OSPEDALI PSICHIATRICI GIUDIZIARI:

QUANDO L'INFERNO DIVENTA VISIBILE

(a cura di Claudio Prandini)

 

 

Nell'inferno delle anime perdute - Strutture di ex manicomi

 

 

INTRODUZIONE

Da OPG a vere case di cura?!

Fonte web

Affidare alle Asl tutti gli internati dimissibili perché non pericolosi. Chiudere definitivamente gli ospedali psichiatrici giudiziari a rischio, e aprire nuove strutture più sicure e con caratteristiche igienico sanitarie adeguate. Magari riconvertendo i piccoli ospedali dismessi. Sono queste le strade da percorre, prospettate dal senatore Ignazio Marino, per consentire agli Opg di uscire dalle secche.

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Gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) sono una sorta di Giano bifronte: ospedali da un lato, carceri dall’altro. Nati nel 1975, conosciuti ai più come “manicomi criminali”, sono quelle strutture che dopo la storica legge Basaglia (L.180 del 1978) accolgono internati prosciolti per infermità mentale, detenuti ritenuti socialmente pericolosi, persone sottoposte a misure di sicurezza provvisoria. E ancora, “buchi neri” che ospitano detenuti minorati psichici, detenuti imputati soggetti a custodia preventiva e sottoposti a perizia psichiatrica, condannati con sopravvenuta infermità di mente.

In Italia gli Opg sono sei, dislocati nel territorio da Nord a Sud: Castiglione delle Stiviere (Mn), Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino (Fi), Napoli, Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto (Me).

Sei strutture finite nel mirino della Commissione d’inchiesta del Senato sull’efficacia e l’efficienza del Ssn, presieduta da Ignazio Marino, che con blitz e sopralluoghi a sorpresa, ha messo a nudo quella che possiamo definire senza esitazioni una “vergogna” del sistema assistenziale italiano.

Solo uno dei cinque ospedali passati al setaccio dai senatori nel mese di luglio, ha dimostrato di possedere gli standard previsti dalla legge, quello di Castiglione delle Stiviere. Gli altri? Un inferno. Basta leggere le relazioni sui sopralluoghi effettuati e guardare alcune immagini scattate dalla Commissione per capire. Nei verbali si parla di “degrado derivante dalle pessime condizioni strutturali e igienico-sanitarie; evidenti macchie di umidità e muffe; presenza di sporcizia dovunque; presenza di letti metallici con spigoli vivi, vernice scrostata e ruggine; pavimenti danneggiati; coperte e lenzuola strappate, sporche ed insufficienti”. Ovunque si avvertiva “un lezzo nauseabondo per la presumibile presenza di urine sia sul pavimento che sugli effetti letterecci”. Ancora, in alcune strutture mancano addirittura psichiatri e psicologi. L’Opg di Reggio Emilia, in una Regione virtuosa quindi, ha una capienza di 132 internati, prima dell’estate ne ospitava 264. Più del doppio. In molte stanze c’erano letti a castello che negli ospedali psichiatrici sono fuori legge. Ogni paziente, in alcune celle, ha meno di tre metri quadrati a disposizione, in netta violazione delle normative europee.

Un quadro devastante che ha portato i parlamentari a chiedere, già da luglio, la chiusura delle strutture. Ma da allora nulla è cambiato. È di quindici giorni fa l’ultimo blitz nella struttura di Aversa. Un sopralluogo che ha avuto come risultato il sequestrato della farmacia da parte dei carabinieri dei Nas della Commissione d’inchiesta. E la conferma del degrado inaccettabile in cui vivono le persone recluse.

Quotidiano Sanità si è confrontato su questo tema con Ignazio Marino, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta. – Senatore Marino, la Commissione parlamentare d’inchiesta sul Ssn sta lavorando alacremente da mesi sul problema degli ospedali psichiatrici giudiziari, com’è la situazione?

