Piero Angela
non dice la verità
forse è lui il vero complottista!
(a cura di Claudio Prandini)
Piero Angela, il pinocchio del Nuovo Ordine Mondiale?
INTRODUZIONE
Piero Angela,
Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana (26 maggio
2004), Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte (2 marzo 1999),
Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana (30 maggio 2001).
Giornalista, ex conduttore TG1 e TG2. Fondatore del CICAP, il Comitato Italiano
per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale, nato per promuovere un
atteggiamento di spirito critico, ma accusato di integralismo scientistico.
Spirito critico non significa criticare nel senso popolare del termine.
Vuol dire avviare una dialettica di confronto e di verifica avulsa da
pregiudizi. A Piero Papera, conduttore di SuperQuack a Paperopoli, questa
definizione interessa fino a un certo punto. Precisamente, fino a quando non si
pestano i piedi all'establishment della corte di scienziati, certificati con
marca da bollo, dotti, medici, sapienti e politici. (....)
In un eccesso
forse di disinvoltura, Piero Angela deve essersi dimenticato che l’era in cui si
poteva andare in TV a raccontare impunemente le bugie è finita. Nella puntata
del 30 luglio 2009 di Superquark, infatti, Angela ha infilato una collana di
falsità talmente grossolane da poter essere sbugiardate – come vedremo – con
facilità estrema da chiunque.
Non contento, Angela ha condito la sua puntata, dedicata alle “Teorie del
complotto”, con il più ritrito e bieco arsenale del debunking internazionale,
rendendola un’occasione irrinunciabile per denunciare una volta di più il metodo
di lavoro di questi finti paladini della verità.
Va infatti segnalato che il CICAP, dopo “aver sconfitto maghi e indovini”, ha
ufficialmente indicato nel “complottismo mondiale” il prossimo nemico da
battere.
Ho quindi sfidato Piero Angela ad un aperto confronto su qualunque argomento
relativo all'11 settembre, anche a nome di tutti coloro che sono afflitti da
questo strano morbo. In questo modo potrà finalmente dimostrare al mondo che i
complotti non esistono (Fonte web
- Massimo Mazzucco).
Si consiglia vivamente di vedere questo video
Piero Angela non dice la verità from J3njy on Vimeo.
La sindrome del complotto
Fonte web - Raffaele Giovannelli
Il 30 luglio Piero Angela in una sua
trasmissione di divulgazione scientifica (super Quark) introdusse distrattamente
un pezzo che trattava di una presunta mania del complotto che imperversa in
tutto il mondo industrializzato da alcuni decenni. Piero Angela ha introdotto
l’argomento come se si trattasse di una delle tante deviazioni ideologiche che
affliggono il mondo occidentale. Nel pezzo veniva fatta una succinta analisi
sociologica, che concludeva dicendo che chi presta fede alle teorie dei
complotti, che immancabilmente sarebbero dietro i principali avvenimenti della
nostra era, appartiene a ben determinate categorie sociali, come disadattati per
varie cause, frustrati cronici od occasionali. Vengono citati i fatti più
importanti che hanno dato origine alle teorie dei complotti più diffusi
radicati.
Tra questi viene citato l’assassino di J. F. Kennedy, che secondo i complottisti
non sarebbe stato ucciso da Oswald con il suo «miracoloso» fucile Carcano, come
stabilito dalla commissione Warren, ma colpito da un fucile a pompa per opera di
agenti della CIA. Per amore della cronaca si deve dire che l’assassinio di
Kennedy è stato seguito da una autentica strage. Oswald venne ucciso alla sua
apparizione in pubblico da un tale Ruby, amico della polizia locale. Ruby in
carcere venne fatto dormire a sua insaputa su materiale radioattivo che ne
provocò la morte prima che arrivasse al processo. Quasi tutti i testimoni
trovarono la morte per diverse cause così che sull’accaduto non fu possibile
istruire un processo. Si parla di alcune centinaia di persone, una specie di
rito come era consuetudine presso certi popoli che onoravano la morte di un re
facendolo accompagnare nell’oltretomba da uno stuolo di amici, mogli, concubine
ed anche cavalli. Ciò che è accaduto attorno e dopo la morte di Kennedy
appartiene alla categoria dei fatti storici, fatti che obbiettivamente possono
alimentare il sospetto legittimo che dietro quella morte ci sia ben altro che un
povero psicopatico come Lee Oswald.
