VERSO LA PARROCCHIA
DEL TERZO MILLENNIO
(di don Walter Fiocchi)
Mi sono chiesto a lungo come rispondere ai mille
interrogativi sulla parrocchia, che mi pongo soprattutto da quando sono
parroco (cioè da quasi 11 anni) e ovviamente non solo perché stimolato e
provocato dalle domande poste dal questionario di Adista. Con due premesse. La
prima. Sono parroco in una parrocchia di circa 7000 abitanti, subito al di
fuori del centro cittadino di Alessandria, in un quartiere residenziale
medio-alto, sviluppatosi tra le due guerre e subito dopo la seconda. Con una
età media (ma questo vale ormai per tutta la città di Alessandria) molto alta
(credo ormai superiore ai '60) e quindi con una presenza giovanile
limitatissima; un numero altissimo di nuclei familiari è costituito da una
sola persona, per lo più vedove. Una parrocchia retta dall'origine (1946) fino
al 1992 dallo stesso parroco, con una presenza laicale decisamente
significativa, tanto che negli anni ha dato molti dirigenti diocesani di varie
aggregazioni laicali (e dunque senza chiusure campanilistiche); ma una
parrocchia, nel bene e nel male, con le caratteristiche degli anni '50 e '60.
La seconda: non ho ancora potuto leggere il documento Cei sulla parrocchia.
Per esprimere le mie riflessioni la strada migliore è forse quella di dar
corpo ai "sogni". Sempre, quando nella vita personale e quando svolgiamo un
ruolo, accanto a ciò che è "dato" dalle situazioni, dalle circostanze, dal
momento storico, ciascuno di noi porta in sé il "sogno", l'immagine, il
desiderio di qualcosa di diverso da ciò che è "dato", forse un'utopia o una
idealizzazione della situazione così come è. E anche i parroci sognano.
Sperando ovviamente che il "sogno" non sia una forma di evasione.
Il dato. La crisi dell'attuale modello di parrocchia appare acuta e grave
poiché sempre più essa ha finito per essere considerata o per diventare
realmente: o una istituzione puramente giuridica, amministrativa, burocratica;
o una "stazione di servizio religioso", della quale i fedeli si servono come
avventori di passaggio, estranei e anonimi, soprattutto per ricevere i
sacramenti; o un' "agenzia di culto", gestita dal parroco come esclusivo
agente responsabile nei confronti dei fedeli, considerati solo come oggetto di
cura pastorale e non soggetti attivi nell'azione pastorale.
È in crisi la sua immagine come istituzione
globale, cioè come ambiente che avvolge totalmente la vita di chi ne è
partecipe: la parrocchia come rifugio dalle aggressioni del mondo laicista,
nel quale bisogna per forza vivere, ma cercando di fuggirne appena possibile
per ritornare nel caldo "nido" parrocchiale; in essa ci si prendeva cura di
tutte le esigenze del popolo dalla nascita alla tomba: il cinema, lo sport, il
turismo, le istituzioni sanitarie e scolastiche, magari anche la banca
cattolica… È in crisi una immagine territoriale della parrocchia, pensata come
un tutt'uno col suo territorio: essa è ormai più "uno" tra i molteplici
soggetti di un territorio; più che un territorio, va forse pensata come "una
rete di relazioni". È in crisi, ma sembra che tutto resti saldamente come è.
Spesso il cambiamento è l'auspicio di tanti documenti e di altrettante
"chiacchiere pastorali", ma né preti né laici né vescovi sembrano fare
alcunché in direzione di un rinnovamento. Anzi, molti tentativi vengono
guardati con sospetto o come "strane originalità", se non da reprimere almeno
da compatire; e l'impegno laicale, la "corresponsabilità" laicale il più delle
volte resta un pio desiderio espresso dalle parole "bisognerebbe, si dovrebbe,
sarebbe bello se…", che di solito esigono la "tutela", vista come
indispensabile, di un prete, altrimenti non se ne fa nulla.
Il sogno (?). In realtà non di sogno si tratta, almeno io non lo vivo come
tale. Forse è uno sforzo per focalizzare un'immagine diversa, che sostituisca
la vecchia non più proponibile, sapendo - come punto fermo - che la parrocchia
del Duemila o si rinnova o diventa una struttura fuori del tempo. Così si
pensa a volte ad una parrocchia che rigetti ogni dispersione in attività non
essenziali, che sia tutta e solo "evangelizzazione pura"; una parrocchia che,
si pensa, abbia come unico obbligo quello di una predicazione sine glossa del
Vangelo. Oppure si cerca una "parrocchia comunionale", fatta di tanti piccoli
nuclei di persone che vivono un intenso rapporto di comunione e di amicizia al
loro interno, e che hanno come momento unitario solo l'Eucaristia domenicale;
la parrocchia delle comunità di base, che si costituiscono però, talvolta, su
legami solo umani di amicizia. Ma c'è anche il modello di parrocchia che si
preoccupa più del territorio e dei bisogni della gente sul territorio che non
della vita interna, interiore, direi teologica, della comunità cristiana: è la
parrocchia dove l'evangelizzazione viene sopraffatta e talvolta lascia quasi
interamente il posto alla promozione umana.
