9 LUGLIO 2011

È NATO IL SUD SUDAN,

193° STATO AD ADERIRE ALL'ONU

(a cura di Claudio Prandini)

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Ratzinger benedice il nuovo Sudan

Fonte web

L'incerto destino del Sud Sudan, che sabato ha proclamato l'indipendenza dal Sudan, simboleggia bene il dramma dell'intera Africa:

sottosuolo ricco di petrolio e popolazione alla fame, cieche lotte tribali all'interno e occhiute pressioni dei più diversi affarismi dall'esterno. Una festa di indipendenza che è stata come la celebrazione di una disperata speranza per gli otto-dieci milioni di sud-sudanesi, dopo 22 anni di guerra civile che ha prodotto - secondo le stime dell'Onu - due milioni di morti e quattro milioni di sfollati. Il 90% della popolazione è sotto la soglia di povertà e dunque abbiamo appena assistito alla nascita di uno degli Stati più poveri del mondo, il cui sviluppo dipende dallo sfruttamento dei giacimenti petroliferi, sfruttamento che è a sua volta una scommessa: i due terzi dei giacimenti è nel Sud ma gli oleodotti sono nel Nord. Incerta è anche la linea di confine tra i due stati e come essa finirà con il ritagliare e assegnare la risorsa dell'oro nero. Molto dipenderà dalla solidarietà internazionale e dalle relazioni con il Nord, se ci sarà collaborazione o conflitto. Nel Sud buona parte degli abitanti - almeno la metà - è cristiana, mentre il Nord è islamico.

La lunga guerra civile tra i due Sudan - che ha portato al referendum del 9 gennaio, con il quale il 98% degli elettori del Sud ha scelto l'indipendenza - ha avuto implicazioni anche religiose, oltre a quelle - dominanti - di tipo economico, culturale e tribale. Incerto destino si diceva, scommessa e disperata speranza. Una situazione che è a un tempo di festa e di dramma, bene riassunta nelle parole augurali di Papa Benedetto comunicate all'opinione pubblica alla vigilia della proclamazione dell'indipendenza dal portavoce Federico Lombardi: «La Santa Sede invita la Comunità internazionale a sostenere il Sudan e il nuovo Stato indipendente perché in un dialogo franco, pacifico e costruttivo trovino soluzioni giuste ed eque alle questioni ancora irrisolte ed augura a quelle popolazioni un cammino di pace, di libertà e di sviluppo». Il Papa dunque invita a dare sostegno sia al Sudan sia al Sud Sudan perché insieme trovino soluzioni concordate alle tante pendenze che li vedono nemici: suona come un paradosso, eppure è l'unica via percorribile se si vuole evitare che l'indipendenza del Sud segni non il tempo della pacificazione ma il passaggio da un conflitto interno a uno internazionale.

Paradosso nel paradosso: alla proclamazione dell'indipendenza, nella nuova capitale Juba, era presente sabato accanto al presidente del Sud Sudan Salva Kiir Mayardit - cattolico, storico promotore della "secessione"- il presidente del Sudan Omar al-Bashir (musulmano, massimo responsabile della condizione discriminata delle popolazioni del Sud lungo gli ultimi due decenni) sul cui capo pende un mandato di arresto della Corte penale internazionale dell'Aja per crimini di guerra nel Darfur (2009). Così vanno le cose in Africa e poco riescono a rimediare gli organismi internazionali: alla cerimonia era anche presente il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, costretto a fare buon viso alla presenza di al- Bashir. C'erano l'ambasciatrice americana all'Onu Susan Rice e l'ex segretario di Stato americano Colin Powell, che per conto del presidente Bush si era adoperato per dare seguito alle attese del mondo protestante statunitense che a suo tempo si era mobilitato in difesa del Sud "cristiano". Per quello che qui più ci interessa, c'era infine una delegazione vaticana guidata dal cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi.

Per comprendere il discreto e - si direbbe - accorato sostegno della Santa Sede al nuovo Stato occorre rievocare la visita a Khartoum compiuta da Giovanni Paolo il 10 febbraio 1993, che apparve agli osservatori come una delle "missioni" più audaci di quel Papa: nel Paese era in vigore da due anni la legge islamica, la Shari'a ed era in pieno svolgimento - come già detto - la guerra civile tra il Nord arabo e musulmano e il Sud nero, animista e cristiano. Quella guerra appariva al Papa viaggiatore come la versione violenta del difficile confronto tra Islam e Cristianesimo che attraversa da un secolo l'intero continente africano e che si rivela drammatico lungo la fascia subsahariana, nelle regioni appunto dove si mescolano e si fronteggiano popolazioni arabe e nere. Il Sudan fu comunque l'unico Paese dominato dalla legge del Corano che Giovanni Paolo riuscì a visitare lungo l'intero Pontificato. Già dall'aeroporto - dove fu ricevuto dal presidente Omar Hassan Ahmed al Bashir: lo stesso che sabato era presente a Juba - il Papa viaggiatore invitava le autorità ad «ascoltare la voce dei nostri fratelli oppressi», ma anche le avvertiva che egli non avrebbe taciuto, perché «quando la gente è debole, povera e indifesa, devo levare la mia voce in loro favore».

Nelle parole di Giovanni Paolo si poteva intravedere qualcosa degli eventi recenti: «I sudanesi, liberi nelle loro scelte, possano trovare la formula costituzionale che permetta loro di superare le contraddizioni e le lotte nel rispetto della specificità di ogni comunità». Egli non potè andare nel Sud, ma alle comunità cristiane «el Sud era rivolto innanzitutto il suo pensiero: "Io spero con tutto il cuore che la mia voce vi raggiunga, fratelli e sorelle del Sud». Per comprendere le vicende del Sud Sudan noi italiani disponiamo di un interprete eccezionale, che è il missionario bresciano Cesare Mazzolari, da 30 anni laggiù e oggi vescovo di Rumbek, alla cui figura è dedicato il volume di Lorenzo Fazzini, Un Vangelo per l'Africa (Lindau editore), che arriva ora nelle librerie. Questo vescovo intraprendente ha anche un sito internet - cesarsudan. org - dove ci si può aggiornare sulla sua lettura degli avvenimenti. Questo ha scritto Mazzolari in occasione dell'indipendenza: «Siamo grati per ciò che le nazioni faranno per noi, ma ciò che conta veramente per la nascita di un nuovo Stato è sapere che noi sud-sudanesi daremo il massimo per la nostra nazione».