Tutti gli avvenimenti tragici che hanno influito sulle decisioni degli
statunitensi non sono stati esaminati in un tribunale. Quindi esistono molte
ragioni che fanno pensare che la storia della nostra era, in particolare la
storia scritta dagli USA, non sia veritiera, almeno non veritiera come la storia
di ere precedenti. Ad esempio la storia romana ci ha raccontato in dettaglio la
vita e le opere dell’imperatore Nerone; di lui sappiamo tutto mentre della
storia attuale abbiamo solo un cumulo di notizie che sembrano raccontate apposta
per mascherare la realtà. Come si dirà più avanti, gli Stati Uniti fecero guerra
alla Spagna dopo che una loro nave, in visita nel porto dell’Avana a Cuba, venne
fatta oggetto di un attentato che uccise alcuni marinai americani. Dopo anni gli
Stati Uniti riconobbero che l’attentato era opera loro e non della Spagna.
Quanto all’assassinio di Kennedy recentemente è venuta fuori la verità. Blondet
in un suo articolo (1) riferisce i particolari del complotto. Il vicepresidente
Lyndon Johnson era il principale personaggio del gruppo dei congiurati.
Sono quarant’anni che i «grandi media» trattano da visionari complottisti tutti
coloro che non credevano alla versione ufficiale di quel lontano attentato: che
un «assassino solitario» di nome Oswald avesse ucciso il presidente. Ora,
quarant’anni dopo, nell’anniversario dell’assassinio, viene fuori la verità. La
dice la stessa amante di Johnson, Madeleine Duncan Brown (2). La donna è morta
nel 2002, il 22 giugno; ma il suo racconto emerge da una video-intervista di 80
minuti, che le fece un ricercatore indipendente di nome Robert Gaylon Ross.
La Brown aveva raccontato la sua
relazione con Jonshon già dagli anni ‘80; ma - stranamente - nessun grande mezzo
di comunicazione l’aveva mai intervistata a fondo su quella notte a Dallas.
Lucida, senza alcun odio per il suo antico amante, oggettiva, la Brown racconta
nel video che il piano per uccidere Kennedy cominciò a prendere forma nel 1960,
già durante la convenzione democratica dove il partito decise di candidare
Kennedy alla presidenza, con Johnson come vicepresidente.
Fu H. L. Hunt, un miliardario texano del petrolio ad imporre Johnson, come
contrappeso al candidato di quella che i maggiorenti texani chiamavano con
dispregio «mafia cattolico-irlandese», ossia la famiglia dei Kennedy. La Brown
ricorda nel video che camminava a fianco di H.L. Hunt a Dallas mentre costui
ricordava il braccio di ferro con Joe Kennedy (il padre del clan) che era
riuscito a imporre il figlio: «Abbiamo perso una battaglia, ma vinceremo la
guerra», disse allora Hunt.
Il giorno dell’attentato, tre anni dopo, Hunt disse: «Ecco, abbiamo vinto la
guerra». Per la Brown, il regista dell’esecuzione era appunto Hunt.
«Avevano quel lodge fuori Dallas, si incontravano lì», dice: «Lui sceglieva
gente diversa che poteva fare certe cose per lui, e sono sicura che questo
cominciò due anni prima dell’assassinio. E’ stato un delitto del tutto politico,
e Hunt lo controllava». Una delle persone che facevano «le cose per Hunt» era
Jack Ruby, tenutario di casinò, di bische clandestine, fornitore di ragazze
allegre e di altri servizi occulti ai maggiorenti, non esclusi omicidi a
contratto; l’uomo che il 24 novembre sparò ad Oswald sotto alle telecamere del
mondo.
Rievoca la Brown: «Giocavamo al poker al Carousel Club (il night di Ruby) e Jack
Ruby arrivò e disse: Sapete che cosa è questo? Guardai, ed era (la mappa del
percorso) della sfilata di auto… mi colpì che sapesse dove sarebbe passato il
presidente… allora pensavo che fossero intoccabili». La donna si riferisce
spesso a un «8F group» per indicare il gruppo di individui che gravitava attorno
a Johnson e ad Hunt. Ne facevano parte petrolieri texani, giudici e Edgar Hoover,
il direttore dell’FBI.