Forse è la stessa figura di parroco che va ripensata, a partire dal nome. Se
"parrocchia" etimologicamente significa "tra la gente", il termine "parroco" è
forse troppo legato ad una immagine non comunionale, ma gerarchica della
Chiesa. "Parroco" sa forse troppo di piccolo "gerarca" alla cui responsabilità
deve far capo ogni iniziativa e ogni attività intrapresa sotto la sua
"giurisdizione", nella parrocchia vista come "struttura e istituzione
territoriale"; sa di volta in volta, e talvolta insieme, di stratega, di
gestore, di politico, di imprenditore…
Credo che sempre più il parroco debba diventare
"uomo di relazione", uomo che sa collegare i frazionamenti, che aiuta a
superare la settorialità, uomo capace di condurre a sintesi tutte le
virtualità umane e cristiane che trova nel suo campo d'azione, che sa essere
attento lettore degli uomini e delle loro situazioni, uomo non dell'élite, ma
fiero di avere per sua parte eletta anche i "mediocri" e che piuttosto sa
inserire i "migliori" nella pasta della gente comune; uomo che sa leggere, ma
anche formare, i carismi che lo Spirito distribuisce liberamente e che sa
ricondurli ad unità, una unità che è più alta del campanile, perché è l'unità
costruita attorno al Vescovo nella Chiesa locale (= Diocesi). Un uomo insomma
che abbia capacità di coordinare e di coinvolgere le iniziative che possano e
sappiano nascere spontaneamente nella corale corresponsabilità del laicato
cattolico; che sia promotore di una immagine di Chiesa non più clericale, ma
più partecipata da parte dei laici; capace con la sua comunità di costruire
una Chiesa estroversa, cioè convocata per mettersi al servizio del mondo, per
farsi compagna di strada di ogni uomo, convocata in chiesa per saper farsi
carico del mondo, per far perno sul mondo e non sul campanile, per saper
vivere fuori di chiesa sentendo e portando e offrendo la compagnia solidale di
Cristo Signore con tutto ciò che è veramente umano. E quanto detto per il
parroco va necessariamente trasferito su chiunque voglia essere "cristiano
adulto", assumendosi la responsabilità di questa scelta, in una comunità
parrocchiale: tutti, preti e laici, "uomini di relazione".
Resta perciò vero quanto hanno detto i Vescovi italiani, per i quali "la
parrocchia costituisce, di fatto ancora oggi, la prima e insostituibile forma
di comunità ecclesiale". È vero se diamo la dovuta considerazione all'inciso
"di fatto"; altrimenti diventa una fossilizzazione su un'immagine di
parrocchia fuori del tempo e senza relazione con la storia.
In questo quadro non è secondario il riferimento alla missione del Vescovo
(questo vale in particolare nelle piccole Diocesi qual è la mia, dove il
rapporto con il Vescovo è più "a portata di mano"), riferimento che rischia di
essere trascurato e secondario, stante la diffusione ancora forte di un
parroco che considera se stesso come papa e re della sua comunità. Certo, è
Cristo che costruisce la Chiesa e noi siamo solo, con tutti i nostri limiti,
collaboratori della sua sapienza e del suo amore, anche i vescovi. Ma non
possiamo trascurare il fatto che in primis a loro è affidata la missione di
ricostruire continuamente, in nome e con l'autorità di Cristo, la Chiesa che a
loro è stata affidata, stimolando, sollecitando, orientando, incoraggiando
l'impegno di tutti, giacché l'edificazione della Chiesa è opera di tutti "come
familiari di Dio", "sulla pietra angolare" che è Cristo. Il che comporta, mi
pare, una radicale sburocratizzazione nei rapporti tra parroci e vescovi.
Credo che la parrocchia debba imparare a "pensarsi al futuro", a tracciare
nuovi lineamenti, a individuare le nuove esigenze e a porsi impegni
fondamentali che di volta in volta appaiono sconosciuti dato il vorticoso
mutare delle situazioni e la fragilità delle culture che informano la vita
della gente, cristiani compresi. L'importante per la parrocchia, come per
tutta la Chiesa, all'alba del nuovo millennio, è vincere ogni atteggiamento
sclerotizzante e "prendere il largo". Altrimenti manterrà l'inconsistenza,
l'isolamento, la caratteristica di istituzione archeologica o museale che,
tutti credo, abbiamo sperimentato.
***
DA STAZIONE DI SERVIZIO A
COMUNITÀ DI COMPAGNI DI VIAGGIO
(di don Michele Stabile)
1. Un problema di isolamento del
prete, più ancora che di solitudine, esiste oggi a causa della diminuzione del
riconoscimento sociale del suo ministero più propriamente religioso. C'è la
difficoltà insita nell'annunzio evangelico che deve farsi strada tra gli uomini
e le donne del nostro tempo, ma soprattutto l'inadeguatezza di un linguaggio
ecclesiastico che procede in modo deduttivo con affermazioni astratte e di
principio e non riesce a fare sintesi con la storia concreta delle persone. E
c'è anche la sofferenza di essere considerati a volte da alcuni come lo stregone
del villaggio.
A questo va aggiunta la solitudine istituzionale all'interno del mondo
ecclesiastico, perché in moltissimi casi il prete rimane solo nella parrocchia,
senza la collaborazione di altri confratelli e senza rapporti condivisi con le
figure responsabili della diocesi. Il presbiterio diocesano non dà riferimenti e
sostegni esistenziali, per cui o il prete riesce a costruire rapporti con altri
preti che con lui condividono progetti e aspirazioni oppure si affida ai
movimenti ecclesiali per trovare una sponda di appoggio alla vita spirituale e
un sostegno di relazioni gratificanti.
2. Il clericalismo è stato sempre legato a una teologia dei poteri per cui il
prete è di più in base ai poteri che ha sull'Eucaristia e conseguentemente sul
corpo di Cristo che è la comunità dei credenti. Perché si accentuano oggi forme
di clericalismo? La riflessione teologica ha sviluppato con coerenza le aperture
conciliari sulla chiesa comunione fondata sull'eguaglianza battesimale e sulla
diversità dei ministeri, ma gli interventi recenti del magistero enfatizzano il
ruolo del ministro ordinato fondandolo sull'Eucaristia, rafforzando nuovamente
una visione del ministero in termini di potere gerarchico, clericale,
paternalistico, nonostante si usino termini come comunione e servizio. Rimane in
sottofondo perciò una visione di sacralità dei ministri che si ritiene più
consistente e più importante di quella battesimale, per cui solo alcune persone
sono sacre e celebrano e non tutto il popolo di Dio, e da questo, e non dalla
consacrazione battesimale, si fa discendere una serie di conseguenze sul piano
dell'essere e dell'agire ecclesiale.
