MATTI DI GUERRA

VIAGGIO IN UNA REALTÀ SCOMODA PER I GOVERNI

(a cura di Claudio Prandini)

 

 

Un paziente traumatizzato in un manicomio

subito dopo la prima guerra mondiale

 

 

INTRODUZIONE

Fonte web

Si chiama Ptsd, Post traumatic stress disorder. E' la malattia mentale che a volte colpisce i soldati al rientro dai teatri di guerra. Negli Stati Uniti i militari che ne sono vittima oscillano, secondo le stime, tra il 20 e il 40 per cento dei reduci. In Olanda e Norvegia attorno al 5. Nel Regno Unito attorno al 3/4. In Italia le Forze armate ammettono l'esistenza di due/tre casi all'anno, di fatto lo zero per cento. Abbiamo raccolto diverse testimonianze di militari, ex militari e esperti che mettono in dubbio questa "verità".

Dalla Grande guerra all'Irak, un secolo di orrori e follia

Prima guerra mondiale I folli, anzi gli "scemi di guerra" - come li ha chiamati la tradizione popolare - sono stati chiusi nei manicomi e se ne è persa (quasi) ogni traccia ("Scemi di guerra. La follia nelle trincee", di Enrico Verra, Rarofilm). Scrive Valeria Babini in "Liberi tutti. Manicomi e psichiatria in Italia: una storia del Novecento" (Bollati Boringhieri, 2009): "La guerra ha prepotentemente messo sotto gli occhi degli psichiatri italiani l'esistenza di una 'strana malattia' (...) Gli psichiatri italiani si allontanano con fatica dall'idea di una predisposizione ereditaria alla malattia mentale". E' la nevrosi traumatica di cui aveva iniziato a parlare Freud.

Seconda guerra mondiale Gli studiosi che si sono spinti in trincea mettono in evidenza un altro aspetto del trauma: costringere l'uomo a uccidere un suo simile ha effetti devastanti. Pino Arlacchi, in "L'inganno e la paura" (Il Saggiatore, 2009) riporta uno degli studi più famosi, apparso nel 1947, di Samuel Marshall, storico militare americano: su 100 combattenti, non più di 25 sparavano davvero contro il nemico, i rimanenti 75 restavano passivi o smettevano subito dopo aver iniziato. Secondo studi successivi fino all'80 per cento sceglie di evitare lo scontro violento.

Vietnam E' il primo conflitto "asimmetrico": il nemico può venire da ogni parte. Sul piano psicologico è la guerra più devastante. Secondo alcune fonti il numero di suicidi dei soldati rientrati dal fronte ha superato il numero dei morti al fronte (58mila morti in battaglia/60mila suicidi). Su queste stime la controversia non è mai cessata: a fronte di chi le ha criticate in eccesso, c'è chi si è spinto a stimare i suicidi tra i veterani fino a 100mila. E' in seguito a questa guerra che venne introdotta nel Dsm IV - il manuale diagnostico psichiatrico - la categoria di Post Traumatic Stress Disorder, estesa poi al mondo civile. Casi di reduci dal Vietnam con Ptsd continuano a venire alla luce ancora oggi.

Guerra del Golfo (anni Novanta) Il numero dei casi di  Ptsd è alto ma i numeri sono vaghi. Nell'ordine di decine di migliaia, comunque. Caratteristica degli studi effettuati durante la Guerra del Golfo, grazie alle tecniche di neuroimaging, è la scoperta della riduzione del volume dell'ippocampo, la zona della memoria (con l'amigdala) deputata a elaborare il ricordo traumatico. Riduzione stimata nel 10 per cento.

Irak (secondo conflitto, 2003) e Afghanistan (2001) I soldati che hanno riportato gravi danni psicologici solo negli Stati Uniti sono stati stimati in oltre 300mila. A questi vanno sommate le migliaia provenienti dalle altre forze della coalizione.

 

 

Scemi di guerra. La follia nelle trincee

 

Pazzi di guerra - rappresentazione teatrale

 

 

Tarantelli: "Vite rovinate

dallo shock da battaglia"

fonte web

Un soldato nella base militare italiana di Nassiriya, sventrata da una bomba nel novembre del 2003Il parere di una psicanalista: "E' semplicemente impossibile che i dati ufficiali delle Forze armate riportino un numero così basso di casi di 'Post traumatic stress disorder': ci sono solo due spiegazioni, o non li rilevano o non dicono la verità"

Dottoressa Tarantelli, i dati ufficiali delle Forze armate italiane riportano in media 2/3 diagnosi gravi di Ptsd su 19/20 casi segnalati, una situazione anomala rispetto a quella di tutti gli eserciti occidentali. E' verosimile?

