IMMIGRATI:
LA GRANDE FUGA DA GUERRE E FAME
(a cura di Claudio Prandini)
INTRODUZIONE
Immigrati, il problema è da dove fuggono
Arvivescovo di Ferrara e Comacchio
Ascoltando
le reazioni alla tragedia di Lampedusa non si può fare a meno di rilevare una
ipocrisia così diffusa che finisce per essere una connivenza, una collusione con
i responsabili di questa situazione che sembra incredibile in una realtà sociale
come quella in cui viviamo.
Come pochi vanno ripetendo da molto tempo, il
problema degli sbarchi non è la questione che spiega ciò che è accaduto. In
questo senso hanno perfettamente ragione coloro che dicono che queste tragedie
si potranno ripresentare a scadenze che sono anche largamente prevedibili sul
piano temporale, se non si affronta la questione in tutti i suoi fattori e
identificando le responsabilità.
Anzitutto però è doveroso riconoscere che il popolo
italiano, in questo caso come in tutti i casi precedenti, ha
mostrato una generosità e una capacità di dedizione che fa onore alla nostra
etnia; perché il nostro è un popolo coraggioso, generoso, che si assume le
responsabilità anche oltre il dovuto. Vedere come questa gente anche in questo
caso si è prodigata per ridurre l’entità della strage, è una cosa che ci fa
onore. Perciò ben venga un amplissimo riconoscimento a questa popolazione, come
quello del premio Nobel per la pace, che così si riscatterebbe da altre e ben
più infelici attribuzioni date in un passato recente, vedi Obama.
Ma la vera questione è guardare da dove queste persone
fuggono. Non si può affrontare il problema prendendo in esame solo
lo sbarco. Deve essere detto con chiarezza che sono gravissime le responsabilità
della comunità internazionale perché queste persone fuggono da Stati dove non
c’è libertà, non c’è pane, non c’è giustizia, dove i diritti dell’uomo e della
donna vengono sistematicamente calpestati, dove - ci piaccia o no - un’ideologia
di carattere religioso copre e giustifica tutto questo, dove esistono satrapie
locali intollerabili nel terzo millennio, gente che vive concedendosi un lusso
sfrenato depauperando le risorse del popolo e della nazione. E questi regimi
sono stati e sono sostenuti non solo dai paesi occidentali, ma anche dalla
Russia, dalla Cina. Sono sostenuti per motivi economici o strategici, per
accedere a fonti energetiche o per il business della vendita delle armi.
E’ assurdo che la comunità internazionale non riesca a
stroncare il traffico di morte di questi scafisti, dietro i quali
magari – visti gli interessi economici pazzeschi - si celano organizzazioni
insospettabili del mondo occidentale, o dell’Estremo Oriente, o della Russia.
La prima cosa da cambiare è l’atteggiamento verso questi
Stati e regimi, che non devono essere più favoriti. Secondo: ci
vuole un’azione forte e decisa che stronchi questo indegno commercio di esseri
umani che, come ha detto il Papa, vengono spinti dalla fame e dalla mancanza di
libertà, vengono da noi in Occidente, nei paesi che si affacciano sul Mar
Mediterraneo in cerca di vita, di libertà e dignità, e muoiono come animali nei
nostri mari.
Bisogna poi chiedersi che senso abbia tutto questo
pullulare di commissioni, sottocommissioni, di strutture dell’Onu,
dell’Unione Europea che appaiono come luoghi di enormi vaniloqui, di movimenti
di opinione di carattere ideologico che non si misurano mai in maniera positiva
e costruttiva con il problema. Centinaia e centinaia di funzionari dell’Onu che
passano il tempo a discutere di questi problemi in studi ovattati a migliaia di
chilometri dal teatro delle tragedie. E in Europa non si può scaricare il
problema sulle legislazioni nazionali: se ci sono 28 diverse legislazioni ciò
non impedisce che si arrivi a un minimo di uniformità e di intesa, che ci si
assuma delle responsabilità precise, operative ed energiche.
E ancora: il Medioevo cristiano di cui si parla così male
perché lo si ignora, ha comunque difeso le identità dell’Occidente;
ha difeso la libertà, la cultura e la civiltà dell’Occidente impegnandosi in
confronti che hanno avuto qualche volta la caratteristica di uno scontro duro.