D'altronde tutto questo viene avallato dal codice di diritto canonico che per
molti vale sul piano concreto della vita della chiesa a volte più che la
Scrittura e più dei testi del concilio. Al vescovo e al parroco il codice
attribuisce ogni responsabilità pastorale, legale ed economica, per cui gli
organi collegiali o consigli previsti dal concilio rimangono solo consultivi o
coreografici. Da ciò un clericalismo che vede come un attentato alla sacralità
ogni espressione di uguaglianza, di partecipazione, di libertà e di autonomia
dei battezzati. Si parla di comunione ecclesiale sempre in senso gerarchico come
movimento dal basso verso l'alto e mai dall'alto verso il basso. La fratellanza
di cui Cristo volle investire i suoi discepoli, che non dovevano riconoscere per
padre se non Dio, si è invece capovolta nell'affermazione di un paternalismo
autoritario e sacrale con cui si crede di tradurre la formula "in persona
Christi", ripetuta ora, più che come una semplice diversità di servizio reso al
sacerdozio del popolo di Dio, come formula di rivendicazione di una posizione e
di un diritto di supremazia che si ritengono minacciati dalla teologia
postconciliare.
Perché meravigliasi allora se ci sono anche laici più clericali dei preti?
Alcuni giorni fa, in un incontro sulla condizione dei laici nella chiesa, una
signora mi disse: Possibile che dobbiamo problematizzare tutto? Abbiamo bisogno
di affidarci a qualcuno senza la fatica di vivere continuamente la realtà come
problema. Questo è lo spirito con cui si vive oggi in molti ambienti cattolici e
non solo. Quando si sente la società come una minaccia, si rafforzano le istanze
autoritarie e clericali all'interno. Così è avvenuto nella chiesa in tante
svolte della sua storia, dalla necessità di difesa nei confronti delle eresie
alla svolta di Gregorio VII, alla rivoluzione protestante, alla nascita della
modernità. Paura del nuovo, bisogno di sicurezza, difficoltà ad assumere
responsabilità, rifugio nelle devozioni credo siano gli ingredienti che
consolidano vecchie e nuove forme di clericalismo in alcuni strati del popolo
cristiano e in preti anche delle nuove generazioni. Ma il clericalismo che
confina con l'integralismo allontana tanti altri dalla vita di una chiesa nella
quale stanno troppo stretti e allontana la chiesa dalla vita degli uomini e
delle donne.
3. Il motivo per l'inserimento di uomini probati non può essere solo la
necessità causata dal calo di vocazioni nei paesi occidentali, ma la logica
conseguenza del riconoscimento della molteplice ministerialità dei consacrati
nel battesimo e dei diversi itinerari di santità sotto la direzione dello stesso
Spirito. Sono anzi convinto che devono essere inseriti anche nel ministero
presbiterale. L'attuale prassi storica della chiesa latina, che sceglie al
ministero presbiterale solo chi è celibe ed esclude gli sposati, non dà il
legittimo riconoscimento alla santità dello stato matrimoniale. Durante il
concilio l'opposizione di alcuni padri al diaconato permanente per uomini
sposati nasceva dalla paura che si intaccasse il celibato dei preti e quindi la
loro sacralità. E comunque i discorsi astratti e ripetitivi che si fanno sul
cuore indiviso non possono riguardare una contrapposizione tra stati di vita su
cui si è fondata nel passato la distinzione tra stati di perfezione e stati di
non perfezione, ma l'orientamento di una esistenza che si lascia guidare dallo
Spirito e di una esistenza che si lascia guidare da logiche di interessi umani,
"secondo la carne".
Per evitare nuove forme di clericalizzazione sceglierei, accanto ai presbiteri e
ai diaconi celibi, persone sposate che però rimangano inserite nella loro
attività professionale e vivano del loro lavoro. E inoltre inserirei nella vita
ecclesiale i preti sposati, lasciando alle singole comunità la valutazione di
accoglierli secondo le loro esigenze.
4. Le parrocchie non devono essere stazioni di servizio, ma dicendo questo non
si dicono cose nuove. Il rischio, oggi come ieri, sta nel fatto che si chiedono
alla parrocchia solo alcuni servizi nella logica di una religione civile che
deve garantire alcuni passaggi fondamentali della vita personale e sociale (la
celebrazione di alcuni sacramenti, i funerali di stato o no, le messe da campo,
ecc…).
La soluzione non può cercarsi solo sul piano di una nuova organizzazione di
rapporti tra parrocchie, anche se è necessario togliere la parrocchia
dall'autosufficienza in cui molti parroci la tengono. Forme di partecipazione
con altre parrocchie a livello zonale sono necessarie, anche se non facili. In
ogni caso è nella parrocchia come comunità vera di relazioni umane che si può
avere un futuro. Relazioni umane che siano espressione sacramentale dell'amore e
della tenerezza di Dio.