"Impossibile. Semplicemente impossibile. Ci sono solo due spiegazioni: o non li rilevano o non dicono la verità. Queste percentuali sono sempre costanti. Non esiste una popolazione più immune di altre. La strutturazione della psiche occidentale è simile: per forza di cose questo disturbo può essere rintracciato nell'Esercito italiano. Non solo, sono pronta a scommettere la mia reputazione sul fatto che tutti i soldati coinvolti in scontri attivi siano esposti al trauma. Anche se va fatta una precisazione importante: la reazione traumatica può essere scatenata solo da un confronto, diretto o indiretto, con la morte violenta: come rimanere ferito o vedere un compagno che cade morto".

In Olanda, per parlare di un contingente non così "aggressivo" come quello statunitense, la percentuale di Ptsd è attorno al 5 per cento...

"E allora si può fare una trasposizione automatica, a parità di esposizione al rischio: quel che vale per gli olandesi vale anche per il nostro contingente. Inoltre gli olandesi sono stati tra i primi e i migliori studiosi del trauma".

Perché in Italia la letteratura scientifica sullo "shock da battaglia" è così scarsa?

"Dalla Prima guerra mondiale fino al Vietnam questo filone di studi sul trauma, ormai imponente nel mondo anglosassone, dove è penetrato nella coscienza collettiva, si comporta come un fiume carsico: va sotto, viene rimosso, dissociato, non se ne parla più, e riemerge nel conflitto successivo. Del Vietnam è rimasto un fiume visibile, nonostante i continui tentativi dell'Esercito statunitense di negare - come in Irak e in Afghanistan - e questo è uno dei motivi per cui la storia di questo trauma non può esser lasciata nelle mani degli eserciti. Credo che in Italia tutto questo non ci sia stato: in letteratura si trova qualche traccia, ma non ci sono stati sviluppi".

Il Ptsd fa pensare ai casi eclatanti, ma le statistiche parlano di un disagio più diffuso e meno visibile.

"Sì, i casi di Ptsd o cosidetto "grande trauma", portano sintomi evidenti. Queste persone sono come  "rapite"  dalla memoria di quello che gli è successo e nel rivivere quel momento, con i flashback e le memorie intrusive, sono completamente invalidati. Un disagio più diffuso è quello dei trumatizzati che stanno "all'ombra del radar": non hanno una sintomatologia evidente, ma sono danneggiati in profondità. Queste persone vengono svuotate dal trauma fino a ridursi a uno stato di mera sopravvivenza. Sono vite minime. Sono vite senza affetti, senza piaceri, senza progetti. Sono vite rovinate".

E se una "vita rovinata" entra nelle Forze dell'ordine?

"E' un problema. In questi casi può esser sufficiente un piccolo elemento di realtà, collegato al ricordo, a riattivare la reazione traumatica, a slatentizzare il ricordo intrusivo, creando una situazione potenzialmente ingestibile e pericolosa, specie se il soggetto lavora in situazioni a rischio. Ad esempio, uno sparo può rievocare un'esplosione e riattivare il ricordo. E' un pericolo anche per i colleghi, che magari non lo conoscono, non sanno di questa eventualità, né sanno riconoscere i sintomi. Così, se il soggetto a rischio dà in escandescenze in una situazione potenzialmente violenta, i colleghi di pattuglia, per esempio,  come possono reagire? Che ne sanno di come si gestisce una crisi? Anche questo è un problema". (r.s.)

 

 

Stress post traumatico e veterani di guerra

 

 

Gigantino: "Il nostro segreto

è una selezione più attenta"

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"I risultati del lavoro di monitoraggio e prevenzione - dice il generale che per dieci anni ha diretto il Dipartimento di scienze neurologiche e psichiatriche dell'Ospedale militare del Celio - possono apparire inverosimili solo a chi ha ancora in mente l'esercito di leva"

Generale Gigantino, l'Ospedale militare Celio di Roma riferisce che su una ventina di casi che vengono evacuati dai teatri operativi, solo un paio sono diagnosi gravi sul piano psicologico, ma a guardare le statistiche di tutti gli altri eserciti sembra inverosimile...