Non si può affrontare questi problemi senza chiedersi fino a che punto una
ideologia di tipo religioso che certamente caratterizza il mondo islamico, o una
parte di islam che è certamente determinante sul piano pratico, sia responsabile
del fanatismo in parte dei luoghi di partenza, che provoca un esodo di tutti
coloro che rischiano di essere schiacciati.
Quando si discute questi problemi non si può semplicemente
buttare la responsabilità sulle istituzioni dei Paesi che si
affacciano sul Mediterraneo, o sull’adeguatezza o meno delle leggi che
regolamentano questa materia: si deve aprire il discorso a monte sulla
situazione degli Stati da cui questa gente fugge. E su questo punto bisogna che
ci sia un atteggiamento non equivoco; non che su una sostanziale connivenza poi
si facciano dei distinguo di carattere buonistico e reattivo.
Questo è certamente, come ha ricordato papa Francesco, il
momento del dolore; ma un dolore che deve dar luogo a una azione di
conoscenza della situazione e a una pressione sulle istituzioni internazionali
perché il problema venga affrontato secondo tutta la sua profondità di analisi e
soprattutto con la volontà di passare a una soluzione operativa.
Altrimenti gridando, indignandosi, con inutili silenzi o giornate di lutto
nazionale, si può rischiare di creare un’ideologia della reazione e
dell’indignazione che non dà luogo a nessuna operazione costruttiva.
Come dice l’enciclica di papa Francesco la fede vissuta come
esperienza di vita, come criterio di giudizio, come etica nuova e
soprattutto come impeto missionario nuovo pone nella società una scia di luce
che illumina la vita e le situazioni sociali. Allora è giusto chiedere, non solo
ai cattolici ma anzitutto ai cattolici, che la loro sia una presenza
intelligentemente motivata e operativamente adeguata; e una assunzione di
responsabilità senza cedere ad alcun ricatto, che farebbe diventare conniventi
con i responsabili di queste immani tragedie.
Non è l’indignazione a impedire che tali tragedie
avvengano. I problemi possono cominciare ad essere avviati a una
certa soluzione se tutti – singoli, popoli, gruppi, nazioni e soprattutto
istituzioni internazionali – si prenderanno la loro responsabilità.
Migrazioni, alle radici della colpa
“Basta!” e “Vergogna!” sono le due esclamazioni che riecheggiano nei media italiani dopo l’ennesima tragedia in mare di un barcone stracarico di migranti africani, affondato al largo dell’Isola dei Conigli, nei pressi di Lampedusa.
La tentazione di dare la colpa a se stessi è molto forte in tutti i media italiani. Si lanciano accuse (sacrosante) contro quei pescherecci che, pur consapevoli della tragedia in atto, non hanno prestato soccorso. Le accuse non sono confermate. Se lo fossero, i responsabili devono essere individuati e puniti, perché hanno violato la legge. Si dà la colpa alle autorità italiane e ad una politica sull’immigrazione che i progressisti definiscono non sufficientemente accogliente. Ma se non fosse stato per le autorità militari locali, per le unità della marina e della guardia costiera che sono intervenute, ora la conta dei morti sarebbe molto più lunga. Non sono stati né i pescherecci, né le unità navali italiane ad affondare il barcone dei disperati. Esso è colato a picco a causa di un incendio, appiccato a bordo nell’ingenuo e tragicamente maldestro tentativo di segnalare la presenza ai soccorsi. I primi responsabili di questa tragedia sono dunque gli scafisti, rei di aver lasciato affondare la loro barca con il “carico umano” a bordo. Uno di essi, a quanto risulta dai primi rapporti, sarebbe già stato individuato fra i naufraghi.
Il barcone è salpato dalla Libia. E domandiamoci, allora, che cosa è la Libia. Il Paese, da cui arriva il grosso del flusso dei migranti nel Mediterraneo, fino al 2011 era dominato dalla dittatura di Gheddafi. Il regime, che controllava ogni movimento di terra e di mare entro i suoi confini, chiudeva però un occhio sul traffico umano degli scafisti, che potevano impunemente salpare dai suoi porti. Gheddafi usò più volte “l’arma dei migranti” per ricattare l’Italia. Quegli uomini, usati come merce di scambio, non erano libici. Erano somali, eritrei, sudanesi, etiopi, fuggiti dalle guerre civili dei loro Paesi, sopravvissuti a un lungo e pericoloso viaggio nel deserto del Sahara. Quando si parla di migrazioni, si è soliti gridare al “razzismo”. Accusa sacrosanta: la Libia, sia quella di Gheddafi che quella caotica post-rivoluzionaria, è un Paese profondamente razzista che non ha mai firmato la Convenzione sui Rifugiati. I pogrom contro gli immigrati, lo sfruttamento del loro lavoro, la persecuzione poliziesca contro persone dalla pelle di un colore diverso da quella degli arabi, erano e sono tuttora all’ordine del giorno.