Lyndon Johnson taking the oath of office on Air Force Once following the
assassination of John Kennedy, Dallas, Texas, November 22, 1963.
La sera del 21 novembre ci fu un party a Dallas, nella magione di Clint
Murchison, un altro miliardario con buoni agganci con la famiglia mafiosa dei
Genovese; Hoover era alla festa, e c’era anche Jack Ruby. La Brown era presente,
e ricorda parecchi nomi dei partecipanti. C’era John McCloy, presidente del
Council on Foreign Relations, della Chase Manhattan Bank, intimo dei
Rockefeller, al tempo consigliere politico di Kennedy. C’era George Brown, della
Brown & Root, grande impresa multinazionale di costruzioni, poi divenuta la
Kellogg, Brown & Root, agenzia di infrastrutture che fornisce anche mercenari ed
è stata assorbita dalla Halliburton. C’era Clyde Tolson vicedirettore dell’FBI.
C’era Richard Nixon. C’erano numerosi pezzi grossi della mafia, e una quantità
di importanti giornalisti di giornali e TV. La festa cominciò verso le 22, e gli
ospiti manifestarono una certa sorpresa quando arrivò Lyndon Johnson, il
vicepresidente, direttamente da Houston. Subito McCloy convocò una riunione a
porte chiuse con i più importanti dei presenti.
«Lyndon non restò a lungo nella sala della riunione», racconta la sua amante, «e
quando uscì mi afferrò per il braccio e mi disse: ‘Dopodomani quei figli di
puttana (SOB, sons of a bitch) non mi daranno più guai’».
«Se
non fosse avvenuto l’assassinio, probabilmente Lyndon Johnson sarebbe finito in
galera», rievoca Madeleine Duncan Brown. Perché, racconta, stavano venendo fuori
particolari scottanti sulle tangenti che il vicepresidente prendeva per certi
programmi agricoli. C’erano molti che erano disposti a testimoniare contro di
lui; stranamente poi questi testimoni finirono male. Alcuni furono implicati in
scandali omosessuali. Altri si suicidarono, uno di questi sparandosi alla testa
cinque colpi (difficile)!Anche la Brown sostiene di essere stata «avvertita».
Suo figlio, il bambino illegittimo che aveva avuto da Johnson, dice, scomparve
insieme alla baby sitter. A quel punto la donna ritenne che sarebbe stata più
sicura se avesse reso pubblico quel che sapeva della storia. Scoprì che i media
non erano interessati. Eppure la versione della Brown è apparsa in un libro («Blood,
power and money - How LBJ killed JFK»), scritto da una personalità alquanto
difficile da screditare come complottista visionario: Barry McClellan, padre di
Scott McClellan, il portavoce della Casa Bianca all’epoca dei Kennedy. Anche
Robert Gaylon Ross, l’uomo che ha intervistato la Brown e ne ha ricavato il
video-confessione, non ha l’aria di un visionario assetato di pubblicità.
Ingegnere texano, è stato ufficiale della Army Security Agency, il ramo militare
della NSA (National Security Agency) con compiti di decrittaggio dei codici
nemici.
Quarant’anni dopo: la verità sul complotto che uccise Kennedy emerge quando
ormai non ha alcun valore politico, non può più cambiare le cose, è buona al più
per i libri di storia. Nel 1963 non esisteva internet: è la sola cosa che oggi
può fare la differenza, far sapere la verità orrenda quando ancora può servire.
Pearl Harbour sorpresa o atto
previsto?