 

 

 

 

 

La nascita del Sud Sudan e le

ripercussioni nel mondo arabo

Fonte web

Pochi giorni fa il neonato Sud Sudan è divenuto il 193° Stato ad aderire alle Nazioni Unite. Lo scorso 9 luglio una festosa celebrazione aveva sancito l’indipendenza del nuovo paese, con capitale Juba, dal Sudan del presidente Omar al-Bashir.

La celebrazione è stata segnata dall’evidente senso di liberazione e di sollievo della popolazione sudanese del Sud per essersi messa definitivamente alle spalle l’oppressione del governo di Khartoum.

Tuttavia, archiviati i festeggiamenti, entrambi i nuovi paesi – il giovanissimo Sud Sudan e la sopravvissuta Repubblica del Sudan, emersi da quello che era fino a pochi giorni fa il più esteso Stato africano – si trovano ad affrontare problemi enormi e a dover fare i conti con il contrastato rapporto che tuttora li lega.

Nel frattempo, la notizia dell’avvenuta secessione, sebbene ormai da lungo tempo attesa, ha suscitato reazioni preoccupate in molte parti del continente africano e del mondo arabo, dove vi sono paesi che potenzialmente potrebbero andare incontro a un destino non troppo dissimile.

DUE NUOVI STATI CON VECCHI PROBLEMI

Come è stato osservato da diversi analisti, i due paesi che emergono dal vecchio Sudan purtroppo sono afflitti in gran parte dagli stessi problemi che attanagliavano lo Stato da cui hanno avuto origine.

Lo Stato settentrionale non acquista un carattere molto più omogeneo per il semplice fatto di aver perso il Sud del paese.

Il regime di Khartoum ha storicamente puntato sullo sviluppo della capitale e del triangolo Dongola–Kordofan–Sennar, il nucleo tradizionale del Sudan arabo-islamico – noto come il “triangolo di Hamdi” dal nome dell’ex ministro delle finanze Abdel Rahim Hamdi che lo aveva esplicitamente teorizzato – trascurando le altre parti del paese.

Khartoum ha sempre ritenuto che lo sviluppo di quest’area fosse essenziale per la sopravvivenza del regime, ma ciò ha lasciato anche nel Nord molte regioni prive di infrastrutture e nella morsa di una spaventosa povertà. In conseguenza di ciò, ed a causa della complessa miscela tribale ed etnica che tuttora lo caratterizza, lo Stato del Nord deve far fronte a movimenti di ribellione e a tendenze secessioniste in Darfur, nella parte orientale del paese ed anche nell’estrema parte settentrionale.

Vi sono poi le regioni turbolente e parzialmente contese di Abyei, del Sud Kordofan e del Nilo Azzurro, che sono disseminate lungo lo sterminato confine che separa il Nord dal Sud Sudan, e rappresentano altrettanti focolai di potenziale conflitto fra i due Stati sudanesi.

Con la secessione, la Repubblica del Sudan perde un quarto del suo territorio, circa otto milioni dei suoi cittadini e oltre il 70% dei suoi introiti petroliferi. Il paese continua ad essere parzialmente isolato a livello internazionale, a causa della crisi del Darfur e del mandato di arresto spiccato nel 2009 dalla Corte Penale Internazionale nei confronti del presidente Bashir per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Ma il Sud Sudan non si trova in condizioni migliori rispetto al Nord. Come il Nord, anch’esso è un paese disomogeneo dal punto di vista religioso, culturale e tribale. La secessione non ha determinato alcuna semplificazione da questo punto di vista: il Sud, di religione animista e cristiana (a causa di un’azione missionaria relativamente recente), conserva una consistente componente musulmana, ed è composito da un punto di vista etnico e tribale. Il neonato Stato si trova dunque di fronte all’enorme sfida di forgiare una vera identità nazionale e di costruire un apparato statale attualmente inesistente.

Il Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese (SPLM), che attualmente domina la neonata amministrazione, non ha raggiunto alcun accordo con le altre milizie armate del Sud, e ciò lascia temere nuove possibili esplosioni di violenza, mentre secondo le Nazioni Unite già 2.500 persone sono rimaste uccise quest’anno.

L’irrisolta questione delle milizie a sua volta contribuisce a rinfocolare le tensioni fra Juba e Khartoum. L’SPLM accusa il governo del Nord di appoggiare le milizie “ribelli” nel Sud, mentre quest’ultimo a sua volta accusa Juba di sostenere i movimenti secessionisti in Darfur e nelle regioni lungo il confine tra il Nord e il Sud Sudan.

Il destino dei due paesi sembra ancora inestricabilmente legato, ma i rapporti bilaterali sembrano destinati a deteriorarsi inevitabilmente – a meno di un’inversione di rotta che tuttavia non si è mai verificata nei sei anni di transizione tra l’accordo di pace del 2005 e il referendum sulla secessione del gennaio 2011.

Se è vero che le risorse petrolifere sono localizzate principalmente al Sud, gli oleodotti per esportare il petrolio passano tutti attraverso il Nord, raggiungendo le acque del Mar Rosso a Port Sudan. Inoltre, circa 10 milioni di cittadini sono direttamente colpiti dalla secessione. Se 1,5 – 2 milioni di sudanesi del Sud vivono stabilmente al Nord (e un numero inferiore di sudanesi del Nord vive costantemente al Sud), almeno 6 milioni di nomadi del Nord sono soliti attraversare periodicamente quello che è ora un confine internazionale in cerca di pascoli e acqua.

Malgrado questi stretti legami, la reciproca sfiducia tra Khartoum e Juba potrebbe trasformare il nuovo confine in una barriera, invece che in una zona di scambio e di comunicazione fra i due Stati, con conseguenze estremamente gravi per entrambi.

Il governo del Nord ha recentemente imposto nuove restrizioni sul trasporto di merci verso il Sud, che hanno causato la carenza di svariati prodotti nei mercati meridionali. Inoltre, attraversare le turbolente regioni di confine continua ad essere estremamente pericoloso.

Ciò probabilmente contribuirà a spingere Juba ad allacciare rapporti economici sempre più saldi con i vicini paesi dell’Africa orientale, cosa che a sua volta concorrerà a ridisegnare l’assetto geopolitico della regione.