Critica. Nelle sei strutture sono ospitate 1.500 persone, di queste almeno il 40 per cento sono internate solo a causa delle infinite proroghe delle misure cautelari. Mi spiego, negli Opg ci sono due tipologie di detenuti: quelli che hanno commesso un reato e quindi sono stati condannati al carcere, ma avendo manifestato anche problemi psichiatrici sono stati internati con il cosiddetto “fine pena”; e quelli tecnicamente prosciolti, in quanto incapaci di intendere e di volere. Persone che potrebbero essere dimesse e affidate ai servizi sanitari territoriali. A questa ultima tipologia di internati viene somministrata una misura di sicurezza che va dai due ai dieci anni, prorogabile o revocabile. Ma accade che nella maggior parte dei casi la proroga duri all’infinito e si trasformi in quello che viene chiamato ‘ergastolo bianco’.

Nel corso dei sopralluoghi ci siamo resi conto, e personalmente anche con un certo sbigottimento, che persone non condannate, ma internate in quanto ritenute socialmente pericolose pur non trovandosi più in questo stato, non solo non vengono dimesse per ricevere dai servizi esterni assistenza psichiatrica, ma non la ottengono neanche all’interno dell’Opg. Ad esempio, nella struttura di Aversa, che accoglie 300 degenti, abbiamo trovato un solo medico che poteva garantire appena un’ora di assistenza psichiatrica al mese. Il peggio del peggio: sono ingiustamente internati in un luogo dove dovrebbero essere curati senza però avere accesso alle cure.

Di chi è la responsabilità di questo dissesto, delle Regioni?

C’è una responsabilità di vari attori. Di chi proroga ad oltranza lo status di paziente psichiatrico e di chi convalida tutto questo. Non solo, in molte realtà c’è una sovrapposizione dell’amministrazione penitenziaria, per cui entra in scena anche questo terzo attore.

Mi spieghi meglio…

È uno scenario complesso. Negli Opg c’è un numero di medici e specialisti insufficiente. Spesso questi professionisti lavorano con contratti di collaborazione, non sono quindi dedicati ad assistere continuativamente internati con necessità di cure psichiatriche. Il risultato? In alcune strutture abbiamo trovato certificati nei quali si confermava la necessità dell’internamento che venivano sistematicamente fotocopiati cambiando solo la data di diagnosi. Documenti sempre convalidati dal magistrato di sorveglianza.

Sta dicendo, quindi, che c’è anche una responsabilità del magistrato che non “rileva” anomalie evidenti …

Esattamente.

Quindi?

Abbiamo incontrato in audizione i tre interlocutori principe di questa vicenda, per trovare soluzioni concordate, ossia i vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), il coordinatore degli assessori alla sanità delle Regioni, Luca Coletto e il presidente dei magistrati di sorveglianza.

Quali saranno le prossime mosse?

Sono due gli obiettivi da raggiungere. Il primo è quello di responsabilizzare, entro la fine dell’anno, sia gli assessori alla sanità di tutte le Regioni, sia i sei magistrati di sorveglianza. Dobbiamo fare in modo che tutti i detenuti dimissibili perché non pericolosi vengano presi in carico dalle Asl competenti. Abbiamo le liste dei dimissibili, ossia oltre 300 persone che avrebbero ogni beneficio dall’essere ricondotte nel territori di appartenenza e quindi assistite dai Dipartimenti di salute mentale.

Ma le Asl sono pronte per questo passaggio del testimone?

Come ben sappiamo le Asl hanno performance che variano da Regione a Regione; quindi anche in questo caso ci saranno aziende in grado di accogliere questi pazienti, altre che avranno delle difficoltà e dei disagi.