5. Non ritengo che ci siano le condizioni per una riconquista degli spazi
perduti nella società secolarizzata. Questa fu la grande illusione di papa Leone
XIII e del cattolicesimo preconciliare: che attraverso l'impegno sociale e
l'impegno politico dei cattolici si potesse instaurare il regno di Dio o
comunque attivare il grande ritorno a una pratica religiosa e al riconoscimento
sociale della chiesa. Non ha giovato alla chiesa la coincidenza tra società
religiosa e società civile. Si è diluito spesso il vangelo nella cultura e nella
politica del tempo. E la modernità si è affermata non in dialogo, ma in
opposizione alla chiesa. La richiesta di laicità anche all'interno della chiesa
perché rispetti e riconosca il valore delle realtà terrene è troppo forte per
pensare a una missionarietà di riconquista. Non che non ci siano ancora oggi, e
forse ci saranno sempre, dei tentativi in questa direzione, ma sono visioni
miopi, legate a contingenze politiche interne e internazionali, che sul lungo
periodo si mostrano senza futuro e comunque fuori della storia e dello spirito
evangelico. Il messaggio di Cristo si incarna solo attraverso l'accoglienza
libera delle coscienze.
6. Più che di pedagogia evangelica del solo pastore in una società secolarizzata
e indifferente parlerei di una pedagogia evangelica di tutta la comunità, che sa
di essere solo una parte, non coincidente perciò con tutta la società, e che si
fa lievito e fermento. È la pedagogia del camminare insieme, del farsi compagni
di viaggio con tutti, dello stare accanto con amore e ascoltando, senza paure
però, senza superiorità, senza rinunciare a raccontare la propria fede. E, se
richiesti, rendere testimonianza della propria speranza. Se la comunità tutta si
fa accogliente e attenta alla persona oltre che al territorio, c'è spazio e
tempo per ridare senso e sapore alla vita secondo il dono dello Spirito.
7. Le tensioni tra movimenti e comunità locali non sono nate oggi. Già nelle
prime comunità esistevano apostoli itineranti e apostoli legati al territorio. E
quando nascono i monaci e poi nel medioevo i movimenti pauperistici e gli ordini
mendicanti si ripropongono tensioni e arricchimenti reciproci. Credo perciò che
non si può, nonostante le possibili tensioni, non dare accoglienza nelle
parrocchie a quei movimenti che non siano esclusivisti. Si deve infatti
salvaguardare la "ecumenicità" della parrocchia come luogo in cui si è accolti
in forza del proprio battesimo, senza altre connotazioni, dove si ha il diritto
e dovere di partecipare alla missione propria della chiesa. E dove ci deve
essere spazio anche per tutti coloro che cercano o sentono il bisogno di dialogo
e di confronto. Ciò presuppone che la parrocchia diventi una comunità di vere
relazioni umane che devono essere preminenti rispetto alle appartenenze. La
comunità parrocchiale ha da imparare dai movimenti ecclesiali la dinamicità di
rinnovamento evangelico, ma può insegnare ai movimenti la pluralità e relatività
delle forme di vita cristiana che devono convivere nella edificazione e nel
riconoscimento vicendevole
LE NUOVE "CINQUE PIAGHE" DELLA PARROCCHIA/CHIESA
(di don Paolo Farinella)
Cara Adista,
mi hai chiesto di rispondere alle domande sulla parrocchia. Ho riflettuto, ho
sofferto, ho scritto. Ho scritto tenendo conto dell'insieme, delle mie
esperienze, del mio ministero. Non ho risposto alle singole domande, perché
rischiavo di dare formulette che alla fine potevano apparire paradossali, perché
prive di un contesto. È scaturita una serie di appunti forse lunga, ma credo che
sia importante non pensare in "pillole": troppi lo fanno oggi. Da tempo penso di
scrivere veramente le nuove cinque piaghe della chiesa e oggi ne do un anticipo.
So che queste pagine mi faranno male e pagherò un prezzo alto, ma se servono per
fare riflettere e per un servizio alla libertà nella verità, nessun prezzo è
alto. Specialmente se quello che diciamo o scriviamo non ha lo scopo di tutelare
conflitti d'interessi. Non ho carriere da difendere, non ho padrini a cui
rispondere, non sono servo prezzolato, ma solo figlio, di cui gusto la libertà
nella condivisione e nell'obbedienza radicale al vangelo, al papa e al vescovo.
Ubbidirò sempre, perché l'obbedienza esige lo stare in ginocchio, mai piegare la
schiena. In ginocchio si sta volentieri. Ubbidire al papa e al vescovo non
significa essere servili, ma sentire il peso e l'orgoglio della responsabilità
della loro salvezza, come loro l'hanno per la tua. Davanti a Dio e alla
coscienza.
Ecco dunque le mie risposte.
Una riflessione sulla parrocchia non può prescindere dalla propria storia
personale, fatta di categorie culturali, sogni spirituali e/o pastorali,
percorsi formativi, esperienze oranti, conflitti istituzionali e incontri
"fondamentali" con persone vive che hanno determinato e segnato la vita.
Ho 57 anni e 32 di sacerdozio, di cui 10
come vice parroco e 14 come parroco. Oggi sono clericus vagus nel senso di aiuto
a parroci che ne hanno bisogno temporaneamente: questo servizio mi permette di
avere un osservatorio "parrocchiale" più ampio e disincantato. La mia formazione
è avvenuta durante il concilio e l'immediato postconcilio in una fucina di
ecclesialità missionaria unica come il Seminario per l'America Latina di San
Massimo in Verona, con la guida straordinaria di preti eccezionali come don
Fernando Pavanello, don Olivo Bolzon, don Mario Agazzi, don Augusto Bergamini,
ecc. che seppero trasmettere a noi studenti l'anelito per la Parola e la
passione per il mondo e per Dio. Essi ci formarono ad essere preti "a perdere":
come preti non possiamo non essere "missionari" e come preti-missionari siamo
condannati ad essere "strabici", dovendo stare davanti a Dio guardando il mondo
e davanti all'umanità guardando Dio. È la logica di Eb 5,1: ex hominibus pro
hominibus in his quae sunt ad Deum. L'altra esperienza decisiva per la mia vita
è stata la permanenza di oltre 4 anni a Gerusalemme, con la possibilità di
studiare (Sacra Scrittura, archeologia, lingue bibliche) e di percorrere tutta
la Terra dei Luoghi della memoria, assaporando il clima interiore della Parola
di Dio, là dove realmente risuonò. In questo tempo ho vissuto per intero tutta
la seconda intifada e l'occupazione della Cisgiordania da parte di Israele. Ho
visto l'inferno nel cuore stesso della città di Dio. Ho visto la sofferenza di
due popoli, di cui sono parte integrante, ho visto lo scandalo della divisione
tra cristiani. Ho vissuto l'impotenza della preghiera, ho rigenerato il mio
cuore, la mia mente e il mio sacerdozio. A questa duplice scuola (Seminario per
l'America Latina e Gerusalemme), libera ed austera, ho imparato che il prete ha
la vocazione ad essere sempre "fuori posto" perché si trova sul crinale della
vita che è sempre "oltre" e deve amare totalmente sia i suoi fratelli e sorelle
sia il comune Signore e Padre. Tra l'incudine e il martello. Questa condizione
come prete mi pone in uno stato di "solitudine" che è, secondo me, una chiave di
lettura dello stato della parrocchia attuale e della sua "gestione" pastorale.