IL SUD SUDAN E LE INCOGNITE DELLO SVILUPPO

Il Sud Sudan nasce come uno degli Stati più poveri del mondo. Se il PIL procapite del vecchio Stato del Sudan era pari a circa 1.300 dollari, gli esperti ritengono che quello del nuovo Stato sarà ancora inferiore, e raggiungerà livelli infimi al di fuori della capitale Juba.

Sebbene il paese disponga di abbondanti risorse naturali, la povertà è dilagante, così come la carenza di istruzione, e l’assenza di infrastrutture è cronica. Con tutta probabilità, dunque, il nuovo paese si troverà a dipendere economicamente dai paesi vicini relativamente più ricchi – in primo luogo Uganda, Kenya ed Etiopia.

Data la quasi assenza di una classe imprenditoriale e di una classe media, e vista la corruzione imperante nel paese, vi è il forte rischio che le risorse del Sud Sudan vengano depredate da ristrette élite e da paesi stranieri.

Al momento Juba è la città con il tasso di crescita più alto dell’Africa, con una popolazione che è esplosa negli ultimi sei anni, passando da poco più di 100.000 persone a più di un milione. Ciò sta attirando investimenti e imprenditori dai paesi vicini, ma la crescita economica che ne deriverà rischia di essere terribilmente ineguale, andando a beneficio di pochi e aggravando gli squilibri nel paese.

Sebbene il Sud Sudan possieda istituti bancari propri, le principali banche attive nel paese sono tuttora straniere – in particolari keniote ed etiopi.

Organizzazioni umanitarie internazionali hanno denunciato che “investitori stranieri” si stanno impadronendo di ampie porzioni del territorio coltivabile del paese. Compagnie cinesi, dei paesi arabi del Golfo, e americane hanno acquisito il controllo di vasti appezzamenti di terreno, secondo una tendenza che non riguarda solo i due Stati sudanesi, ma è comune a buona parte dell’Africa.

Paesi come l’Arabia Saudita e la Cina stanno acquistando o affittando terreni agricoli in altre parti del mondo per garantirsi il proprio fabbisogno alimentare. Ma fra i paesi che “offrono” le proprie risorse agricole ve ne sono anche alcuni fra i più affamati del mondo, come l’Etiopia ed appunto il Nord e il Sud Sudan.

Fra l’altro, proprio in questo momento il Corno d’Africa è colpito da una catastrofe umanitaria che rischia di assumere proporzioni gigantesche, a causa della siccità che sta interessando soprattutto la Somalia ed i cui effetti rischiano di colpire oltre 10 milioni di persone.

Secondo i dati forniti dalla Norwegian People’s Aid, se si sommano ai terreni agricoli quelli utilizzati per la produzione di biocarburanti, per il turismo e altri scopi, la quantità di territorio controllata da “grandi investitori” ammonterebbe a circa il 9% dell’estensione totale del Sud Sudan.

Ad essere vittima di questo meccanismo sono solitamente le comunità rurali locali, che spesso non vengono consultate in merito agli investimenti fatti, e per le quali questi ultimi si traducono in una sottrazione di risorse invece che in opportunità di sviluppo.

UN NUOVO ASSETTO GEOPOLITICO REGIONALE A SCAPITO DEL MONDO ARABO?

A legare ulteriormente il Sud Sudan ai paesi dell’Africa orientale potrebbero essere anche nuovi progetti energetici.

Il Sud Sudan è un paese privo di sbocchi al mare e, se non vuole continuare a fare affidamento su Khartoum per esportare il proprio petrolio, deve necessariamente rivolgersi ai paesi vicini.

Attualmente vi è un progetto che prevede la costruzione di un oleodotto di 1.400 km che porterebbe il petrolio del Sud Sudan ai porti del Kenya. Dal canto suo l’Etiopia ha proposto la costruzione di una pipeline attraverso il proprio territorio per raggiungere Gibuti.

Esiste poi un progetto di integrazione regionale che coinvolgerebbe i due Stati sudanesi e l’Etiopia, e sarebbe basato sullo scambio tra “oro nero” e “oro blu”. L’Etiopia, che ospita le sorgenti del Nilo Azzurro, sta portando avanti la costruzione di una serie di dighe per la produzione di energia idroelettrica (in realtà con conseguenze ambientali molto gravi), e si propone come esportatore regionale di elettricità. In cambio il Sud Sudan fornirebbe il proprio petrolio ad Addis Abeba, e Khartoum metterebbe a disposizione le proprie risorse agricole.

Un simile progetto si scontra però con le storiche diffidenze tra la Repubblica del Sudan e l’Etiopia, ed anche con i difficili rapporti fra Nord e Sud Sudan.

Ma la parziale implementazione di questo progetto, combinata con gli altri sopra citati, avrebbe l’effetto di portare il Sud Sudan nell’area di influenza dei paesi dell’Africa orientale – ed in particolare dell’emergente potenza regionale etiope – allontanandolo da Khartoum.

Ciò non solo avrebbe l’effetto di lasciare il Nord Sudan isolato nel contesto regionale, ma anche di intaccare seriamente l’architettura di sicurezza regionale dell’Egitto.

Il Cairo ha sempre considerato il Sudan come il proprio “giardino di casa”, ed ha sempre gestito con molta attenzione i propri rapporti con i paesi del bacino del Nilo per garantire la propria sicurezza idrica (l’Egitto ricava dal Nilo il 90% del proprio fabbisogno di acqua), e per estensione la propria sicurezza nazionale.

Lo scorso anno sono emerse tensioni fra Egitto e Sudan da un lato, e i paesi del corso superiore del Nilo (Etiopia, Uganda, Tanzania, Kenya, Congo, Ruanda e Burundi) sulla gestione delle quote idriche del fiume. La volontà di paesi sempre più popolosi, come l’Etiopia e l’Uganda, di sfruttare il fiume per progetti idroelettrici e agricoli ha portato, nel maggio dello scorso anno, alla firma di un’intesa tra i paesi dell’alto corso del Nilo, che ha colto di sorpresa i responsabili egiziani e sudanesi.

Ora la secessione del Sudan e il possibile allineamento del Sud Sudan con i paesi del corso superiore del Nilo potrebbe compromettere ulteriormente la posizione del Cairo e di Khartoum. La distribuzione delle quote idriche del Nilo tra i paesi che vi si affacciano rischia di essere una delle questioni più scottanti del secolo appena iniziato.

