostra
meditazione il Vangelo di san Marco, del quale una singolare caratteristica è il
cosiddetto "segreto messianico", il fatto cioè che Gesù non vuole che per il
momento si sappia, al di fuori del gruppo ristretto dei discepoli, che Lui è il
Cristo, il Figlio di Dio. Ecco allora che a più riprese ammonisce sia gli
apostoli, sia i malati che guarisce di non rivelare a nessuno la sua identità.
Ad esempio, il brano evangelico di questa domenica (Mc 1,21-28) narra di un uomo
posseduto dal demonio, che all’improvviso si mette a gridare: "Che vuoi da noi,
Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!". E
Gesù gli intima: "Taci! Esci da lui!". E subito, nota l’evangelista, lo spirito
maligno, con grida strazianti, uscì da quell’uomo. Gesù non solo scaccia i
demoni dalle persone, liberandole dalla peggiore schiavitù, ma impedisce ai
demoni stessi di rivelare la sua identità. Ed insiste su questo "segreto" perché
è in gioco la riuscita della sua stessa missione, da cui dipende la nostra
salvezza. Sa infatti che per liberare l’umanità dal dominio del peccato, Egli
dovrà essere sacrificato sulla croce come vero Agnello pasquale. Il diavolo, da
parte sua, cerca di distoglierlo per dirottarlo invece verso la logica umana di
un Messia potente e pieno di successo. La croce di Cristo sarà la rovina del
demonio, ed è per questo che Gesù non smette di insegnare ai suoi discepoli che
per entrare nella sua gloria deve patire molto, essere rifiutato, condannato e
crocifisso (cfr Lc 24,26), essendo la sofferenza parte integrante della sua
missione.
Gesù soffre e muore in croce per amore. In questo modo, a ben vedere, ha dato
senso alla nostra sofferenza, un senso che molti uomini e donne di ogni epoca
hanno capito e fatto proprio, sperimentando serenità profonda anche
nell’amarezza di dure prove fisiche e morali. E proprio "la forza della vita
nella sofferenza" è il tema che i Vescovi italiani hanno scelto per il consueto
Messaggio in occasione dell’odierna Giornata per la Vita. Mi unisco di cuore
alle loro parole, nelle quali si avverte l’amore dei Pastori per la gente, e il
coraggio di annunciare la verità, il coraggio di dire con chiarezza, ad esempio,
che l’eutanasia è una falsa soluzione al dramma della sofferenza, una soluzione
non degna dell’uomo. La vera risposta non può essere infatti dare la morte, per
quanto "dolce", ma testimoniare l’amore che aiuta ad affrontare il dolore e
l’agonia in modo umano. Siamone certi: nessuna lacrima, né di chi soffre, né di
chi gli sta vicino, va perduta davanti a Dio.
La Vergine Maria ha custodito nel suo cuore di madre il segreto del suo Figlio,
ne ha condiviso l’ora dolorosa della passione e della crocifissione, sorretta
dalla speranza della risurrezione. A Lei affidiamo le persone che sono nella
sofferenza e chi si impegna ogni giorno al loro sostegno, servendo la vita in
ogni sua fase: genitori, operatori sanitari, sacerdoti, religiosi, ricercatori,
volontari, e molti altri. Per tutti preghiamo.
APPROFONDIMENTO
Una morte legale? Sì, come erano legali gli
schiavi e le stelle gialle degli ebrei...
C’è una guardia
giurata al terzo piano della clinica “La Quiete” a Udine. Controlla che nessuno
entri nella stanza di Eluana Englaro, la prima persona in Italia che morirà di
fame e di sete con l’autorizzazione dei giudici. L’hanno portata via da Lecco
con un’ambulanza, a notte fonda, nel buio, come ladri, e sono entrati in clinica
da un ingresso laterale. I volontari che faranno morire di fame e di sete la
donna in stato vegetativo – una donna che respira da sola, che dorme e si
sveglia, apre e chiude gli occhi, che deglutisce, che ha le mestruazioni, di cui
nessuno è veramente in grado di dire se e cosa pensa, se e cosa prova – hanno
costituito un’associazione, si chiama “per Eluana”. Ne fanno parte Amato De
Monte, primario, e altri medici e tecnici specializzati.Giudici, avvocati,
notai: la morte per fame e sete di Eluana Englaro cerca di coprirsi con il manto
della legalità. Ma la legalità e la giustizia non sono la stessa cosa: erano
legali gli schiavi, e anche le stelle gialle degli ebrei...
L’unico codice da applicare è la compassione
Il capitolo finale dell’Eluaneide - intitolo la tragedia col sacro rispetto che solo i classici greci e latini riescono a incutere - non mi convince, non è lineare, non è trasparente, occulta qualcosa di indicibile. Per cui mi sento in dovere di rivolgere al signor Beppino Englaro una spiacevole domanda, che mai avrei voluto porgli e per la quale mi scuso anticipatamente: perché non dona gli organi di sua figlia in modo che possano essere trapiantati su malati senza speranza? Cuore, reni, polmoni, fegato, pancreas, tutto ciò che di ancora funzionale c’è in lei.