"Solitudine" ed "essere solitario"
Su questo punto bisogna fare chiarezza, perché è fonte di confusione anche
semantica. Si confonde solitudine con essere solitario. La solitudine è una
dimensione dello spirito che ciascuno di noi, celibi o sposati, si porta nel
cuore e di cui nessuno può fare a meno: nei momenti decisivi della vita anche
Gesù fu solo, nonostante fosse insieme ad altri, apostoli/discepoli/folla. In
nessuna pagina del vangelo, però, lo troviamo "solitario". La solitudine
risponde all'imperativo del Signore di entrare nella propria stanza segreta dove
solo il Padre ha accesso e familiarità (Mt 6,6.18). L'essere solitario, invece,
è un peccato se frutto di una scelta, oppure una malattia se conseguenza di una
formazione angusta. La persona solitaria inevitabilmente sfocia nella grettezza
dell'individualismo e nell'accentramento delle attività per sfiducia endemica
negli altri. I preti impegnati in pastorale, oggi, (vi sono tante belle
eccezioni, grazie a Dio!) appaiono non splendenti di solitudine, ma tristemente
solitari, specchio e riflesso di una società effimera, raccolta a difesa del
proprio "particulare" o, peggio, "individuale". Formato ad essere prete
individualista, si trova a gestire una pastorale centrata sulla propria figura e
persona, dirimpettaia a quella del laico per il quale è ordinato e dal quale
deve difendersi. Egli non sta mai "con" i laici, ma sempre "di fronte" a loro. I
preti, di conseguenza, non sanno reggere il confronto e le sfide di un tempo in
permanente trasformazione, di cui non colgono le dinamiche, il linguaggio e la
direzione. Consacrati per essere il segno sacramentale dell'incarnazione di Dio
(Eb 5,1), si ritrovano maestri di una spiritualità disincarnata e spesso
astratta, che si alimenta (o s'ingolfa?) di cose e pii esercizi pietistici che
invece di nutrirli li disseccano. Andando in giro, assisto al ritorno ad uno
stile preconciliare, nei contenuti e nelle forme. Vedo preti anziani che hanno
imparato ad andare in clergyman e, nella stessa parrocchia, giovani preti che
ritornano alla sicurezza/identità della "sottana". L'omelia è un esercizio vuoto
di parole, spesso preso in prestito da libri o siti internet, preconfezioni
liturgiche prêt à porter, svolazzanti di esortazioni moraleggianti, quando non
scade in un parlarsi addosso.
Il prete senza domenica
Alla cosiddetta crisi vocazionale si risponde con un sempre maggiore
centralismo, addossando più parrocchie sulle spalle di un parroco solo e sempre
più "solitario", con la conseguenza che nel "dies Domini" (l'altro argomento
tragico della pastorale parrocchiale) il prete si trasforma in commesso
viaggiatore, rappresentante e funzionario di riti di passaggio, che non lasciano
traccia alcuna di quel mistero di comunione e di "festa" a cui ha diritto il
fantomatico popolo di Dio. Il segno? Ho trovato messali intonsi in ogni loro
parte, con l'impronta delle mani (non lavate?) solo ed esclusivamente nelle
pagine dei formulari più corti. Messe domenicali celebrate in meno di mezz'ora,
lezionari sconnessi, tenuti insieme dallo scotch da pacchi sono il segno
visibile e tragico dell' "alta" considerazione in cui è scaduta la Parola di
Dio. Nel giorno del Signore il prete non prega né da solo né con il suo popolo
perché materialmente "preso" a "dire messa" in giro: vede scampoli di gente, ma
non incontra mai nessuno. Alla fine della giornata il suo essere solitario ha il
sopravvento sulla sua solitudine e lo scaraventa in una dimensione alienante,
aperta ad ogni possibilità. I vescovi, esaurito il rito della nomina canonica,
fanno finta di non sapere e non vedere, assumendosi davanti a Dio tutta la
responsabilità del deragliamento spirituale, affettivo e sociale dei loro preti.
Casa di comunione o stazione ferroviaria?
La parrocchia è essenziale come presenza sul territorio, ma deve
corrispondere ad un ideale e non restare come è ora, una stazione ferroviaria di
servizio, dove ciascuno stacca il biglietto per qualsiasi direzione, cioè per
nessuna. Il difetto è anche nel manico, cioè nell'episcopato: i vescovi (da soli
e insieme come Cei) sfornano poderosi documenti, nei quali le citazioni della
Scrittura e del concilio si misurano in kg, analizzano la situazione con
chiarezza (Ruini parla di rischio di autoreferenzialità della parrocchia, per
cui bisogna rinnovarsi), ma quando si tratta di giungere alle conclusioni
logiche e coerenti, inesorabilmente si richiudono a riccio, non hanno il
coraggio di scelte innovative, si barcamenano tra l'esortazione e l'ovvio,
finendo per non essere presi sul serio nemmeno dai loro preti. La crisi del
clero è la crisi stessa dei vescovi, in quanto diventano sempre più funzionari e
sempre più mondani, onnipresenti in ogni occasione di prestigio, ma sempre più
lontani dalla loro gente e dai loro preti. In questo contesto, ogni parroco si
riduce a fare quello che può, come può, in pieno stato solitario. Vescovo e papa
di se stesso.