 

La possibilità che Juba stringa ulteriormente i rapporti con Addis Abeba rappresenterebbe un ulteriore smacco per l’Egitto e il Nord Sudan – i due paesi arabi della regione. L’Etiopia, paese a maggioranza cristiana (sebbene abbia al suo interno una consistente minoranza musulmana) alleato degli Stati Uniti e di Israele, ha sostenuto il movimento secessionista del Sud Sudan. Addis Abeba ha inoltre una rivalità storica con l’Egitto.

Il Cairo ed altri paesi arabi hanno in passato sostenuto il Fronte di Liberazione Eritreo, e lo scontro fra etiopi ed eritrei è stato definito un conflitto arabo-israeliano per procura.

Più di recente, la contesa sulle acque del Nilo è stata ulteriormente inasprita dalle accuse rivolte dal premier etiope Meles Zenawi all’Egitto secondo cui il Cairo avrebbe sostenuto i ribelli antigovernativi in Etiopia.

Infine, attualmente truppe etiopi addestrano le forze del futuro esercito del Sud Sudan.

Anche alla luce di ciò, desta perplessità la decisione dell’ONU di schierare truppe etiopi nella regione di Abyei contesa fra Khartoum e Juba. Alcuni addirittura sostengono che gli etiopi agirebbero da “poliziotto” degli USA in Sudan, così come nel 2006 Addis Abeba era intervenuta in Somalia (altro paese arabo-islamico) con il sostegno di Washington.

La secessione del Sud Sudan è vista dunque come una mutilazione non solo da Khartoum, ma anche dall’Egitto che vede compromessa la propria posizione regionale, e dal mondo arabo nel suo complesso.

“TEORIE DELLA COSPIRAZIONE” E RESPONSABILITA’ DEI REGIMI ARABI

Nei paesi arabi abbondano le “teorie della cospirazione” che considerano il processo culminato con l’indipendenza del Sud Sudan come un “complotto israelo-americano”. Secondo diversi analisti arabi, Israele cominciò a pensare seriamente all’utilità di indebolire il Sudan dopo la guerra del 1967, durante la quale Khartoum offrì sostegno logistico all’aeronautica ed all’esercito egiziani, dimostrando così di rappresentare una strategica retrovia per l’Egitto. E’ a partire da quel momento che Tel Aviv avrebbe deciso di appoggiare il movimento separatista sudanese del Sud.

Molti nel mondo arabo citano le parole di Avi Dichter, ex direttore dello Shin Bet, il servizio della sicurezza interna israeliana, il quale nel 2008 avrebbe affermato che indebolire il Sudan era necessario per rafforzare la sicurezza nazionale israeliana, e che Israele era intervenuta a sostegno delle forze separatiste sia nel Sud del paese che in Darfur.

E’ stata in effetti una tradizionale politica israeliana quella di allearsi con i paesi e gli attori “non arabi” della regione per indebolire e contenere il “nemico arabo”. Sulla base di questa strategia, Tel Aviv ha cercato l’amicizia dello Shah iraniano prima della rivoluzione islamica del 1979, così come quella della “laica” Turchia.

Allo stesso modo, in Africa Israele ha cercato l’alleanza di paesi non arabi come l’Etiopia, il Kenya e la Nigeria. Risale alla fine del 2009 l’importante tour africano del ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman, che nell’arco di nove giorni ha visitato diversi paesi africani per avviare progetti di sviluppo e di cooperazione militare.

E’ altrettanto vero che l’interesse americano per la questione del Sud Sudan risale almeno ai primi anni ‘90. Progressivamente un insieme di gruppi evangelici, afroamericani, ebraici e laici negli USA si coalizzò a sostegno di tale causa. All’era Clinton risale l’invio di un surplus di 20 milioni di dollari in aiuti militari a paesi vicini come l’Etiopia e l’Uganda perché “rovesciassero” i successi militari del governo sudanese di Khartoum.

L’appoggio americano all’autodeterminazione del Sud tuttavia acquisì slancio sotto la presidenza di George W. Bush. Secondo statistiche dell’archivio dell’U.S. Official Development Assistance, il Sudan è stato il terzo beneficiario di aiuti americani dopo l’Iraq e l’Afghanistan a partire dal 2005 (anno della firma dell’accordo di pace tra Nord e Sud, che prevedeva il referendum sull’indipendenza del Sud a distanza di sei anni).

Attualmente l’amministrazione americana spende circa 40 milioni di dollari l’anno per addestrare l’Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese (SPLA), in particolare subappaltando il compito a contractor privati, e pagando i salari agli addestratori etiopi.

Va tuttavia rilevato che – al di là delle “ingerenze straniere”, e pur senza dimenticare che la radice delle tensioni e delle incomprensioni fra il Nord e il Sud del Sudan va ricercata nell’era coloniale, allorché i dominatori inglesi amministrarono i loro possedimenti coloniali, e ne tracciarono i confini, senza tener conto delle peculiarità etniche, culturali e religiose delle popolazioni assoggettate, ed anzi sfruttando tali differenze per favorire il proprio dominio – la parte maggiore di responsabilità nel lungo processo che ha portato alla secessione del Sud Sudan va probabilmente attribuita al governo di Khartoum.

Quest’ultimo ha imposto un regime oppressivo e discriminatorio nei confronti delle popolazioni del Sud, e in generale delle popolazioni sudanesi non arabe (macchiandosi fra l’altro di gravissimi crimini contro di esse), e si è dimostrato incapace di gestire l’enorme complessità culturale, religiosa e tribale del paese.

Il fallimento del regime di Khartoum è a sua volta lo specchio del fallimento dell’ordine statale arabo, che ha dimostrato di non essere in grado di garantire i diritti delle minoranze non arabe, ed anzi ha sfruttato le complessità etniche e religiose presenti all’interno delle società arabe (complessità che in realtà storicamente ne hanno costituito la ricchezza) per frammentare i movimenti di opposizione e garantire la permanenza al potere di regimi elitari e dispotici.

Conseguenza di questo fallimento sono da un lato le rivolte della cosiddetta “Primavera Araba” a cui abbiamo assistito in questi mesi, ma dall’altro anche la permeabilità degli Stati arabi alle ingerenze straniere – siano esse occidentali, iraniane, inter-arabe o quant’altro – e la fragilità e la scarsa coesione di società fiaccate da decenni di repressione e tirannia.

La secessione del Sud Sudan rappresenta un campanello d’allarme, sia per un continente africano i cui confini tracciati in epoca coloniale hanno abbondantemente contribuito ad alimentare conflitti tra le diverse componenti etniche e tribali, sia per un mondo arabo le cui strutture statali – anch’esse figlie dell’era coloniale – sembrano sul punto di collassare sotto la pressione di sollevazioni popolari, conflitti intestini e interventi stranieri.