Almeno negli ultimi anni di Gheddafi, in seguito alla firma, con il governo Berlusconi, del Trattato di Bengasi (2008), si era cercato di dare una regola al caos mediterraneo. Nel 2009, il governo italiano iniziò a implementare quella che fu chiamata la “politica dei respingimenti”. Non si trattava di far morire in mare gli immigrati, ma di restituirli al Nord Africa, istituendo meccanismi di cooperazione con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo, a partire dalla Libia. Rispettando i principi del Trattato di Bengasi, l’Italia aveva una chance in più per chiedere il rispetto dei diritti umani in Libia. Inutile dire che questa politica è fallita ben presto. Non solo e non tanto per colpa dell’Italia, ma anche per un atteggiamento di totale condanna e ostruzionismo da parte delle istituzioni internazionali, a partire dall’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati, allora rappresentata, per l’Italia, da Laura Boldrini), pronte a lanciare una valanga di accuse contro Berlusconi e la Lega Nord, senza suggerire niente di meglio. Nel 2012, la Corte Europea ha ufficialmente condannato l’Italia, proprio per i respingimenti, a nome di un’Unione Europea che non ha una politica comune sull’immigrazione (in Spagna, a Malta e in Grecia, coi migranti, usano spesso la forza…).
Il colpo di grazia alla politica mediterranea è arrivato con la guerra civile libica del 2011 e il successivo intervento della Nato per rovesciare il regime di Gheddafi. Un’azione militare a cui l’Italia, per espressa volontà del presidente Napolitano, ha partecipato attivamente. Una volta ucciso Gheddafi, il governo Monti ha cercato, in modo molto riservato, di rinnovare la stessa politica assieme alla Libia post-Gheddafi. Il 3 aprile 2012 un nuovo accordo era stato firmato dal ministro Cancellieri con l’allora ministro dell’Interno libico Fawzi Al Taher Abdulali. Amnesty International tornò a condannare il governo italiano (c’era Monti, allora, non più Berlusconi), esprimendo preoccupazione soprattutto su un punto dell’accordo: l’istituzione di un centro a Kufra, «per garantire i servizi sanitari di primo soccorso a favore dell’immigrazione illegale». La cittadina del Sud libico è uno dei principali punti di approdo dei migranti e dei rifugiati provenienti da Egitto, Sudan e Ciad e diretti verso l’Europa. Secondo Amnesty, «Kufra non è mai stato un centro sanitario, né tantomeno un centro di accoglienza, ma un centro di detenzione durissimo e disumano. I cosiddetti centri di accoglienza di cui si sollecita il ripristino, chiedendo collaborazione alla Commissione europea hanno a loro volta funzionato come centri di detenzione, veri e propri luoghi di tortura. Ciò, nella situazione attuale, significa che l’Italia offre collaborazione a mettere a rischio la vita delle persone che si trovano in Libia».
Domandiamoci chi, a questo punto, trasforma i centri di accoglienza in luoghi di persecuzione: sono le milizie islamiche, che dominano il territorio libico dopo la caduta di Gheddafi. E chi ha gettato la Libia in questo caos, in cui i miliziani spadroneggiano? Anche il nostro governo, con un intervento armato “umanitario” seguito dal nulla, dal completo abbandono di un Paese nel suo difficile dopoguerra. E adesso la Libia è terra di nessuno, dove libici, migranti e persino i diplomatici (giusto ieri è stata colpita duramente l’ambasciata russa), rischiano la pelle tutti i giorni.