"La casistica che le ha dato Iudica è corretta (Il tenente colonnello Marco Iudica è attualmente capo dipartimento di scienze neurologiche e psichiatriche del Celio di Roma, ndr). Le dimensioni del fenomeno sono queste e lo si deve a due fattori: il primo è una particolare 'cultura della selezione', soprattutto sul piano psicologico: scegliamo solo i più adatti, per questo il paragone con gli altri paesi è fuorviante. L'altro aspetto essenziale è il polso che hanno i comandanti della situazione, conoscono bene i loro uomini. L'idea è quella di muoversi un passo avanti agli altri paesi, evitando di far partire le persone che non sono in grado di partire: non come gli americani che spendono molte delle loro risorse per curare il Ptsd. Fare prevenzione, insomma, sperando di non arrivare mai alle problematiche con cui si confrontano all'estero".

E funziona?

"Certo. Il lavoro di selezione, monitoraggio e prevenzione è una pratica già in atto che dà risultati che possono apparire inverosimili, come le statistiche di Ptsd, solo a chi ha ancora in mente l'esercito di leva, ma che non lo sono affatto. Può essere, sì, che un soldato parta in condizioni poco buone, e si avvicini a un punto di esaurimento, ma sa che nei teatri operativi ci sono persone che lo capiscono e lo ascoltano. E poi va ricordato il profilo del nostro Esercito, che anche nei teatri più impegnativi non è mai venuto meno a un compito di grande umanità. Anche questo è importante: atrimenti come si spiega, ad esempio, che in Libano ammazzarono trecento americani e trecento francesi e a noi non fecero nulla? Perché le nostre ambulanze erano anche nei campi palestinesi e assistevamo tutti, senza distinzioni. Per riassumere, noi non portiamo solo garze, ma anche ascolto".

Sul piano psicologico i soldati sono seguiti?

"Sì, ovviamente. Sono seguiti quelli che si rivolgono al Celio o che vengono evacuati dai teatri operativi per una qualsiasi ragione sanitaria, che sono appunto una ventina di casi l'anno. Facciamo l'esempio di Nassiriya. Il gruppo dei feriti reduci dalla strage - tre o quattro casi - ha potuto partecipare a incontri di feedback: si interviene con una tecnica detta di debriefing, un modo di condividere i vissuti dell'evento traumatico. Socializzare un vissuto comune serve a non isolarsi e, al tempo stesso, è anche un modo di scaricare questi vissuti. Nello specifico, in chi si rivolse a noi il Ptsd non si sviluppò, mentre altri non li abbiamo più visti. Anche se ci raccomandammo di rivolgersi al medico curante, al comparire di determinati sintomi".

Lei ha realizzato un'indagine sul rapporto tra stress e operatività, di che si tratta?

"Si è ritenuto necessario capire quali fattori di stress abbiano influito sul benessere psicofisico del personale: come e se abbiano ridotto la loro efficienza operativa. L'impressionante mole di dati raccolti (la ricerca, finanziata nel 2006,  è iniziata nel 2008) è attualmente in elaborazione presso l'Università di Tor Vergata. Abbiamo lavorato con due reggimenti, il primo ad alta turnazione operativa (Brigata Garibaldi), l'altro a minor impegno operativo (Granatieri di Sardegna). Ma quello tra operatività e stress è solo uno dei tanti aspetti che si è voluto sondare. Il livello di adesione è stato alto, e per non falsare il campione sono stati coinvolti solo volontari convinti del senso della ricerca, a cui sono stati dati molti questionari: prima, durante e dopo la missione. Il questionario è anonimo ma sappiamo che il numero 1, per fare un esempio, è partito ed è tornato in un certo modo, con un certo carico di stress, ecc. Sappiamo la sua storia".

Ma se è anonimo...

"Infatti, ricordo che un giovane soldato, quando presentammo il progetto, mi chiese: 'Perché è anonimo? cioè, se io ho un problema, poi devo partire lo stesso, voi non sapete come mi chiamo...' Gli risposi: 'Guardi che lei deve fare una visita medica prima di partire: il medico le deve dare l'idoneità, lo dica al dottore, a tutela della sua salute e dei suoi compagni. Non è un problema, ci sono molte ragioni per cui lei in quel momento magari non è pronto per il teatro operativo'".