Se questa secessione probabilmente non rappresenta la soluzione ai problemi del Sudan, essa invece costituisce un pericoloso precedente che ha spinto alcuni a paventare un possibile “effetto domino” in Africa e in Medio Oriente.

Di fronte al conflitto che sta imperversando in Libia, ai rischi di guerra civile e di disgregazione a cui stanno andando incontro la Siria e lo Yemen, al cammino tuttora incerto che hanno intrapreso paesi come l’Egitto e la Tunisia, alle ferite tuttora sanguinanti del conflitto israelo-palestinese, di quello iracheno e della perenne crisi libanese, ed alle fosche teorie e previsioni che imperversano un po’ dovunque nel mondo arabo, l’unico antidoto alla disgregazione, ed alla crisi in cui la regione potrebbe sprofondare sempre più irrimediabilmente, è rappresentato dall’affermarsi dei principi di cittadinanza, uguaglianza, e pacifica convivenza che – come ha scritto il giornalista Osman Mirghani – sono i soli in grado di fare della diversità e della complessità del mondo arabo una sorgente di forza, e non di debolezza.

 

 

Festeggiamenti per l'indipendenza dal nord

 

 

Come il mondo arabo ha perso il Sud Sudan

Fonte web

La divisione del Sudan in due Stati è un pericoloso precedente. Il mondo arabo deve trarre i giusti insegnamenti da questo evento se vuole evitare la frammentazione di altri Stati arabi in enclave etniche e settarie.

La nascita del Sud Sudan è prima di tutto una testimonianza del fallimento dell’ordine arabo, del panarabismo, e specialmente dei progetti politici islamici, nel compito di assicurare diritti civili e pari opportunità alle minoranze etniche e religiose nel mondo arabo.

L’esultanza che ha travolto il popolo del Sud Sudan in occasione della sua indipendenza dal Nord prevalentemente arabo e musulmano testimonia i radicati sentimenti di repressione e di alienazione, nutriti da un popolo la maggioranza dei cui membri è nata nel mondo arabo post-indipendenza.

Certo, il governo britannico aveva gettato il seme delle divisioni etniche e religiose in Sudan e altrove nel mondo arabo. L’intervento occidentale e israeliano ha avuto un ruolo cruciale nell’alimentare le tendenze secessioniste nel Sud Sudan, ed è destinato a trarre i maggiori benefici dalla divisione del paese.

Avi Dichter, ex ministro della sicurezza interna di Israele, una volta disse: “Abbiamo dovuto indebolire il Sudan e togliere slancio all’iniziativa di costruire uno Stato forte e unito. Ciò era necessario per consolidare e rafforzare la sicurezza nazionale di Israele. Abbiamo prodotto e aggravato la crisi del Darfur per impedire che il Sudan sviluppasse le sue capacità”.

Ma il mondo arabo non può semplicemente spiegare la secessione come il prodotto di una cospirazione israelo-occidentale.

I fallimenti arabi

Semmai, è il regime repressivo in Sudan, combinato con un incompetente e corrotto ordine regionale arabo, che ha spinto le persone legittimamente scontente nel Sud Sudan tra le braccia dell’Occidente e persino di Israele, cercando l’indipendenza da un mondo arabo sulla via del fallimento.

Gli intellettuali nel mondo arabo non dovrebbero trovare conforto nel fatto di puntare il dito – anche se a ragione – contro l’ipocrisia e il doppio standard occidentale nel sostenere, abbracciare e riconoscere il nuovo Stato del Sud Sudan, mentre viene bloccata la nascita di uno Stato palestinese indipendente.

Gli arabi dovrebbero guardare ai propri gravi errori e fallimenti morali, di fronte al fatto che i sudanesi del Sud sono un popolo oppresso le cui rivendicazioni erano rivolte contro un governo arabo, e non contro la dominazione occidentale. E’ vero che il popolo del Sud Sudan potrebbe ancora finire preda di avidi governi occidentali interessati alle sue abbondanti risorse naturali, ma questo non cambia la realtà in base alla quale la popolazione del nuovo Stato ha celebrato la fine di ciò che ha vissuto come un’oppressione imposta da un’élite araba e musulmana.

Se i leader del nuovo Stato si riveleranno meno repressivi e meno corrotti del governo di Khartoum – e vi sono segnali secondo cui essi potrebbero deludere il loro popolo su entrambi i fronti – è al momento irrilevante, considerando quello che la secessione stessa afferma a proposito del mondo arabo.

Le rivolte arabe hanno già smascherato la totale corruzione politica e finanziaria dei leader arabi e l’assenza di libertà e giustizia. L’ordine arabo non solo ha tradito le minoranze e le sue componenti non arabe, ma le masse arabe stesse.

Tuttavia, anche il mondo arabo che sta emergendo dalla Primavera Araba deve ancora dimostrare di essere in grado di creare società che accolgano la diversità, promuovano l’inclusione, e pongano fine al settarismo e alla discriminazione etnica e razziale.

L’ordine politico arabo contro cui la gente si sta ora ribellando ha favorito le divisioni religiose in parte come presupposto necessario per la sopravvivenza e la continuità dei tiranni e dei leader autoritari arabi.

Un potere fragile

La riluttanza della leadership araba in Sudan ad abbracciare una cultura estremamente ricca e diversificata, che lega il mondo arabo all’Africa, sottolinea l’urgenza di riconsiderare non solo i sistemi politici arabi, come ha fatto la Primavera Araba, ma anche di prendere atto dell’incapacità delle ideologie politiche e dei partiti politici prevalenti di dare una risposta adeguata ai diritti delle comunità etniche e religiose.

Il movimento nazionalista panarabo ha dimostrato di essere meno in grado di trattare con le minoranze etniche e nazionali che non con le minoranze religiose. Il panarabismo come ideologia non ha mai perdonato il settarismo, e non è mai stato una scuola di pensiero esclusivamente musulmana. Sebbene radicato nella cultura prevalentemente musulmana e da essa influenzato, ha avuto un orientamento laico e non ha discriminato le religioni esistenti nel mondo arabo. Infatti, alcuni dei suoi fondatori e dei suoi più importanti pensatori erano arabi cristiani, per lo più provenienti da Siria, Libano, Iraq, Palestina ed Egitto.