Una corrente di storici (3) ritiene che l’attacco a Pearl Harbor non solo
avrebbe potuto essere validamente contrastato ma che addirittura sia stato
favorito dalle massime autorità americane, specificatamente per volontà e
determinazione dell’allora presidente degli Stati Uniti d’America Franklin
Delano Roosevelt. Secondo questa teoria il Giappone sarebbe stato
deliberatamente provocato alla guerra attraverso misure restrittive quali
l’embargo petrolifero e quello di altre materie essenziali all’economia
giapponese e successivamente la dislocazione delle navi da guerra americane
nelle Hawai sarebbe stata elaborata in modo da costituire un’esca attraente per
il bellicoso governo giapponese. Inoltre i segnali evidenti del movimento della
flotta del Sol Levante destinata a portare gli aerei che avrebbero attaccato
Pearl Harbor sarebbero stati deliberatamente ignorati dalla marina americana per
ordini dall’alto.
Tra marzo e luglio 1941 le navi americane si avvicinarono diverse volte in
assetto di guerra alle acque territoriali giapponesi. Il 31 luglio 1941 il
ministero della Marina giapponese consegnò all’ambasciatore negli Stati Uniti
una lettera formale di protesta (4). Tutto questo avrebbe avuto un solo scopo:
invitare il Giappone a vibrare un colpo di forte rilevanza militare (e politica)
contro gli Stati Uniti in modo tale che l’opinione pubblica americana (e quella
dei suoi rappresentanti al Congresso) passasse da una larga maggioranza
anti-interventista, rispetto alla guerra che si stava combattendo in Europa, ad
una opinione maggioritaria interventista (5). Franklin Delano Roosevelt infatti
aveva capito che il popolo da lui governato non si accontentava
dell’indignazione contro Hitler per il proditorio attacco alla Polonia e di
quella destata dal comportamento aggressivo dei giapponesi in Cina e negli altri
Paesi asiatici, per accettare l’ingresso in guerra degli Stati Uniti a fianco
d’Inghilterra e Francia contro le potenze dell’Asse, ma che solo lo shock di un
attacco diretto al proprio Paese avrebbe modificato decisamente l’atteggiamento
degli americani verso la guerra. Roosevelt riteneva infatti che un’eventuale
vittoria delle potenze dell’Asse in Europa (Germania ed Italia) ed in Asia
(Giappone) (6), che nella situazione di allora pareva tutt’altro che
improbabile, avrebbe condotto successivamente ed inevitabilmente ad una guerra
fra queste ultime e gli Stati Uniti d'America, i quali in quel momento si
sarebbero trovati in forti condizioni d’inferiorità militare. A Roosevelt non
sfuggivano inoltre i pericoli derivanti dall’ambiguo atteggiamento della Spagna
di Francisco Franco, la cui neutralità si sarebbe presumibilmente mutata in
alleanza con l’Asse in caso di vittoria di quest’ultima sull’Inghilterra, e le
simpatie di cui godeva la Germania di Hitler in ampi strati della popolazione
sudamericana.
Test Nucleari: giocare col
plutonio dal testo di Paolo Cortesi (7)
Per quanto riguarda le armi nucleari le menzogne si sono sprecate, anche se in
questo caso in tutto il mondo la gente non le ha credute. Tra il 1945 ed il
1993, le cinque potenze nucleari dichiarate (USA, URSS, Gran Bretagna, Francia e
Cina - di solito viene omessa Israele che da molti anni è una potenza nucleare)
fecero esplodere 2.031 testate sperimentali. I test avvennero in cima a torri,
su chiatte, sospesi a palloni aerostatici, sganciati da aerei, lanciati da razzi
fino alla quota di 480 chilometri d’altezza; sott’acqua a 60 metri di
profondità; in pozzi e sotto terra, fino a più di 240 metri sotto il suolo.