L'assenza del "popolo di Dio"
Da 20 anni dai documenti ufficiali della chiesa (Santa Sede e Cei) è
scomparsa la definizione di chiesa come "popolo di Dio" (Lumen Gentium, cap. II),
sostituita dalla meno compromettente e più astratta "chiesa-comunione". So bene
che oggi, nella nuova coscienza che la chiesa ha delle sue radici ebraiche,
l'espressione "popolo di Dio" pone il problema enorme del rapporto
Chiesa-Israele e quindi della teologia della sostituzione, per secoli insegnata
e di cui la maggior parte dei sacerdoti sono intrisi, secondo la quale la chiesa
della nuova alleanza ha sostituito (= preso il posto d') Israele come popolo
dell'antico patto. Questa teologia oggi è non solo superata (in parte) perché
Israele è e resta in eterno il popolo che Dio non ha mai rinnegato, ma mette in
crisi acquisizioni e atteggiamenti spirituali e pastorali inimmaginabili. La
maggior parte del clero, di fronte alle nuove frontiere della teologia,
specialmente biblica, si sente ìmpari, o addirittura inadeguato, per cui ripiega
su funzioni e servizi meno complicati, più gratificanti e meno faticosi, come
processioni, lotterie (horribili dictu!!!), campi estivi e catechismo a
scadenza, finalizzato cioè non alla formazione permanente del cristiano, ma ad
alcune tappe: prima comunione (!!!???), cresima, e anche matrimonio, ecc. Tutti
i parroci sanno e sperimentano che questo tipo di catechismo, strutturato sullo
schema e sul calendario della scuola, è una autentica scuola di ateismo
religioso.
Piani (pastorali…) senza scale
Un altro punto dolente sono i piani pastorali, proposti a livello diocesano,
a volte vicariale, raramente parrocchiale. Si assiste ad una sovrapposizione di
documenti e di carte che nessuno legge perché astratti e redatti con un
linguaggio curiale estraneo alle capacità intellettive del nostro popolo e dei
preti stessi. Sembrano i piani di una casa senza scale. Hanno la durata di
"uno/due" anni e sempre con argomenti e tematiche separate: non esiste una
visione d'insieme, da realizzare secondo le regole della programmazione moderna
che si regge in un dinamismo di reciprocità tra government e governance, tra
indirizzi provenienti dall'autorità e proposte/progetti che emanano dalla base,
in forza del principio della sussidiarietà. A volte si ha l'impressione che
questi "piani", come cappelli estemporanei, servono solo per la vanagloria dei
vescovi che appendono il cappello su attaccapanni vuoti. I vescovi difficilmente
prendono iniziative di qualche spessore nelle loro diocesi, in forza della
responsabilità sacramentale, perché temono le reazioni di "Roma" o forse non
vogliono rischiare di rovinare la loro carriera: nei discorsi e nella pastorale
si adeguano al vento che spira da Roma. In una diocesi italiana ho sentito una
lunga omelia in cui la Parola di Dio era del tutto assente, ma stracolma di
citazioni del papa. Eppure si erano appena proclamate tre letture.
A questo centralismo corrisponde in modo speculare il centralismo della figura
del parroco che aspetta la minestra preparata dal vescovo. I parroci a loro
volta educano i laici che li coadiuvano ad essere ecclesialmente immaturi,
chierichetti in pianta stabile, con buona sepoltura del citato principio di
sussidiarietà.
Laici solo "consultivi"
Vengo così all'altro argomento drammatico: i laici nella struttura
ecclesiale. Nelle parrocchie (e anche nelle diocesi) i membri laici del
Consiglio pastorale sono, ope legis (CJC, can. 514 §1; 536 §2;), "consultivi",
per cui il diritto stesso statuisce che i laici sono collaboratori senza
responsabilità, perché su qualsiasi decisione collegiale prevale la volontà del
prete. Addirittura il diritto non dice che il Consiglio debba essere
obbligatorio ("si costituisca… si opportunum sit", can. 536 §1). Con queste
premesse, qualsiasi progetto è fittizio, perché suppone o esprime all'esterno
che il clero ha paura dei laici oppure che di essi non si fida. La conseguenza è
che come i vescovi scelgono persone a propria immagine che facciano da "cassa di
risonanza", usi ad ubbidir tacendo, così i parroci scelgono i collaboratori tra
le persone meno preparate, spesso problematiche o instabili psicologicamente,
purché disponibili ad essere sempre "et cum spiritu tuo". Difficilmente
accettano persone libere di giudizio con le quali confrontarsi ad un livello di
serena maturità. Ne consegue che questi laici/laiche-chierichetti/e, spesso per
difendere quello che considerano uno "status" di privilegio personale, assumono
atteggiamenti clericaleggianti, a volte più clericali del parroco stesso, quando
non sono motivo di allontanamento per quanti non fanno parte della cerchia dei
beniamini. Attorno al parroco si costruisce una siepe di immaturi che
gl'impedisce di vedere oltre e di essere visto. Oltre la siepe, il buio e
attorno al parroco, il vuoto pieno di banalità e di rivalità.