Ma sebbene il panarabismo sia stato inizialmente un movimento anticoloniale, alcune delle sue ramificazioni – in particolare il partito arabo Baath che ha governato la Siria e l’Iraq – hanno adottato e messo in pratica politiche scioviniste distruttive e repressive contro altri gruppi etnici e nazionali. Il caso dei curdi in Siria e Iraq testimonia diversi gradi di politiche esclusiviste, suprematiste e razziste da parte di entrambe le formazioni  politiche baathiste.

Dunque l’influenza del nazionalismo panarabo sulla cultura politica non è sempre stata positiva. In realtà, essa ha creato piuttosto atteggiamenti razzisti e sciovinisti che hanno impedito una condanna e una critica seria del modo in cui il governo nazionale sudanese nel Nord ha trattato la gente del Sud.

L’intervento straniero nel Sud ha invece mobilitato sentimenti nazionalisti nel mondo arabo contro quella che la gente visto come una cospirazione per frammentare il Sudan. Pertanto, l’opposizione politica nel mondo arabo è rimasta stranamente silenziosa di fronte alle atrocità e alle discriminazioni praticate dal governo sudanese contro il proprio popolo.

Sistemi islamisti

Tuttavia, il regime sudanese post-indipendenza non è mai divenuto parte del progetto panarabo, essendo stato per lo più influenzato e anche guidato dal forte movimento islamista nel paese.

Di conseguenza, il Sudan è stato un completo fallimento per il movimento islamico nel mondo arabo, perché è stato l’unico sistema di governo in cui un movimento islamico ha storicamente collaborato con il regime – se non lo ha addirittura in parte dominato. E’ vero che il movimento islamico nel mondo arabo non è monolitico e si differenzia da paese a paese; vi sono numerosi movimenti islamici, non un solo movimento. Tuttavia, il disastro in Sudan deve spronare gli intellettuali e i leader islamici a studiare le ragioni della fallita esperienza di un movimento islamico che aveva conquistato il potere e aveva preso parte attivamente alla guida del paese.

E’ anche vero che il caso del Sudan non rappresenta un modello di governo islamico che potrebbe essere sostenuto da molti islamisti. Molti affermerebbero che esso contraddiceva la tolleranza su cui un sistema islamico dovrebbe basarsi. Ma rappresenta comunque un caso in cui un movimento islamico ha avuto l’opportunità di creare un modello islamico di inclusione e di pace, e ha fallito miseramente.

L’imposizione del codice islamico e della sharia – ma soprattutto il modo in cui ciò è avvenuto – ha senza dubbio alienato le componenti non musulmane della società sudanese, ed è stata criticata dai settori più liberali del Sudan.

Il Sudan è così diventato un altro caso di leader politici che hanno abusato della religione islamica per mantenere il controllo sul paese e sul suo popolo.

Il modello islamico adottato dal Sudan ha anche escluso altre ideologie e tendenze politiche. Nel 1971, il defunto presidente sudanese Gaafar Nimeiri, il primo a imporre la legge islamica, effettuò una sanguinosa repressione, arrestando e giustiziando membri dell’allora influente partito comunista.

Questo episodio – si deve rilevare – non fu unico, né confinato a un regime che pretendeva di applicare un codice islamico. Il partito Baath in Iraq effettuò una repressione simile alla fine degli anni ‘70 contro i comunisti iracheni, e anche contro gli stessi baathisti che non erano d’accordo con i dirigenti del partito.

In conclusione, a prescindere dalla presunta identità politica dei governanti – fossero essi autoproclamati panarabisti o islamisti – la mancanza di libertà politiche, il disprezzo dei diritti umani, e la concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani di piccole élite, sono alcune delle cause principali alla base del fallimento dell’ordine politico arabo e della rivolta in corso contro di esso.

In Sudan, in particolare, questi problemi hanno infine portato alla divisione del paese. Il sistema politico in Sudan, come i sistemi di altri paesi arabi, si è evoluto attraverso tre golpe militari negli ultimi 55 anni di indipendenza.

Era ovvio che il sistema politico non avrebbe saputo gestire la complessità ed eterogeneità del paese. Ciò ha fornito un’occasione d’oro alle ingerenze straniere e, infine, ha portato alla secessione.

E’ assolutamente legittimo, per il popolo del nuovo Stato del Sud Sudan, celebrare la propria indipendenza, ma è anche di importanza cruciale, mentre le rivolte arabe chiedono libertà e giustizia, ricordare che non potremo fondare un ordine arabo migliore senza abbracciare la diversità e il pluralismo, al posto di ristrette ideologie nazionaliste o religiose che sono servite soltanto come strumenti nelle mani dei dittatori.

 

 

 

 

La secessione del Sud Sudan e il

suo impatto sull’Egitto rivoluzionario

Fonte web

Lo Stato del Sud Sudan ha acquisito la piena sovranità dopo aver annunciato la sua secessione dalla madrepatria con una colorita cerimonia il 9 luglio 2011. Esso è il 193° Stato ad aderire all’Organizzazione delle Nazioni Unite. Questa secessione ha posto fine a un lungo conflitto di cui sono stati vittime circa due milioni di sudanesi. Essa esprime le speranze e le aspirazioni del popolo del Sud di porre fine alle politiche egemoniche del Nord ed all’emarginazione imposta al Sud.

Malgrado gli interrogativi sull’identità e l’appartenenza geografica e culturale presenti all’interno della società sudanese del Sud, divisa dal punto di vista etnico e religioso, la gente del Sud è spinta dalla speranza di costruire un nuovo Stato che goda della democrazia e della prosperità economica.

Ma se mettiamo da parte il clima di festa e le crescenti aspettative che hanno accompagnato la nascita del nuovo Stato del Sud, vi sono segnali che suscitano preoccupazione riguardo al futuro di questo paese.

Alcuni ventilano la possibilità che un altro Stato fallito si aggiunga alla regione del Corno d’Africa. Nel frattempo la mentalità araba e islamica continua ad essere prigioniera delle teorie del complotto e a parlare della catastrofe della secessione del Sud e della partizione del Sudan.

Nascita di uno Stato o divisione di una nazione?