Da un lato il disagio, dall'altro il bisogno di partire per cumulare missioni... non sono istanze in contraddizione?

"Sì, certo, il soldato ha bisogno e soffre: questo ci mette di fronte al problema della dissimulazione. Intercettare chi sminuisce un problema è più sottile e più complicato che non il contrario, come ai tempi della leva. Ma quello di oggi è tutto un altro tipo di personale. Sono uomini davvero notevoli. C'è chi si arruola perché non ha alternative, è vero, ma una volta arruolati svolgono il loro lavoro con grande dignità. Perché il contesto è coinvolgente, si diventa un gruppo unito e coeso. E chi va all'estero ha l'occasione di crescere, di diventare consapevole, di vedere come gioca il bambino siriano o afgano, per esempio. E così si ha modo di apprezzare il motivo per cui si è là". (r.s.)

Michele Gigantino ha diretto il Dipartimento di scienze neurologiche e psichiatriche del Celio (di cui è attualmente vicedirettore) per quasi dieci anni, dal 1999 al 2008. In veste di capitano è stato il primo psicologo clinico voluto dall'Esercito sul campo, nel 1983, in Libano.

 

 

scemo di guerra - 1 parte

 

scemo di guerra - 2 parte

 

 

Quando la paura diventa abitudine

"Io, fidanzata di un uomo in missione"

Fonte web

Elena è stata fidanzata per tre anni con un giovane ufficiale dell'aeronautica, M., e racconta un po' di quel "mondo". Ha trent'anni, è milanese e insegna in una scuola secondaria della sua città. Lui è del Sud, stessa età, tre missioni all'attivo (in Irak e in Afghanistan). Giovanissimo si è iscritto alla Scuola di guerra aerea, a Firenze. Poi è stato trasferito a Milano, dove vive da una decina d'anni.

Il tuo ex fidanzato che mansioni svolgeva in missione?

"Si occupava di logistica: quanto materiale deve arrivare, quanto ne deve partire, eccetera. Lavorava all'ufficio della base, insomma, non lavorava nelle situazioni davvero a rischio, come in pattuglia, o di guardia... anche se è quello che avrebbe voluto...

In che senso?

"Chiedeva lavori sempre più rischiosi, come quello di contatto con la popolazione, o di istruire la polizia afghana. Voleva andare nelle zone 'calde': dove c'era tensione, lui voleva esserci. Quando stavamo assieme, comunque, lavorava alla base dell'aeroporto".

La base è un posto sicuro?

"Per niente. Ci sentivamo tutti i giorni e spesso ho sentito scattare l'allarme: a un tratto rumori di ogni genere nel sottofondo, caos, e lui chiudeva. Oppure cadeva la linea all'improvviso e non lo sentivo per giorni, nemmeno tramite Roma riuscivo ad avere notizie. Solo al rientro mi spiegava che la base era stata sotto attacco. La vita quotidiana laggiù è questa: attacchi, allarme, fuga in bunker in cui c'è un caldo atroce, tutti pigiati, per ore, finché non viene dato il segnale del passato pericolo".

Che altro ti  raccontava?

"Che l'atterraggio e il decollo degli aerei italiani che portano i rifornimenti sono i momenti più pericolosi, perché provano a colpirli con i razzi, ad esempio. Così gli aerei a volte nemmeno atterrano, ma si tengono ad alta quota e lanciano i viveri con il paracadute. Gli sparano lo stesso ma è più difficile prenderli. Poi però sta a quelli della base andare a prendere i pacchi, e magari sono caduti lontano a chilometri di distanza, in zone non protette. E lì sì che è pericoloso".

Aveva paura?

"Io credo di sì, ma di carattere è sempre stato spavaldo: se c'erano ragazzi che dopo qualche giorno volevano rientrare, o piangevano, o stavano male, per lui questo era un motivo di orgoglio. Si sentiva un duro".

E' mai stato fuori dalla base?

"Sì, certo. Dei racconti delle uscite dalla base la cosa che più mi è rimasta impressa è che le strade erano tutte piene di brandelli di corpi. Perché quasi ogni giorno laggiù qualcuno si fa saltare in aria, mentre qui, in Italia, noi veniamo a sapere solo degli attenati che 'riescono', diciamo così, perché solo in quel caso la tv ne parla".