Le nuove "piaghe"
Quali soluzioni? Non ho la presunzione di avere risposte risolutive, ma
sento dentro di me che bisogna fare delle scelte, superando la logica della
pastorale di mantenimento o della chiesa custode di tradinzioncelle, orpelli
vuoti di vuoti riti. Se dovessi riscrivere le "Cinque piaghe" della
parrocchia/chiesa, le elencherei così e in quest'ordine:
1) La crisi delle vocazioni sacerdotali è veramente una crisi? A me pare che la
cosiddetta crisi vocazionale sia piuttosto un segno dei tempi con cui Dio,
forse, vuole parlare ad una chiesa distratta per costringerla a prendere
decisioni epocali, adeguate alle esigenze dei tempi moderni per rispondere in
tempo all'anelito di Dio che sale dalle viscere del mondo. Finché le parrocchie
resteranno centrate sul clericalismo, nessuna pastorale smuoverà l'immobilismo
in cui ci si trova. È necessario che il prete non assommi in sé tutti i ruoli
funzionali: leader, liturgo, economo, organizzatore, animatore ecc., ma riservi
a sé il servizio dell'unità, della preghiera e della Parola, lasciando tutto il
resto a chi può e sa farlo meglio di lui. Ripartire dal vangelo, supportato
metodologicamente da due libri datati, ma che ancora oggi, nell'afflato di
fondo, sono attuali perché ai problemi che pongono non è stata data risposta,
nonostante gli autori siano stati prima esposti al ludibrio ecclesiale e
condannati davanti al mondo e poi, post mortem, riscattati ufficialmente: il
libretto La Parrocchia di don Primo Mazzolari e il più poderoso e consistente
Esperienze pastorali di don Lorenzo Milani. Sembra ridicolo, eppure i problemi
della parrocchia di oggi sono fermi ancora agli anni '50/'60.
2) La formazione permanente. Il prete e la parrocchia sono inadeguati perché
sono fuori della storia dei propri contemporanei, isole neppure felici in mezzo
ad un mondo in trasformazione di cui hanno perso l'odore, il suono, il
linguaggio e la direzione, ma di cui hanno assunto quello stile mondano che li
rende porzioni della borghesia benestante, schiava di modelli televisivi
funzionali al regime illiberale e antidemocratico che attualmente domina in
Italia. Molti preti oggi non leggono più, tanto meno studiano, ma in compenso
sono saturi di tv e di navigazioni internet, con cui si alienano e divagano.
Andando in giro, vedo sempre più chiese chiuse e di sera sono molto rade le
parrocchie che hanno attività in agenda: il tarlo della tv ha drogato anche i
preti? Urge una inversione di tendenza. Fermarsi per alcuni anni (cinque?)
chiudendo chiese e cappelle e proponendo, a quanti vogliono ancora tentare un
servizio evangelico al popolo di Dio, un ritorno al fiume Giordano, alla
sorgente, dove annegarsi nella Parola per ripartire col solo vangelo, sine
glossa. Vescovi, preti e laici insieme alla scuola della Parola di Dio (l'unico
piano pastorale possibile) per riprendere in mano le coordinate del Regno e
della storia, per ripercorrere nuovamente le vie del mondo, discepoli di quel
Signore che è venuto non per condannare il mondo, ma per salvarlo.
3) Il celibato, scuola di libertà e palestra di grettezza. È il nodo attorno al
quale si gira e rigira, ma che prima o poi bisognerà sciogliere nell'unico modo
possibile: la libertà di scelta, così che i preti possano essere scelti sia tra
persone che eleggono il celibato come dimensione di vita cristiana, sia tra
persone che scelgono la dimensione cristiana del matrimonio per testimoniare
l'alleanza e il dono gratuito di sé. Se la chiesa riconosce il sacerdozio
coniugato per il rito orientale, come può dire che il celibato risale alla
volontà di Cristo solo per la chiesa di rito latino? Il Signore non ha fatto
questioni di geografie e di riti: o è volontà di Cristo per tutti o non lo è. In
questo modo si supera il problema dei viri probati che restano solo un
espediente di transizione. Molti sacerdoti vivono il celibato con convinzione e
dedizione autentiche, mentre per altri è pesante.
Il problema esplode oggi, perché viviamo una enorme transizione che si compirà
non prima di un quarto di secolo. Il celibato del prete era vissuto in rapporto
al matrimonio, unico luogo deputato come "la via" per generare la prole (si
diceva: fine primario). Il secolo appena trascorso ha portato una rivoluzione di
costume: nell'agire quotidiano, anche tra i credenti, la sessualità è stata
separata dalla procreazione ed è vissuta indipendentemente dal matrimonio come
aspetto ludico della vita di relazione (non do giudizi di valore, descrivo una
realtà). Al prete viene meno un pilastro della sua spiritualità e della sua
pastorale, insinuando la consapevolezza di essere maestro inutile: per secoli la
morale coniugale è stata il suo cavallo di battaglia, ora su questa questione il
popolo, anche praticante, va per conto suo, generando instabilità e insicurezza,
quando non rivela forme patologiche di immaturità affettiva (vedi la tragedia
che si consuma in Usa per la pedofilia dei preti, sintomo esploso di un
malessere diffuso in tutto il mondo). Il prete pedofilo diventa così una vittima
tra le vittime. Noi sappiamo che il "celibato" è tabù nella chiesa, tanto che,
per es., l'episcopato d'Africa da almeno vent'anni non ne parla nemmeno,
nonostante sia il continente (insieme all'America Latina, all'Asia e, dulcis in
fundo, all'occidente) dove il celibato fa acqua da tutte le parti. Fino al
secolo X d.C. la condizione normale del prete era "more uxorio" a volte
formalizzata, ma spesso vissuta solo in concubinato notorio. Con la riforma
monastica cistercense, il monaco diventa modello anche per i preti, ma bisognerà
aspettare il concilio di Trento per mettere ordine in materia, con l'istituzione
dei seminari, l'obbligo della residenzialità e l'abolizione della categoria del
"clericus vagus". Affrontare il tema del celibato porta con sé, inevitabilmente,
anche l'altro aspetto: il sacerdozio alle donne. Il problema non è risolto, è
solo rimandato di qualche secolo, ma inevitabilmente si riporrà e sarà risolto,
come spesso accade nella chiesa: oggi riconosce quello che ieri ha negato e
combattuto; non per scelta, ma per necessità. Ieri un papa definiva
l'inquisizione strumento di verità, oggi un papa la dichiara forma di
"antitestimonianza e di scandalo" (vedi Adista 47/04). Il giorno in cui il
celibato sarà una libera scelta, vi sarà un rifiorire di vocazioni, celibatarie
e coniugate e, inevitabilmente, cadranno tutte le obiezioni contro il sacerdozio
alle donne perché muterà radicalmente la struttura della chiesa e della
parrocchia e anche l'approccio teologico. La difesa del sistema attuale è anche
una difesa di un sistema patrimoniale, di cui il prete celibe è custode e unico
beneficiario. In caso di sacerdozio uxorato, questo patrimonio deve farsi carico
delle nuove responsabilità, per cui si renderà necessaria una ristrutturazione
dell'organizzazione parrocchiale.