Fin dalla firma del trattato di pace nel 2005, il governo del Sud Sudan ha goduto della piena autonomia, con ingerenze limitate da parte del governo di Khartoum. Ma oggi lo Stato del Sud gode della piena sovranità e di un riconoscimento internazionale cominciato ancor prima che esso nascesse. Chi ha seguito l’amministrazione del governo del Sud sotto la leadership di Salva Kiir avrà rilevato che esso ha ottenuto alcuni risultati in diversi settori, ma il suo rendimento complessivo è stato ben lontano dalle sue promesse politiche, il cui contenuto retorico e simbolico è sempre stato caratterizzato da un eccesso di ottimismo.

Il nuovo governo del Sud Sudan è dominato dal Movimento Popolare di Liberazione del Sudan (SPLM), e ciò si traduce in pratica nell’emarginazione delle altre forze politiche nel Sud. Se si rievoca l’esperienza storica dei paesi africani vicini – come l’Uganda, l’Etiopia, l’Eritrea e il Ciad – allorché i ribelli di questi paesi sono passati al governo dismettendo le loro uniformi militari, le cose non sembrano troppo promettenti per il futuro del neonato Stato nel Sud Sudan, il quale potrebbe riprodurre altre esperienze africane, ed in particolare il modello eritreo – un modello che potrebbe rivelarsi non troppo lontano da quello del nuovo Stato sudanese.

Numerosi rapporti internazionali riferiscono del propagarsi della corruzione nel governo del Sud. Il parlamento del Sud Sudan ha recentemente convocato un certo numero di responsabili per interrogarli sulla scomparsa di circa due miliardi di dollari di denaro pubblico. A ciò si aggiunga che le autorità militari e di sicurezza in molte occasioni hanno compiuto operazioni di restrizione della libertà dei media e dell’accesso alle informazioni.

Sul piano delle sfide della sicurezza e della presenza di numerose fazioni armate che si oppongono all’SPLM, troviamo che il bilancio degli scontri violenti nel Sud Sudan dall’inizio di quest’anno ha raggiunto i 1.400 morti secondo alcune stime internazionali. Tutto ciò potrebbe giustificare l’affermazione che ci troviamo di fronte alla possibile nascita di un nuovo Stato fallito nella regione.

Malgrado ciò, si può uscire dal vicolo cieco legato ai problemi della costruzione del nuovo Stato nel Sud se si considera questa prima liberazione come la premessa per realizzare l’obiettivo di lotta supremo, ovvero la costruzione di una nazione sudanese unita secondo la visione del “nuovo Sudan” fondato sui principi di cittadinanza, uguaglianza e giustizia sociale.

A questo proposito, è possibile ridefinire l’identità sudanese collettiva affinché includa tutte le componenti della nazione sudanese. Ritengo che l’aspirazione a una seconda liberazione, attraverso la fondazione di un nuovo Sudan, potrebbe fondarsi su una serie di elementi fondamentali tra cui i principali sono:

1) Le caratteristiche geografiche e demografiche del Sud Sudan, che ne fanno uno Stato prigioniero inevitabilmente spinto a gettarsi nelle braccia di uno qualunque degli Stati vicini che possiedono uno sbocco al mare. Esso dovrà perciò rivolgersi a Sudest, verso il Kenya, o mantenere il suo rapporto storico con il Sudan del Nord. Inoltre, il Sud è reso turbolento da una serie di tribù e di gruppi etnici disomogenei che talvolta si scontrano per questioni legate alla ricchezza e al potere.

2) La lingua araba e la cultura islamica sono considerate fra le principali componenti della personalità sudanese del Sud. Malgrado le affermazioni sul carattere africano del Sud, e l’invito portato avanti dalla sua élite politica a liberarsi dal fardello degli arabi del Nord, il “carattere arabo del Sud” continua ad essere un fattore unificante per i meridionali al di là delle loro differenze culturali e tribali. Allo stesso modo non si può negare l’influenza dell’Islam su circa un quarto dei sudanesi del Sud, per i quali esso rappresenta la religione, la cultura e l’identità condivisa.

3) Le regioni di confine tra il Nord e il Sud del Sudan, come lo stato del Sud Kordofan e la regione di Abyei, rappresentano dei poli di attrazione e delle zone di reciproca mescolanza. In conseguenza di ciò i nuovi confini amministrativi perdono ogni valore. La popolazione di queste regioni è composta da nomadi alla continua ricerca di acqua e di pascoli, incuranti delle linee tracciate su una mappa dalla mano dell’uomo.

E’ forse questo che ha spinto alcuni ad affermare che la secessione del Sud sarà una questione puramente formale che porterà alla necessità di ridefinire il rapporto con le altre regioni del grande Sudan.

Le alleanze di Juba guardano a Est

E’ evidente che la secessione del Sud porterà, su un altro piano, alla possibilità di un cambiamento delle caratteristiche geostrategiche della regione del Corno d’Africa. Gli equilibri regionali in questa’area si stanno gradualmente spostando a vantaggio dell’Etiopia che è ormai diventata la principale potenza regionale.

Diversi segnali indicano che il Sud Sudan indipendente si volgerà verso l’Africa orientale. Ciò comporta la definizione di nuove alleanze regionali che inevitabilmente avranno un impatto sull’architettura di sicurezza dei paesi arabi vicini, primo fra tutti l’Egitto.

A questo proposito vale la pena di soffermarsi su una serie di considerazioni che regolano il nuovo orientamento strategico del Sud Sudan, fra cui:

a) i legami storici che legano i sudanesi del Sud ai loro fratelli africani nei paesi vicini – essenzialmente Uganda, Kenya ed Etiopia. Il movimento ribelle del Sud trovò sostegno e aiuto in questi paesi. Ricordiamo ad esempio che sia il defunto leader dell’SPLM John Garang che il presidente ugandese Yoweri Museveni studiarono all’Università di Dar es Salaam, in Tanzania. L’SPLM, inoltre, godette di enormi facilitazioni da parte del governo ugandese. A partire dal 2005 i legami economici e di sicurezza tra il governo del Sud Sudan e quello ugandese si sono rafforzati.

Non c’è dubbio che la propensione dell’élite dominante nel Sud Sudan sia africana, visto molti dei suoi membri hanno rapporti economici, culturali e sociali con i paesi vicini, ed in particolare con l’Uganda e il Kenya. Numerosi documenti indicano che il Sud Sudan diventerà un paese chiave nel raggruppamento economico degli Stati dell’Africa orientale, che comprende Kenya, Uganda, Tanzania, Ruanda e Burundi.

b) L’annuncio della costruzione di un corridoio di sviluppo che legherebbe la città di Juba ai porti kenioti. Molti responsabili del governo del Sud Sudan hanno espresso la propria preoccupazione per la dipendenza del loro paese dagli oleodotti diretti a Port Sudan per trasportare ed esportare il petrolio del Sud.