Ha mai documentato quel che ha visto?
"Tornava a casa con una marea di fotografie da incubo. Io all'inizio ero incredula: 'Questo è un film', mi dicevo. Cioè, capivo che era vero, ma non riuscivo a crederci. Stavo male, non volevo vederle, credo fosse una reazione normale. Come si deve reagire di fronte alla foto di un piede attorcigliato nel filo spinato?".

Anche lui fotografava?

"Sì, certo: laggiù tutti ne fanno. La sua prima fotografia mostrava i resti di un afgano che si era lanciato contro l'aeroporto con l'espolsivo addosso, con una macchina. Lo avevano 'fermato' a una ventina di metri, nel senso che era esploso prima di raggiungere la base. Era a Herat, in Afghanistan. Questo disgraziato ovviamente era in mille pezzi. Rimasi allibita: 'Ma come, di fronte a una cosa del genere ti sei messo a fare le foto?'. La sua replica poi è diventata un ritornello: 'La prima volta ti fa impressione, poi ti abitui'".

Perché fotografare, secondo te?

"Non lo so. Ma a ogni missione questa mania delle foto cresceva: ne circola un'infinità. Credo che se le mostrino tra di loro, che se le scambino, magari per far vedere a chi non è andato in missione: 'Guarda cosa ho visto', 'guarda dove sono stato', 'guarda come sono coraggioso'".

L'ha cambiato questa esperienza?

"Sì. Direi proprio di sì. Era diventato ipersensibile a qualsiasi stimolo esterno: un rumore, qualsiasi cosa, e scattava. Aveva perso l'appetito e il rapporto sonno-veglia era tutto scombussolato. Ma soprattutto si è allontanato da tutti i legami. Si è "anestetizzato", in un certo senso. Era strano, da una parte c'era questo prendere le diatanze da tutti gli affetti, e dall'altro cresceva questo cercare situazioni limite...".

In che senso?

"Credo che le scariche di adrenalina, come l'allarme, la fuga, il crollo di tensione successivo a quei momenti, gli mancassero. Sembra assurdo ma credo che sia così: ogni volta che tornava non faceva altro che ripetere che qui si sarebbe suicidato dalla noia e che doveva tornarè laggiù. E anche alcuni suoi amici, intendo quelli come lui, sembrava che ne avessero bisogno. Quasi come di una droga. Il suo non era il caso del 'povero disgraziatò che 'deve partire altrimenti non sa come pagare il mutuo'... Insomma, che dovevo pensare di uno per cui diventa normale stare in una situazione anormale e un incubo la quotidianità? "

Perché è finita?

"E' finita per tanti motivi. Quello che mi faceva stare male era questo mondo mortifero in cui entrano e che si portano sempre dentro. Mettono una distanza che nel tempo diventa sempre più una frattura, e sei impotente. Mi impressionò molto come si distaccò dai genitori, soprattutto dalla madre. Non andava quasi più a trovarli. Una volta, in un anno, scese solo il giorno di Natale. Se sua madre lo chiamava, era sbrigativo. E così lei chiamava me, disperata. Ricordo che una delle ultime volte mi disse: 'Nemmeno mi permette più di abbracciarlo'. Credo che alla fine si stesse allontanando anche da me".

Contatti con il mondo militare?

"E' un mondo di omertà. Ricordo una cena, l'unica con un "alto grado", diciamo così: un personaggio ridicolo, ma lui era contento di presentarmelo. A un certo punto raccontai di un articolo che avevo letto, ricordo poco, solo che erano test fatti da medici americani per misurare i cambiamenti delle reazioni nei soldati: era interessante perché c'era un confronto tra prima e dopo la missione. Poiché il mio fidanzato faceva quel lavoro, ovvio che fossi interessata. Quando chiesi a questo ufficiale se anche in Italia si facevano ricerche simili calò un silenzio che mi raggelò. E dopo fui sgridata in malo modo. Ricordo molto bene: 'Stress, paura, sono parole che non si devono nemmeno pensare, figuriamoci dirle, figuriamoci a un colonnello! Ora prendiamo un taccuino e ti faccio io un elenco delle parole che si possono dire e di quelle che non si possono dire!". Rimasi malissimo, anche perché non capivo: che avevo detto di strano?". (r.s.)