Il nostro intento, ricordiamolo, non è quello di produrre solo documentazione, ma di raggiungere dei risultati in un’ottica di collaborazione. Ecco perché abbiamo chiesto l’intervento dell’assessore Coletto: se ci saranno delle Regioni in difficoltà chiederemo a quelle che hanno una situazione più solida di accogliere gli internati dimissibili. Parliamoci chiaramente: se tutto questo fin ora non è avvenuto è perché ci confrontiamo con pazienti scomodi e difficili.

Il secondo obiettivo?

Chiudere almeno tre delle strutture esistenti, ossia Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa e Montelupo Fiorentino, e realizzare strutture che abbiano l’impostazione di Castiglion delle Stiviere.

Ma nel blitz di luglio avevate già chiesto la chiusura di queste strutture. Perché non è stato fatto?

Perché a differenza delle strutture psichiatriche del Ssn – dove ci sono persone non pericolose socialmente, ma solo pazienti maltrattati – che è stato possibile chiudere dirottando i pazienti in altre strutture, negli Opg c’è evidentemente un differente genere di problema: i pazienti sono socialmente pericolosi e quindi difficilmente collocabili.

Invece, avete messo immediatamente i sigilli nella farmacia di Aversa dove, nel corso del secondo sopralluogo, sono state rilevate importanti violazioni…

Sì, era nei nostri poteri farlo. Soprattutto, in questo caso abbiamo potuto nominare un custode giudiziario per dare continuatività alle cure. La farmacia erogava farmaci anche a base di sostanze stupefacenti con buoni di richiesta e registri di carico e scarico privi della firma del medico, in violazione alla legge. Venivano firmati dopo mesi dal medico proprio perchè non era sempre presente.

Che tempi vi siete dati per risolvere definitivamente il problema Opg?

Anche in questo momento di difficoltà politica nazionale, proprio perché sentiamo una grande responsabilità, stiamo cercando di accelerare i tempi per risolvere le criticità relative agli internati dimissibili. Ci dovremmo riuscire, come ho già detto, entro la fine dell’anno o al massimo per gli inizi del prossimo. Per quanto riguarda la chiusura delle strutture carenti, ne dobbiamo parlare con i Ministri competenti, che chiameremo in audizione.

Avete già nel cassetto qualche proposta?

Una possibilità potrebbe essere quella di destinare a queste attività alcuni dei piccoli ospedali che devono essere dismessi. Strutture con caratteristiche igienico sanitarie sicuramente più adeguate di quelle degli Opg esistenti. E con un modello che riproduca quello di Castiglion delle Stiviere, dove all’interno c’è esclusivamente sanità e all’esterno una cinta di protezione affidata al Dap.

Senatore, ma Ssn e Dap sono in grado di interagire?

Questa è sicuramente una delle criticità, il passaggio di consegne è avvenuto con Dpcm nell’aprile del 2008, siamo alla fine del 2010, ma le problematiche degli Opg sono rimaste le stesse esistenti all’approvazione della legge Basaglia. E nella regione Sicilia sono ancora più accentuate: non è stato neanche recepito il Dpcm. Anche su quest’ultimo punto stiamo lavorando con le istituzioni regionali.

 

 

Ospedali psichiatrici, condizioni disumane

 

 

Non chiamateli ospedali: viaggio

nell’inferno dei manicomi criminali

Fonte web

Andrea, 25 anni fa, si è vestito da donna ed è andato davanti a una scuola; Mario, nel 1992, ha compiuto una rapina da settemila lire fingendo di avere una pistola in tasca; Luca ha iniziato a star male quando è morto suo padre, nel 1997; Fabio sarebbe dovuto uscire alla fine dello scorso anno, ma non ha fatto in tempo, è morto prima. I nomi sono di fantasia, le storie no: sono tutte storie di uomini e donne rinchiusi negli ospedali psichiatrici giudiziari, strutture sparse per il territorio nazionale, regolate dal codice Rocco del 1930, per lo più fatiscenti e in stato di semi abbandono. Come chi vive al di là di quelle sbarre. Anzi, peggio, chi vive là dentro è completamente abbandonato.

La commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino, sta ora cercando di portare alla luce quelle storie, di renderle pubbliche, di far conoscere agli italiani la vergogna di Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Secondigliano. Luoghi in cui si entra se si commettono reati bagatellari (che presuppongono pene inferiori ai due anni) e si è affetti da una malattia psichiatrica o se si viene prosciolti perché incapaci di intendere e di volere. Luoghi in cui si entra per ricevere cure e dai quali si rischia di non uscire vivi. Luoghi in cui le proroghe di sei mesi sono moduli fotocopiati, in cui il paziente riceve le cure – quando va bene – di un medico generico che trascorre quattro ore a settimana in una struttura che ospita 300 persone. Tra le corsie degli Opg gli psicofarmaci diventano caramelle, il mondo esterno non entra in alcun modo, non ci sono attività ricreative, di socializzazione. Ci sono invece i letti di contenzione, con i materassi bucati al centro per far cadere le feci e l’urina, il ferro arrugginito e le lenzuola cambiate una volta ogni due settimane. Non ci sono infermieri, ma agenti penitenziari (l’unico istituto che fa eccezione è quello di Castiglione delle Stiviere, nel mantovano, dove sono rinchiuse anche 90 donne).

Da quando la commissione sta visitando (ogni settimana) gli Opg, delle 376 persone giudicate non socialmente pericolose, e che quindi potrebbero essere prese in cura dalle Asl, ne sono uscite soltanto 65. Ma cosa impedisce a un uomo di uscire da una struttura che è peggio del carcere iracheno di Abu Ghraib? “Prima del nostro intervento, l’inedia – spiega il senatore Marino –: i pazienti venivano tenuti dentro attraverso il meccanismo delle proroghe, che venivano fotocopiate senza che neanche si aggiornasse lo stato di salute. Adesso c’è chi non è disponibile ad accoglierli: le Asl ci rispondono spesso di non aver i fondi necessari e i giudici di sorveglianza sono costretti a firmare le proroghe perchè mancano le misure alternative. Siamo riusciti a sbloccare i 5 milioni di euro stanziati con decreto del presidente del Consiglio dei ministri nel 2008, fondi che adesso verrano distribuiti alla Regioni. Ma abbiamo bisogno che tutti conoscano queste realtà”.

Ed è per questo che, durante le visite a sorpresa (che solo i parlamentari possono fare) effettuate dai membri della commissione negli Opg, è stato girato un video: immagini raccapriccianti che sono visibili sul nostro sito internet (www.ilfattoquotidiano.it) e che verranno trasmesse integralmente domenica da Riccardo Iacona nel corso della trasmissione di prima serata Presadiretta su Rai3. Un documento che mostra muri scrostati, finestre sostituite da cartoni, fornelletti per cucinare accanto a bagni alla turca, letti accatastati in celle microscopiche. Ma che soprattutto testimonia come si può ridurre un uomo quando, anziché curato, viene trattato come gli animali nelle peggiori situazioni di cattività.

“Tortura, di questo si tratta”, racconta ancora Marino mostrando il video. Eppure nessuno dei parenti di queste persone ha pensato (ancora) di fare causa allo Stato, perché “ancor più che nelle carceri – spiega Iacona – gli Opg sono una discarica sociale”. Chi ha i soldi per pagarsi un buon avvocato, certo non finisce di trascorrere i suoi giorni in un ergastolo bianco. Ma forse è anche per questo che la vita delle circa 1500 persone sepolte lì dentro non interessa quasi a nessuno.