Ma la radice del problema non è neppure in Libia. È più profonda, nell’Africa sub-sahariana. I naufraghi di Lampedusa venivano principalmente da Eritrea e Somalia. Fuggendo, non cercavano di vivere meglio in Europa. Cercavano di sopravvivere. Perché rimanere in Eritrea e Somalia, per molti di loro, significa: morire. L’Eritrea è una dittatura retta, da 22 anni, da Isaias Afewerki. Secondo l’analisi dell’autorevole Freedom House, è uno dei 17 Paesi meno liberi del mondo. Nei suoi confini ogni libertà (politica, religiosa, civile e di espressione) viene sistematicamente repressa. Tutti i cittadini sono sottoposti a un duro servizio militare obbligatorio, che è la prima causa della fuga di massa dei giovani. Quanto alla Somalia, il suo governo controlla solo la capitale, Mogadiscio, e poco altro. Il resto è nelle mani delle milizie islamiche Shebaab (autrici del recente massacro di Nairobi) e di altri movimenti armati. Ed è così dal 1991: 22 anni di guerra civile. I responsabili di questa tragedia delle migrazioni si chiamano dunque Afewerki, milizie Shebaab e un governo somalo, provvisorio, traballante e più volte accusato di corruzione.
Una responsabilità indiretta ricade anche sull’Italia, con politiche di cooperazione e sviluppo che ottengono risultati controproducenti. Per quanto riguarda l’Eritrea, lo scorso decreto di rifinanziamento delle missioni all’estero includeva anche la cessione di materiale ferroviario al regime di Afewerki. È solo un esempio, ma è significativo: spendiamo soldi per fornire infrastrutture a regimi repressivi che non puntano affatto allo sviluppo dei loro popoli. E ci scaricano addosso una valanga di fuggitivi. Per quanto riguarda la Somalia, il quadro è ancora più “grottesco”. I Paesi donatori, fra cui l’Italia, hanno regalato al governo provvisorio circa 3 miliardi e mezzo di euro in aiuti umanitari, dal 2008 ad oggi. Per ottenere cosa? La guerra civile continua, l’ordine non è affatto ristabilito, gli Shebaab appaiono più forti che mai. Dove siano finiti quei 3 miliardi e mezzo, possiamo solo immaginarlo.
Eritrea e Somalia sono solo gli ultimi esempi in ordine di tempo. Tutta l’Africa e un Medio Oriente destabilizzato dalle Primavere Arabe (appoggiate dai nostri governi) sono immensi serbatoi di profughi, nonostante le nostre politiche di cooperazione e sviluppo. O forse proprio a causa di esse. E allora, chi si deve vergognare?
Le stragi di profughi di cui non si parla
Dopo aver visto in un precedente articolo la situazione dei paesi da cui scappano coloro che poi arrivano dopo un lungo viaggio sulle coste italiane, in questa seconda tappa affrontiamo il viaggio interno all'Africa e l'attraversamento del Golfo di Aden, un'avventura ben più pericolosa dell'attraversamento del Mediterraneo.
Gli sbarchi
sulle coste italiane sono una tappa di uno dei percorsi migratori lungo
i quali milioni di africani si spostano ogni anno. Quasi sempre partono dalle
campagne, dove ancora vive la maggioranza della popolazione del continente, e si
dirigono verso le città. Secondo UN-Habitat, l’agenzia delle Nazioni Unite per
gli insediamenti umani, quello africano è il processo di urbanizzazione più
rapido del mondo: di questo passo, nel 2050 il 60% degli africani vivranno in
città ed entro il 2030 in Africa sub-sahariana la popolazione urbana sarà
raddoppiata. Intanto, però, i settori economici moderni crescono a mala pena, il
lavoro manca e perciò, stabilitisi nei centri urbani, molti emigranti vivono di
espedienti e di attività del settore informale ammassandosi negli slums.
L’Africa detiene infatti anche il non invidiabile primato
di essere il continente con il maggior numero di persone residenti in slums: più
di 200 milioni, pari a circa un quinto della popolazione totale. Nasce così il
progetto di emigrare in altri paesi e in altri continenti in cerca di lavoro o
comunque di una vita migliore. È il fenomeno dei profughi economici, così
chiamati per distinguerli dagli emigranti in fuga dai regimi repressivi e dai
conflitti. Gran parte di questi ultimi o non riescono a superare i confini
nazionali – sono gli sfollati – o concludono il loro viaggio nei paesi vicini,
in qualche campo profughi. Quelli allestiti nell’Est della Repubblica
Democratica del Congo nel 1994, per accogliere gli Hutu in fuga dal Rwanda dopo
il genocidio dei Tutsi, ne ospitarono più di due milioni. Il campo di Dadaab,
nel nord del Kenya, attualmente il più grande del mondo, assiste circa mezzo
milione di profughi quasi tutti somali.