 

 

 

 

Clochard, carcerati, malati

il dramma di molti ex soldati

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Londra parla del 3-4 per cento dei soldati colpiti da stress post-traumatico. Un inchiesta del "Rhein Zeitung" racconta che solo nel 2008 in Germania sono stati registrati 345 casi. I media statunitensi indicano in genere un 30-40 per cento di Ptsd, di contro alle riviste scientifiche che stimano percentuali attorno al 20. In Italia invece si parla di 2 o 3 soldati in condizioni psicologiche gravi.

Gran Bretagna La Difesa britannica parla di circa il 3-4 per cento di soldati colpiti da Ptsd. Ma, secondo autorevoli "charity" britanniche - organizzazioni che si occupano della salute mentale dei veterani ed effettuano ricerche indipendenti dai Centri studi della difesa - si tratta di cifre al ribasso. La Combat Stress, una delle maggiori, segue oltre 4.600 reduci. Lo scorso anno ha accolto 1.443 nuovi pazienti, e dal 2005 - dicono i dirigenti - la domanda d'aiuto è cresciuta del 72 per cento. E portano come esempio il fatto che oltre il 9 per cento della popolazione detenuta in Gran Bretagna (circa 20mila persone) viene dalle Forze armate: di questi, come è stato poi accertato, circa l'80 per cento soffre di disturbi riconducibili alla sintomatologia da Ptsd. A questo si aggiunge il (recente) fenomeno dei "reduci-senzatetto": chi lascia l'esercito e non riesce a riadattarsi alla vita civile. Secondo alcune stime, circa un quarto di chi dorme per strada in tutta la Gran Bretagna viene dalle Forze armate. Al momento, i reduci presi a carico da strutture specifiche (ostelli) con personale specializzato sono, nella sola Londra, circa mille.

Germania Secondo un'inchiesta parlamentare pubblicata da "Rhein Zeitung", nel 2008 è stato riportato un totale di 245 casi di militari sofferenti di Ptsd rientrati dall'Afghanistan. Nei primi sei mesi del 2009 già erano stati registrati 163 casi: del 35 per cento superiori rispetto alla metà dei casi del 2008. Il report dell'European Organization of Military Associations, invece, documenta che in Germania nel 2009 sono stati trattati 499 casi, il doppio del 2008. Non solo. In un'inchiesta condotta dalla "Suddeutsche Zeitung" un medico dell'Esercito, il Colonnello Mario Horst Lanczik, ha pubblicamente denunciato "evidenti deficit nella cura del Ptsd", sottolineando che i numeri che colpisono americani e israeliani (30 per cento, secondo le sue fonti), dovrebbero essere attesi anche per i tedeschi. Numeri in contrasto con la ricerca scientifica, che a fronte di una rilevazione effettuata nel 2011 dal Professor Hans-Ulrich Wittchen, dell'Institute of Clinical Psychology and Psychotherapy and Center of Clinical Epidemiology and Logitudinal Studies (CELOS) di Dresda, ha trovato che solo un 2 per cento dei soldati tedeschi rispondono alla diagnosi da Ptsd, anche se un 25 per cento soffre di disturbi psichici più o meno gravi. Nel lavoro, i ricercatori esprimono serie perplessità di fronte al gap tra le stime tedesche e quelle, ad esempio, statunitensi, ritenendolo un aspetto che richiede ulteriori approfondimenti e spiegazioni.