 

 

Stanza da letto nell'Ospedale Giudiziario di Aversa

 

 

Inferno infinito nel manicomio

giudiziario di Aversa

Fonte web

Due agenti di polizia penitenziaria dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa sono stati arrestati con l’accusa di avere costretto un giovane transessuale, internato nella struttura, ad avere rapporti sessuali. Secondo l’inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere, coordinata da Raffaella Capasso, gli agenti avrebbero approfittato della loro posizione di autorità e dell’evidente stato di soggezione della vittima per costringerla, separatamente e in più occasioni, a rapporti sessuali. Gli episodi, avvenuti nel 2008, sono emersi dopo che la vittima degli abusi ha raccontato i fatti ad una psichiatra e dopo lunghe verifiche sull’attendibilità delle dichiarazioni. La richiesta di arresti domiciliari è stata eseguita dagli stessi colleghi degli agenti indagati.

Ma questo episodio va inquadrato in uno scenario più ampio di abusi, violenze e di condizioni detentive inumane e degradanti raccontate, per primo, proprio dal manifesto e denunciate dall’Osservatorio dell’associazione Antigone. Un vaso di Pandora finalmente scoperchiato dopo anni di denunce, inchieste, interrogazioni parlamentari, e dopo l’ultimo suicidio di un internato all’ inizio dell’anno. Nella nota diffusa dalla procura si legge che «le condotte ipotizzate appaiono di particolare gravità in quanto commesse nell’ambito di una realtà detentiva – come accertato nel corso di altre indagini – assai più drammatica di quella carceraria».

Sono state iscritte nel registro degli indagati per omicidio colposo 14 persone, tra cui parte del personale in servizio in reparto: medici, psichiatri e i dirigenti della struttura. Nemmeno un mese e gli stessi magistrati, assieme ai carabinieri dei Nas, hanno effettuato una lunga ispezione nella struttura sequestrando registri e cartelle cliniche. Hanno anche notificato avvisi di garanzia all’ex commissario straordinario dell’Asl Ce, alla direttrice del dipartimento di salute mentale ex Asl Ce2, per «omissione d’atti di ufficio», alla direttrice penitenziaria dell’Opg Carlotta Giaquinto e al direttore sanitario Adolfo Ferraro. Responsabilità penali tutte da accertare, naturalmente, ma fatti che appare difficile negare, specie se misurati in termini di vittime.

Almeno 14 morti, tra suicidi e malattia, nel giro di 4 anni. Le indagini prendono slancio dal lavoro della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficienza del sistema sanitario, presieduta da Ignazio Marino, che la scorsa estate aveva, a seguito del rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura, ispezionato la struttura e ne aveva denunciato la degradante umanità. «Quanto si apprende oggi – ha detto Marino – mi lascia senza parole». Ma nulla sembra scuotere la quotidianità di una struttura dove sono internate 300 persone, su una capienza di 180 posti. Ancora nel novembre scorso, i Nas, accompagnando la Commissione parlamentare, avevano dovuto sequestrare la farmacia interna all’Opg, per «erogazione illegale di stupefacenti ed esercizio abusivo della professione medica».

A febbraio, i Radicali, in un’interrogazione parlamentare hanno denunciato condizioni igieniche precarie, «con pazienti abbandonati e stanze che ospitano anche più di 6 persone». «Un inferno», così ha definito l’Opg la vittima delle violenza, dai muri ben spessi: qui, trent’anni fa, si è fermata la riforma Basaglia e qui, oggi, rischia di infrangersi la meno ambiziosa riforma della sanità penitenziaria che ha trasferito le competenze di assistenza dal Ministero della giustizia alle Asl. Nel 1975, a seguito delle denunce di un internato, si aprì un processo penale che si concluse con una condanna per l’allora direttore. Dalle denunce e dall’inchiesta che ne scaturì, emerse lo stato disastroso in cui versava la struttura, l’assenza di attività terapeutiche e di reinserimento, violenze fisiche e psichiche nei confronti degli internati, abuso dei letti di contenzione. C’è chi dice che il tempo scorre via molto velocemente; qui ad Aversa sembra essersi fermato.