4) Laici vivi in un mondo che cambia. La presenza dei laici formati nella
parrocchia deve essere una attenzione costante del vescovo e del presbiterio. La
loro formazione non deve essere casuale o fatta di piccole cose: piccoli
respiri, piccoli orizzonti, piccoli incontri e tutto basato sul buon cuore e
sulla buona volontà. Oggi non bastano più. Il livello di cultura, l'elevato
tasso di scolarizzazione, la possibilità di viaggiare, la conoscenza delle
lingue, oggi pone il prete di fronte a persone agguerrite ed esigenti, alle
quali non si può più raccontare la favola o fare pie esortazioni. Questi laici
esigono che il parroco sia alla loro altezza culturale, psicologica e umana: sia
cioè professionale, competente, aperto al dialogo/confronto e serio nello
svolgimento del suo ministero sacerdotale il cui esercizio deve essere sempre
preparato, mai improvvisato. Oggi, nessuno tollera il pressappochismo, la
superficialità, la banalizzazione e l'impreparazione. La parrocchia ha bisogno
di uomini e donne responsabilmente adulti e non sudditi acritici del parroco che
aiutano più per compassione che per convinzione. Ad ognuno la sua responsabilità
e il proprio compito e questo fine si può raggiungere solo con una formazione
dei laici e dei preti, esterna alla parrocchia e affidata a uomini e donne
capaci e competenti. Qui s'inserisce la presenza nelle parrocchie di gruppi
strutturati con una propria organizzazione e una spiritualità marcata. Possono
essere una benedizione, ma possono essere una maledizione, o una iattura,
specialmente quando il parroco è membro attivo di uno di essi. Il parroco non
deve appartenere a nessun gruppo specifico, perché la sua spiritualità
sacerdotale e battesimale deve essere pronta a riconoscere le diversità e nello
stesso tempo ad armonizzarle nello spirito dell'unità ecclesiale/parrocchiale
che è un "solo popolo", sacramento della chiesa universale. Quando i gruppi
vanno per conto loro, anche con liturgie personalizzate, magari sovrapposte a
quelle parrocchiali, allora prevale la loro fisionomia di setta, sullo stile
dell'esperienza di Corinto. Paolo ne soffrì per tutta la vita, ma non cedette
sul principio/valore dell'unità interna e della credibilità nei confronti del
mondo pagano.
5) La spiritualità di comunione, attorno alla scelta preferenziale per i poveri.
Vescovi, preti e laici devono stare più insieme per educarsi ad una spiritualità
di comunione oggi latitante. Forse, è necessario tagliare molti impegni e
attività non indispensabili per dedicarsi allo "stare insieme", pregando,
mangiando, ascoltando, studiando, condividendo. Porre alcuni segni dirompenti
nel contesto diocesano come espressione della comunione ecclesiale tra laici,
presbiterio e vescovi. Vivere alcuni giorni residenziali di preghiera;
individuare iniziative di accoglienza e di attenzione ai poveri, in maniera
permanente e non sporadica, in cui splenda la presenza del vescovo e del clero
(magari a rotazione); che la casa del vescovo sia aperta, sempre, notte e
giorno, con una mensa diurna per i preti di passaggio o per i preti soli (e per
quanti lo vogliono): alla mensa sacerdotale debbono potere accedere i poveri,
nello spirito del vangelo e segnatamente di Mt 25. La via per Cristo e la strada
del rinnovamento della parrocchia passa inesorabilmente da qui e questa
dimensione (comunione e poveri) è la carta credenziale che accredita davanti al
mondo incredulo la credibilità della chiesa e, nella chiesa, del clero, dei
laici e del vescovo. Si scontenteranno molti, e tanti che si professano amici
della chiesa, anche quando producono leggi antievangeliche sui figli di Dio
immigrati, l'accuseranno di sovversivismo e di essere "comunista" (è un tipico,
un teologumeno universale!). "Quivi sarà per la chiesa/parrocchia, per il
vescovo/clero/laici credenti vera letizia", perché tutto il resto sarà pula di
vanagloria dispersa dal vento. Le condizioni dell'annuncio del vangelo, oggi,
non sono migliori dei tempi passati o del tempo di Gesù: egli non aveva né
interessi né carriere da difendere. Egli sapeva ciò che voleva (S. Ignazio di
Loyola, Esercizi spirituali) e conosceva la sua mèta, Gerusalemme, verso cui si
dirige decisamente, a muso duro. Anche per noi. Aspettando ancora noi.