Stati Uniti I media statunitensi indicano in genere un 30-40 per cento di Ptsd, di contro alle riviste scientifiche che stimano percentuali attorno al 20. Anche in quest'ultimo caso una cifra considerevole, perché si tratta di diagnosi "piene". Tradotto: se il 20 per cento è il "nocciolo duro" del disturbo, cioè è vero e proprio Ptsd, significa che la "periferia" di un danno psichico minore, ma ad ogni modo molto profondo, coinvolge oltre la metà del contingente americano. L'Ufficio governativo che segue le problematiche dei veterani (The Department of Veterans Affairs, Va) si occupa solo di quelli ormai fuori dall'esercito, e nel 2008 ha dichiarato che tra i soldati impiegati tra Irak e Afghanistan e non più in servizio le diagnosi di disturbo mentale sono state 120mila, di cui 60mila per Ptsd. La Difesa, che ha il compito di seguire i soldati in servizio attivo e i riservisti, non ha fornito stime. E' stata questa mancanza di informazioni a spingere la California Community Foundation (una delle più ricche fondazioni d'America) a commissionare una ricerca alla prestiosa Rand Corporation: "Invisible Wounds of War" (le ferite invisibili della guerra), il più grande report non governativo prodotto. Secondo i 25 studiosi della Rand, che hanno studiato un campione di 1.965 soldati, tra militari in servizio, ex militari e riservisti di tutte le Forze armate, sono da stimarsi in 320mila i militari che hanno subito danni cerebrali, dalla depressione grave ("Major Depression") al Ptsd (dal 2001 al 2008 sono stati impiegati oltre 1.6 milioni di soldati). Non solo. Secondo i ricercatori solo il 53 per cento del personale in servizio avrebbe chiesto un aiuto psichiatrico, mentre il 43 per cento non è mai ricorso a una visita medica per paura che la cartella clinica gli potesse danneggiare la carriera (altre ragioni: paura degli effetti collaterali del trattamento e la convinzione di potercela fare da soli).

La "guerra delle stime" è ulteriormente complicata dalla problematica dei risarcimenti. Per la cura del Ptsd la Difesa deve far fronte a ingenti spese. Quando la guerra "torna a casa" costa, e gli eserciti lo sanno. I media riportano numerosi scandali che hanno visto colludere medici e ufficiali: l'ordine era di "sotto-diagnosticare per motivi di budget".  Tra le molte associazioni di veterani è nata anche Irak and Afghanistan Veterans Against War (Ivaw): i reduci contro la guerra raccontano le atrocità e le violenze a cui hanno assistito o che hanno commesso in prima persona, per scoraggiare i giovani dall'arruolamento, anche se in questo modo si espongono (potenzialmente) all'accusa di crimine di guerra. Le "udienze" in cui i giovani raccontano le proprie e altrui azioni criminali - scrivono i giornalisti e gli studiosi di Project Censored - sono state trasmesse solo dalle radio e dai circuiti indipendenti, e oscurate dai grandi media. La prima si è tenuta nel 2008, ed è stata oscurata. Nel 2009 tutti i maggiori media statunitensi (New York Times, Cnn, Abc, Nbc e Cbs) non avevano ancora fatto parola del movimento che si ispira nel nome e nello spirito a quello che, negli anni Settanta, costrinse l'opinione pubblica americana a parlare delle atrocità commesse dagli statunitensi in guerra (Vietnam Veterans Against War, Winter Soldier, la campagna de "il soldato d'inverno"). Fu grazie (anche) alle loro pressioni che il  Ptsd (categoria poi allargata al "mondo civile") entrò nel manuale diagnostico della psichiatria, il Dsm IV: quello che, con una certa enfasi, gli psichiatri chiamano la loro "bibbia".

Olanda In Olanda si trova uno dei centri d'eccellenza nello studio dei traumi da guerra: a Doorn, vicino Amsterdam. L'Istituto è pagato dalla Difesa, ma si presenta all'esterno come indipendente, per "aggirare" le paure dei soldati (psicologiche e materiali) a parlare del malessere. Stefania Scagliola, una dirigente del Centro, spiega che "in Olanda i casi di Ptsd sono attorno al 5 per cento, come del resto in altri paesi nord europei, come Danimarca, Svezia, Norvegia". La ricercatrice, che sta coordinando un lavoro di interviste "in profondità" a oltre mille reduci, per la costruzione di un database nazionale ad uso di media e governo, commenta che "è solo la punta dell'iceberg". A convincere il governo olandese della necessità di investire in questi studi furono i gravi e diffusi episodi di violenza che si verificarono al rientro dalla missione in Bosnia, dopo la strage di Srebenica.

Norvegia Uno studio pubblicato sul "Journal of Traumatic Stress" dall'Università di Oslo (Division of Disaster Psychiatry), in collaborazione con la Difesa norvegese (Norwegian Defense Command) ha studiato un campione di 1.624 soldati di ritorno dal Libano, a distanza di oltre sei anni. La percentuale di Ptsd è stata superiore al 5 per cento, una stima al ribasso perché il 16 per cento di una parte del campione era stato rimpatriato prematuramente. Secondo gli autori della ricerca - Lars Mehlum e Lars Weisæth - all'esposizione al rischio derivato dalla missione si sono aggiunte altre variabili, come la percezione dell'inutilità della missione militare.