 

 

Malati in un ospedale psichiatrico

 

 

Reparto psichiatrico Ospedale Niguarda,

 decessi e maltrattamenti: Telefono viola

 denuncia metodi di contenzione

alla Procura di Milano

Fonte webb

Se le vicende accadute al reparto psichiatrico dell’ospedale Niguarda dovessero essere verificate, si potrebbe delineare una perfetta trama per un film “horror”.

Infatti, stando a quanto riportano le agenzie stampa, questa mattina l’associazione Telefono Viola avrebbe presentato alla Procura di Milano un esposto su morti sospetti e maltrattamenti, derivati dai metodi di contenzione applicati nel regolamento del reparto psichiatrico dell’ospedale milanese.

Tre nuovi casi di morti “per abusi nei confronti di pazienti con patologie psichiatriche”, hanno fatto scattare lo sdegno dell’associazione che si occupa della tutela di abuso o cattivo uso della pratica psichiatrica.

Nell’esposto presentato questa mattina da Telefono viola sono, infatti, ipotizzati reati di omicidio e lesioni in relazione ad episodi che sarebbero avvenuti nei reparti psichiatrici dell’ospedale Niguarda.

I tre nuovi casi che si sono verificati nella struttura ospedaliera si aggiungerebbero a due morti “per torture da contenzione” denunciate recentemente attraverso una conferenza stampa dalla stessa associazione.

La denuncia controfirmata anche da cui alcuni familiari dei pazienti oltre che dal presidente dell’associazione Giorgio Pompa, assistiti dall’avvocato Mirko Mazzali, illustra 5 casi di morti e 5 casi di abusi e violenze; viene inoltre messa sotto accusa la pratica detta dello “spallaccio”, ovvero il metodo di contenzione fisica che consiste nel legare i malati di mente al letto.

RIEPILOGO DEI CASI ESPOSTI -

Tre nuovi casi: Filippo S. e Maria Graziella B., morti nei reparti Grossoni rispettivamente il 17 marzo 2009 e il 13 gennaio 2010. Stando a quanto rifersice Giorgio Pompa, i due dopo essere stati ”intontiti dai neurolettici, sono stati abbandonati a loro stessi durante il pranzo, a morire in completa solitudine, in modo orribile, soffocati dal cibo che stavano mangiando”.

Viene ricordato anche il decesso di un altro paziente, Antonio R. che morì “improvvisamente” il 17 settembre 2007.

Tutti casi dei quali, afferma Pompa, “mancano la documentazione e i referti medici”.

Ricordando invece la conferenza stampa che si tenne al Palazzo di Giustizia di Milano, lo scorso 23 novembre, riemergono anche altre 2 morti sospette: quella di Tullio C. “legato al suo letto alle 11 di mattina e, dopo 14 ore, alle 2 di notte trovato morto”, nell’ottobre scorso e quella di Francesco D., obeso e accanito fumatore, “morto al Grossoni il 26 settembre 2008, dopo essere stato legato al letto per impedirgli di fumare”.

4 episodi di violenze legate alla contenzione fisica dei pazienti: nel giugno del 2005, “un marocchino Mohamed M. subì lo spallaccio, e si ritrovò con le braccia paralizzate”, mentre una donna Rita F., nel marzo del 2006 “venne legata e subì piaghe da decubito e infezioni”, un’altra paziente invece “all’inizio del 2010 è rimasta legata per 18 giorni e 6 ore” e Andrea S. “per 14 giorni” .

L’esposto segnala anche la vicenda di Maria Teresa D., che nel maggio del 2009 “venne legata per due ore, solo perchè aveva litigato a parole con un infermiere per un motivo banale”.

Nel documento presentato alla Procura di Milano e firmato anche dal marito di Rita F. si evidenzia che quest’ultima “dopo la contenzione, vive su una sedia a rotelle”.

 

 

Franco Basaglia è lo psichiatra maggiormente conosciuto nel

 secolo scorso, per la battaglia condotta negli anni '70 volta

 a chiudere l'orrenda istituzione manicomiale.