Uno dei percorsi migratori più seguiti è quello che porta dal Corno d’Africa (Somalia, Etiopia, Gibuti ed Eritrea) allo Yemen. Per raggiungere questo paese, gli emigranti affrontano la pericolosa traversata del golfo di Aden trasportati da scafisti che, per evitare la guardia costiera, li costringono a gettarsi in acqua spesso a notevole distanza dalla terra ferma: per ciò molti muoiono annegati o divorati dagli squali di cui quelle acque sono infestate. Malgrado i rischi elevati, da sei anni il numero di arrivi non fa che aumentare. Nei primi sei mesi del 2013 sono entrati nel paese più di 46.000 africani. Nel 2012 è stata raggiunta la cifra record di 107.000 ingressi. Nel 2011 ne erano approdati 103.000. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati stima che dal 2006 abbiano attraversato il Golfo di Aden alla volta dello Yemen quasi mezzo milione di emigranti, metà dei quali somali a cui è automaticamente riconosciuto lo status di rifugiati. Di recente però è andato crescendo il numero degli emigranti dall’Etiopia che quest’anno, per la prima volta, hanno superato i somali costituendo circa l’84% del totale.
Una volta sbarcati, i nuovi arrivati, a meno che non abbiano qualcuno ad attenderli, vengono confinati in campi dove aspettano anche per mesi che qualcuno si occupi di loro. Altri, sempre più di frequente, vengono rapiti a scopo di ricatto o di estorsione. Altri ancora finiscono nelle mani di trafficanti che li costringono a lavorare in condizioni di schiavitù. Lo scorso aprile nel Nord del paese le autorità yemenite ne hanno liberati 1.620, inclusi 62 bambini. Affidati a Medici Senza Frontiere, MSF, su quasi tutti sono stati trovati segni di torture, abusi fisici e violenze sessuali. Ad alcuni erano state addirittura strappate le unghie o tagliata la lingua. Molti, a causa delle pessime condizioni abitative e di lavoro, sono risultati affetti da polmonite, malaria, dengue e altre gravi malattie.
Nei centri di transito, in cui sostano gli africani che dallo Yemen intendono emigrare in Arabia Saudita, la situazione non è molto migliore: «Siamo estremamente preoccupati per il futuro di migliaia di migranti bloccati nello Yemen e, in particolare, a Haradh, con un’assistenza molto limitata» spiega Tarek Daher, capo missione di MSF in Yemen. Quelli che per qualche motivo non riescono a varcare la frontiera finiscono prima o poi per ritrovarsi senza mezzi di sussistenza: «Sono esausti, dopo i tanti tentativi di attraversare il confine, e senza risorse; la maggior parte di loro chiede l’elemosina per le strade di Haradh. Cercano di sopravvivere, e non dispongono di ripari decenti, servizi igienico-sanitari o pasti regolari».
La sorte più disperata tocca a quelli che vengono rimpatriati. Per gli eritrei equivale quasi a una condanna a morte.
Sinai, l'inferno dei fuggitivi africani
L’ingresso in Europa sbarcando sulle coste italiane è il punto di arrivo di una delle tre principali rotte percorse dagli emigranti africani: quella che parte dall’Africa orientale e raggiunge la Libia risalendo il Sudan. Dall’Africa occidentale, invece, di solito gli emigranti confluiscono in Mauritania e di lì si dirigono in Marocco per imbarcarsi alla volta della Spagna o dirigersi anch’essi in Libia. Sia l’una che l’altra rotta sono estenuanti, costose e non esenti da rischi: non solo di naufragare su imbarcazioni stracariche, mal ridotte, alla deriva quando il carburante troppo “tagliato” usato dagli scafisti non riesce ad alimentare il motore, ma, prima ancora, di non sopravvivere alla traversata del Sahara o per gli stenti o per le violenze e gli abusi subiti dai trafficanti a cui gli emigranti si affidano. Inoltre le due rotte attraversano regioni infestate da gruppi armati e incrociano quelle dei mercanti di armi e di droga (proveniente dall’America Latina e destinata all’Europa),
Ancora più pericolosa, però, è la terza rotta, anche questa usata in prevalenza dagli africani originari dell’Africa orientale e in particolare dal Corno d’Africa, che attraversa l’Egitto, il Sudan e infine la penisola del Sinai con destinazione Israele: dal 2011, dopo la caduta di Gheddafi, scelta da un numero crescente di persone in alternativa a quella che porta in Libia a causa dell’instabilità di questo paese.