Canada Un'indagine condotta dalla Difesa canadese, grazie a sofisticati e sistematici sistemi di screening, ha rilevato che, dei 27mila soldati canadesi impeganti in Afghanistan dal 2002 al 2008, circa 1.120 riportano la sintomatologia da Ptsd, mentre 3.640 hanno seri problemi mentali. Le statistiche non tengono conto dei soldati impegnati in Afghanistan dopo il 2008, né del personale impiegato in missioni pericolose precedenti l'Afghanistan (Balcani, Rwanda, e altri interventi).  Un'inchiesta della "Cbcnews Canada", invece, ha mostrato una vera e propria esplosione di violenza domestica tra le famiglie dei militari. Un fenomeno, hanno commentato psicologi e psichiatri canadesi, collegato al Ptsd. Il  report della polizia militare (pubblicato dal giornale) ha mostrato che le chiamate per violenza (nelle famiglie militari) dovuta ad abuso di alcol  e droghe sono passate dal 5 per cento nel 2005 al 29 per cento nel 2008. Sempre secondo i media canadesi più del 15 per cento dei soldati torna con gravi problemi psicologici, che sfociano in ansia, depressione, rabbia e abuso di droghe.

Francia Uno studio effettuato nel 2006 da Dominique Vallet, della facoltà di medicina dell'Università Parigi Val-de-Marne, e presentato a Bruxelles a un simposio della Research Technology Evaluation, un'agenzia Nato, ha riscontrato un 1.8 per cento di Ptsd su un campione di oltre 1.300 soldati. Tra questi, il 15 per cento ha detto di aver vissuto esperienze traumatiche. Tuttavia, l'autore del lavoro sottolinea la debolezza dei risultati sul piano scientifico: i soldati francesi che non fanno carriera "si perdono" - scrive - di fatto falsando il campione. Il fatto che escano dalle maglie della sanità militare (che non effettua uno screening sistematico) e non se ne abbia più notizia rende impossibile fare un follow up del disturbo (seguire i pazienti negli anni con controlli periodici per registrare l'evolvere dei sintomi). Un tipo di attenzione nel tempo - il follow up - particolarmente importante nel lavoro con il Ptsd - sottolinea con forza il professore francese - poiché la sindrome, per sua natura, tende a rimanere "nascosta" anche per anni. L'autore chiude così la sua ricerca auspicando da parte della Difesa francese un "maggior impegno" affinché il rilievo sia sistematico nel metodo e continuativo nel tempo.

Italia L'Esercito ha impiegato nelle missioni oltre 150mila soldati, secondo molti esperti una cifra al ribasso. All'Ospedale militare di Roma Celio vengono segnalati una ventina di casi l'anno (per qualsiasi ragione sanitaria), di cui solo 2/3 vengono riconosciuti come situazioni psichiatriche gravi. 

 

 

APPROFONDIMENTO

 

Gran Bretagna, una casa per i reduci allo sbando

 

Qui l'allarme è alto: le organizzazioni non profit che lavorano nel settore stimano che un quarto di chi esce dalla Forze armate prima o poi finisce per diventare un senzatetto. E molti gruppi territoriali rispondono creando una sorta di "casa-base" per accudirli a rotazione

 

 

Il calvario degli eroi dimenticati. Una

vita nell'ombra dopo Nassiriya

 

L'Esercito non li rileva o preferisce nasconderli. Sono i reduci della strage del compound italiano in Iraq nel novembre del 2003, quelli affetti dalla sindrome post traumatica da stress (Ptsd): un disturbo che colpisce soprattutto i militari. In Europa la media di Ptsd tra i contingenti nei teatri di guerra è del 4-5%, ma nel nostro Paese le statistiche dicono che il fenomeno è praticamente inesistente. Queste storie raccontano il contrario

 

 

Ascolta i video delle varie esperienze dei

militari e degli esperti In materia:

 

Abbiamo raccolto diverse testimonianze di militari, ex militari e esperti che mettono in dubbio questa "verità". Vale la pena di leggerle e ascoltarle.