 

 

Contro i falsi profeti: un’ora di intelligenza

Fonte web

Erano i primi anni Settanta quando Franco Rotelli e Mariagrazia Giannichedda incontravano Trieste, il manicomio e Franco Basaglia. Con l’arrivo in Friuli, dopo essersi imbattuti nell’architettura e nelle prassi criminali dell’istituzione totale che agiva un’azione coattiva e violenta sui soggetti che vi erano reclusi, avevano cominciato a contribuire ad un processo di liberazione che avrebbe cambiato radicalmente il volto di questo paese. Mentre le pareti del manicomio venivano abbattute, si cominciava a restituire alle città e alla società nel suo complesso l’altro sé. Si svelava quindi il volto della contraddizione che era stato relegato al di là del muro, racchiuso tra inferriate e mattoni. Alle prese con la distruzione di quel grande carcere eretto per contenere le persone che erano state marchiate a vita come “irrecuperabili”, si sovvertivano anche i principi primi di una cultura che aveva fatto dell’assolutizzazione del concetto di salute e di quello di normalità il suo mito fondativo.

Superati i primi anni del duemila, Franco Rotelli e Mariagrazia Giannichedda continuano ad incontrarsi scontrandosi con i residui di quell’istituzione totale e praticando, nello spazio delle loro quotidianità, visioni del mondo alternative. Neutralizzando con grande eleganza i rischi di un facile amarcord, si raccontano a partire dalla lettura dei luoghi e degli attori sociali che oggi abitano gli spazi del fare, quelli del sapere. Ragionando a voce alta sul legame – sempre politico – che intercorre tra teoria e prassi, suggeriscono orizzonti possibili mettendo in guardia chi li ascolta dai falsi profeti e da chi pretende di semplificare con l’erezione di un muro la complessità di un’esistenza. Ed è solo conoscendo le radici storico-culturali che hanno caratterizzato questo “altro fare” che oggi possiamo imparare ad agire la differenza. Proprio per questo, Mariagrazia Giannichedda condensa e riassume il senso di una relazione concreta, personale e intellettuale, che ha unito Franco Basaglia e Jean-Paul Sartre, negli anni della lotta contro il manicomio in Italia: «Franco [Basaglia] considerava che la filosofia di Sartre andasse messa in pratica». Separati dal tempo di una generazione (Sartre nasce nel 1905, Basaglia nel 1924), è infatti su alcuni temi centrali nel percorso di riflessione e nell’attività di entrambi che avviene l’incontro, e il confronto, «da maestro ad allievo». Il tema della libertà, la ricerca dell’autenticità nelle relazioni, comprese quelle di cura, la messa tra parentesi della malattia come procedimento fenomenologico e terapeutico allo stesso tempo, come epoché che restituisce al malato la sua umanità, e allo psichiatra la possibilità di instaurare un rapporto che non si esaurisca in un mero etichettamento, nella reiterazione di uno stigma irrimediabile, nell’esercizio di una tutela imposta che diventa contenzione.

E poi, ancora, la negazione: intesa non solo e non tanto come moto radicale della coscienza individuale, come quello scollamento da sé che condanna a vivere di continui superamenti, senza mai poter raggiungere la pace, muta e inconsapevole, degli oggetti. Ma come fonte di indignazione morale, di fronte alla realtà di un’istituzione, quella manicomiale, destinata teoricamente alla cura del disagio mentale e che invece si rivela essere un luogo della violenza legittima. Legittima perché legittimata da un sapere (scientifico, medico) che diventa potere. Matrice di assoggettamento per soggetti negati, reificati, ma che può e che deve essere interrogata dalle sue fondamenta, messa di fronte alle proprie responsabilità, oltre che rapportata ai suoi risultati strettamente clinici. Da qui quindi, la nascita di una pratica di visioni che si è opposta a un’istituzione che si configurava innanzitutto come una forma di violenza. Un’istituzione che occorreva rifiutare, praticando una quotidiana negazione delle condizioni materiali e delle giustificazioni scientifiche, culturali e politiche che l’avevano resa possibile. Per la creazione di un’utopia della realtà capace sempre di fare i conti con la consapevolezza del fatto che «ogni spazio di utopia è un attimo nel quale l’incontro con l’altro si realizza ma poi siamo, subito dopo, attraversati da tutte le determinazioni» che ci riportano ad un nuovo presente a cui dobbiamo necessariamente, contestualmente e politicamente, rispondere.