Si sta perciò seriamente pensando a costruire un oleodotto alternativo della lunghezza di 1.400 km. Una società giapponese ha condotto gli studi di fattibilità necessari per avviare il progetto sul lato keniota. In questo modo il petrolio del Sud Sudan verrebbe esportato attraverso il porto keniota di Lamu.

Ritengo che questo megaprogetto porterà ad accelerare l’integrazione del Sud Sudan nella regione dell’Africa orientale, visto che esso comprende la creazione di una rete di strade e di ferrovie.

c) Il tentativo dell’Etiopia di scambiare il petrolio del Sud Sudan con l’energia elettrica prodotta da Addis Abeba. La visione del primo ministro etiope Meles Zenawi incentrata su un’Etiopia forte si fonda sullo sfruttamento e l’esportazione dell’energia idroelettrica. La filosofia di costruire dighe in Etiopia punta al raggiungimento dell’autosufficienza e della capacità di esportare energia elettrica ai paesi vicini a Est (Gibuti e Somaliland), a Sud (Kenya e Uganda), a Ovest (Sudan del Nord e del Sud), e a Nord (Egitto).

Si stima che l’Etiopia abbia in programma di esportare circa 400 megawatt di energia elettrica verso i suoi partner regionali nei prossimi dieci anni. A ciò si aggiunga il fatto che la leadership etiope ha proposto l’idea di un nuovo oleodotto per trasportare il petrolio del Sud Sudan ai porti di Gibuti attraverso l’Etiopia.

Una strategia di contenimento dell’Egitto

Nel prossimo futuro la Repubblica del Sud Sudan avrà probabilmente bisogno dei suoi vicini dell’Africa orientale più di quanto questi ultimi avranno bisogno di lei. Juba si rende perfettamente conto di aver bisogno sia dell’Uganda che del Kenya per dare impulso al suo commercio estero, e di aver bisogno dell’Etiopia per la sicurezza e l’energia elettrica.

Dal canto loro, i paesi dell’Africa orientale stanno compiendo ogni sforzo per impedire che il Sud Sudan si trasformi in uno Stato fallito, o che il conflitto armato ritorni un’altra volta nella regione. Secondo stime del 2009, il Sud Sudan rappresenta il principale mercato di esportazione per l’Uganda. Juba ha infatti importato merci ugandesi per un valore di 185 milioni di dollari.

Sembra che il ritorno della guerra nel Sud Sudan comporterebbe una perdita per gli Stati vicini pari a circa il 34% del PIL nei prossimi dieci anni. Kenya ed Etiopia potrebbero perdere circa un miliardo di dollari all’anno.

Non vi è dubbio che qualora si rafforzasse la propensione orientale del Sud Sudan, al punto da attrarre al seguito anche Khartoum, sotto la spinta di pressioni locali ed internazionali, ciò rappresenterebbe una sfida strategica alla statura regionale dell’Egitto. Il governo di Khartoum guarderebbe infatti ai benefici dell’integrazione regionale e di una nuova partnership con i paesi dell’Africa orientale, che potrebbe andare a scapito del suo rapporto storico con l’Egitto a Nord.

Alcuni hanno parlato della possibilità di creare un triangolo energetico che comprenderebbe Khartoum, Juba e Addis Abeba. Questa nuova alleanza si fonderebbe sullo scambio tra il petrolio sudanese e l’acqua dell’Etiopia. Secondo un consigliere del primo ministro etiope, “se l’Etiopia fornisce l’energia elettrica, il Nord del Sudan la produzione alimentare e il Sud Sudan il petrolio, sarà l’Egitto a farne le spese”.

Non vi è dubbio che questi sviluppi regionali influiscano sull’architettura della sicurezza nazionale egiziana, al punto che si può parlare di una nuova strategia per contenere l’Egitto dopo la rivoluzione del 25 gennaio, a vantaggio di altre potenze regionali come l’Etiopia e Israele.

Pertanto è necessario che l’Egitto e gli altri grandi paesi arabi, dopo che sarà svanita la sbornia rivoluzionaria e sarà tornata la capacità di riflettere, affrontino con ponderazione la nuova realtà in modo da attrarre il Sud Sudan verso il vicinato arabo a Nord, rievocando i legami storici e geografici, e utilizzando l’arma del soft power che gli arabi ancora non hanno imparato ad usare.

Sarebbe ad esempio possibile pensare di invitare il Sud Sudan ad aderire alla Lega Araba? Oppure continueremo sempre ad andar dietro alle opportunità mancate?

 

 

APPROFONDIMENTO

 

Gli arabi impareranno qualcosa dalla

traumatica esperienza del Sudan?

Mi ero profondamente depresso guardando la nuova mappa del Sudan; un Paese che sta perdendo più di un quarto della sua superficie, 8 milioni dei suoi abitanti e quasi il 70% delle sue risorse naturali, mentre il suo presidente e i suoi alti funzionari di Stato celebrano il “risultato ottenuto”. La mia prostrazione peggiorava mentre osservavo le reazioni di indifferenza in molte parti del Sudan e nella maggior parte del mondo arabo. Non ci siamo ancora resi conto di quale catastrofe incomba su di noi, e delle crisi che arriveranno? O siamo ormai assuefatti al fallimento e alla tendenza alla frammentazione, nonché pronti ad accettare divisioni e separazioni senza battere ciglio?

 

Un nuovo Sudan: il Sud. Un dossier di approfondimento

Il 9 luglio il Sud Sudan è diventato ufficialmente indipendente dopo un lungo e doloroso percorso iniziato già alla fine del periodo coloniale e caratterizzato da due guerre civili intervallate da un breve periodo di instabile pace. Per comprendere meglio il processo che ha portato all'indipendenza del Sud Sudan, la Campagna Italiana per il Sudan ha realizzato un dossier di approfondimento scaricabile dal sito della campagna: il documento affronta le questioni politiche e istituzionali, percorrendo la storia che ha portato alla tappa fondamentale del 9 luglio attraverso il referendum di autodeterminazione dello scorso gennaio. Numerose questioni sono rimaste aperte da allora: dalla cittadinanza alle divisioni delle royalties sul petrolio, il percorso di pace non si è concluso e ha bisogno dello sforzo di tutti e dell'impegno per una convivenza senza conflitti da parte dell'intera comunità internazionale.