È nel Sinai
che li aspetta l’inferno. Lì esiste un vero e proprio traffico di merce
umana avviato dai Rashaida, una tribù sudanese. I Rashaida avevano iniziato,
come tutti i trafficanti, chiedendo denaro per organizzare il viaggio verso
Israele: nel 2008-2009 il costo andava dai 1.000 ai 2.000 dollari. Ben presto
però hanno intravisto un modo più redditizio di approfittare degli emigranti:
sequestrarli e chiederne il riscatto oppure rivenderli ad altre tribù, egiziane
queste ultime, che a loro volta ne trattano il riscatto o vendono ad altri la
“merce” che, di passaggio in passaggio, acquista sempre più valore fino a
raggiungere le decine di migliaia di dollari.
Dapprima gli emigranti venivano sequestrati durante il viaggio.
Poi i Rashaida hanno incominciato a rapirli nel campo profughi di Shegarab, in
Sudan, vicino a Kassala, allestito dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite
per i rifugiati, che ospita 86.000 profughi per lo più eritrei. Si appostano
appena fuori dal campo a bordo di auto senza targa e agiscono praticamente
indisturbati. Le richieste di riscatto vengono fatte via cellulare: «quando
chiamano per chiedere i soldi del riscatto – racconta la dottoressa Alganesh
Fessaha, eritrea, che lavora per l’organizzazione non governativa Gandhi e da
anni si occupa dei propri connazionali in difficoltà – i prigionieri vengono
picchiati, viene loro versata addosso dell’acqua, poi viene attaccata la
corrente così che le scosse elettriche li facciano urlare di più». Oppure, per
farli gridare, li bruciano con plastica fusa, benzina e acidi. Sentendone le
urla e le richieste disperate di aiuto, i parenti raccolgono tutto il denaro che
riescono a racimolare indebitandosi, se necessario, o chiedendo aiuto ad altre
famiglie. Il pagamento avviene tramite i circuiti internazionali del money
transfer. Terminata la transazione, il prigioniero viene quasi sempre
rilasciato, se nel frattempo non è deceduto per malattia o in seguito alle
violenze patite. L’ultimo rischio per il poveretto, quando viene liberato a
poche centinaia di metri dalla frontiera israeliana, è di essere intercettato
dalla polizia egiziana e ucciso prima di poter spiegare chi è e come mai si
trova lì.
Il destino di chi non ha nessuno che sia in grado di riscattarlo è terribile. Finisce i suoi giorni come schiavo, costretto a lavorare in condizioni inumane nei campi e altrove. Altrimenti viene ucciso per espiantarne gli organi e venderli al mercato nero al Cairo. Neanche i bambini vengono risparmiati. Per loro, e per le donne, alle sevizie, si aggiunge l’incubo degli stupri.
In base alle testimonianze dei sopravvissuti e alle rilevazioni delle associazioni umanitarie che li assistono, si ritiene che dal 2009 a oggi siano circa 15.000 gli emigranti, in prevalenza somali ed eritrei, rapiti, 7.000 quelli vittime di torture e abusi e 4.000 i morti.
Con i riscatti, che in certi casi arrivano a 30.000, 40.000 e anche 60.000 dollari, e con la vendita di organi le bande di trafficanti acquistano tra l’altro armi di provenienza libica ed eritrea, in parte destinate a Gaza e usate contro Israele e contro la polizia egiziana. Lo spietato regime eritreo approfitta dei propri cittadini e infierisce su di loro anche quando sembra che siano riusciti a liberarsi dal suo giogo.
APPROFONDIMENTO
Lampedusa, il silenzio di Eritrea e Somalia
Il loro viaggio dura mesi se non anni e inizia a molte migliaia di chilometri dalle coste italiane. Sono i somali e gli eritrei che fuggono rispettivamente da una delle più lunghe guerre e dalla peggiore delle dittature del continente africano. Ne era carico il battello naufragato nel Mediterraneo nella notte tra il 5 e il 6 aprile del 2011. Trasportava 300 emigranti, soltanto 54 si sono salvati. Due anni e mezzo dopo, il dramma si è ripetuto: 500 somali ed eritrei su un battello che prende fuoco e, per ora, solo 155 superstiti.