Ed è proprio del presente che Franco Rotelli suggerisce una visione alternativa, oltreoceano. Guardando oggi al Brasile possiamo raccogliere in presa diretta il processo di una rivoluzione socio-culturale che attraverso una densa relazione tra soggetti professionali profondamente differenti sta «reinventando una vita che era impoverita». È quindi nella cooperazione delle realtà, nello scambio dei saperi, nel prendersi del tempo per recuperare «ore di intelligenza» che è possibile non solo pensare un mondo differente, ma cominciare a farlo.

Le giornate del 22, 23 e 24 febbraio a Siena sono state un piccolo banco di prova in cui volti, soggetti, tecnici del sapere pratico e professionisti di diverse discipline si sono confrontati sul punto d’intersezione tra due tempi e due luoghi: il manicomio ieri e i centri di salute mentale oggi, la salute mentale a Siena e la salute mentale in Italia. Il Collettivo di Antropologia ha cercato di riunire in sPAZZI, accanto alla storia, ai volti e ai luoghi del manicomio e della sua fine, una matassa di diversi linguaggi narrativi che restituisse, assieme alle parole, la complessità di una riflessione culturale e politica che senza l’arte non può mai compiersi del tutto. Dalla fotografia al cinema, dalla musica al teatro. Speriamo che Siena abbia trovato in questo intreccio un contributo per almeno «un’ora di intelligenza».

Da “Il Lavoro Culturale”. Di seguito il link del sito dove trovare l’audio delle interviste a Franco Rotelli e Mariagrazia Giannichedda, raccolte al termine dell’incontro “sPAZZI. Dalla distruzione del manicomio alla costruzione dei diritti” tenuto a Siena il 22, 23 e 24 febbraio 2011:

 

 

APPROFONDIMENTO

 

FORUM MALATTIA MENTALE

 

Continua la mobilitazione per chiudere gli ospedali psichiatrici. Queste strutture rappresentano un vero e proprio oltraggio alla coscienza civile del nostro Paese, per le condizioni aberranti in cui versano 1.300 nostri concittadini, 300 dei quali potrebbero uscirne fin da ora.

 

NUOVO EFFETÀ

“organo di informazione e strumento di dialogo” dell’O.P.G. di Reggio Emilia, dicitura ripresa dalla versione precedente, Effatà. Abbiamo parlato infatti di ri-nascita: la prima esperienza giornalistica di questo O.P.G. risale al 1992, anno in cui il cappellano don Daniele Simonazzi ebbe l’idea di dare un’opportunità di espressione a chi stava dentro. La redazione fu presto presa in mano da Roberto Raviola, a cui Effatà deve tantissimo e che ci sentiamo di ringraziare per averci in un certo senso “passato il testimone”, oltre che per averci “dato le dritte” di cui avevamo bisogno. Oggi la redazione è tutta nuova, e la caratteristica principale del giornalino vuole essere, recuperando in toto i principi che già sostenevano quello passato, quella di dare voce a chi è recluso, di “abbattere i muri” per dare la possibilità a tutti i ragazzi che vivono internati di esprimere liberamente e senza censura i loro pensieri dalla profondità di una cella, far sì che siano loro a scrivere e manifestarsi spontaneamente e volontariamente senza nessun tipo di imposizione.