Circa il 25% dei test fu realizzato nell’atmosfera. I 511 test atmosferici
raggiunsero una potenza totale di 438 megatoni, pari a 29.000 bombe come quelle
di Hiroshima. Più di metà del valore complessivo dei megatoni fu concentrato in
un periodo di sedici mesi, da settembre 1961 al dicembre 1962. In totale, gli
americani seguirono (1954/1993) 215 test nell’atmosfera e 812 sottoterra; i
russi rispettivamente 207 e 508; la Gran Bretagna 21 e 24; la Francia 45 e 147
(tra cui quelli nell’oceano); la Cina 23 e 16. Alla fine del 1958, gli
esperimenti nucleari avevano prodotto sul pianeta circa 65 chili di stronzio 90,
con una radioattività totale di 8,5 milioni di curie; la radioattività del cesio
137 alla stessa epoca ammontava a 15 milioni di curie. Il fall out degli
esperimenti, tutti senza eccezione, in località nei pressi dell’equatore si sono
distribuiti uniformemente sopra l’intero globo. Tra il 1952 ed il 1957, gli USA
eseguirono 90 test nel poligono nucleare del deserto del Nevada. Quelle
esplosioni rilasciarono una quantità di iodio 131 superiore di dieci volte a
quella che si sprigionò dalla centrale di Cernobyl. Gli stessi test esposero
mediamente ogni cittadino statunitense ad una radiazione pari a 2 rad; sono solo
0,24 rad annuali quelli provenienti dalla radioattività naturale. Alcuni medici
hanno calcolato che circa 10.000 tumori alla tiroide saranno causati da questa
pioggia contaminante invisibile. Le esplosioni nucleari diffondono nell’aria
atomi di plutonio 239 ed uranio 235, due materie che sono la cosa terrena più
vicina alla dannazione eterna. Il plutonio è centomila volte più velenoso del
cianuro di potassio, un solo grammo disperso nell’ambiente spegne ogni forma di
vita in un’area di 500 metri quadri; un milionesimo di grammo uccide un uomo. I
periodi di dimezzamento del plutonio 239 e dell’uranio 235 sono rispettivamente
di 24.400 anni e 720 milioni di anni: il più breve di questi tempi supera
ab-bondantemente tutta la durata della civiltà umana, dalle sue origini remote
ad oggi.
Due premi Nobel a confronto:
Müller vs. Teller
In questo desolante panorama di demenza si levano ogni tanto voci, purtroppo
isolate, che denunciano chiaramente tutta la micidiale pericolosità di
esperimenti i quali in realtà non sono altro che simulacri di quella guerra che
le superpotenze non potranno mai combattere senza sterminarsi a vicenda. Hermann
Müller, premio Nobel 1946 per la medicina, ha reso noti i gravissimi danni
genetici causati dalle radiazioni provenienti dalle esplosioni sperimentali. Per
questa sua critica, il professor Müller ha dovuto affrontare la censura ed il
sabotaggio da parte della Commissione per l’Energia Atomica (AEC), che gli vietò
di presentare la sua relazione alla Conferenza di Ginevra per la pace (1955).
Questi ostacoli però non gli hanno impedito di far conoscere al pubblico la
verità sui test nucleari: «Qualsiasi dose di radiazioni è geneticamente
indesiderabile - scriveva Müller in quegli anni - Gli esperimenti atomici in
corso provocheranno certamente un danno alle generazioni future. Non solo: ogni
radiazione assorbita aumenta le probabilità di un individuo di morire in
anticipo sul termine assegnategli dalla Natura. In questo senso si può affermare
che le esplosioni sperimentali hanno danneggiato sinora almeno trecentomila
persone. La percentuale, se riferita a tutta la popolazione mondiale, è piccola,
ma la cifra è enorme. Quanto al danno genetico, non è necessario pensare a
mostri con due teste: è certo, però, che nei prossimi duemila anni nasceranno
in-dividui più deboli, meno longevi, affetti da deformità più o meno accentuate,
da malattie in parte nuove. Riprendere gli esperimenti nucleari è equivalso a
sparare a raffica alle generazioni future».
Queste coraggiose ed oneste dichiarazioni venivano rilasciate nel periodo in cui
il Servizio di Sanità Pubblica degli USA garantiva che il fall out era «nei
limiti della sicurezza» ed Edward Teller amava ripetere che la ricaduta di
pulviscolo radioattivo esponeva allo stesso danno biologico causato da una
sigaretta fumata ogni due mesi. Nel 1963, l’incalzante aumento della
radioattività costrinse le potenze nucleari al trattato Limited Test Ban (LTBT)
che proibiva le esplosioni sperimentali nell’atmosfera, negli oceani e nello
spazio cosmico, limitandole al sottosuolo, per ridurre il danno planetario del
fall out di scorie radioattive. …Il LTBT fece scatenare una serie apocalittica
di esplosioni sotterranee sempre più potenti e sempre più numerose. Fino al
1983, i test nucleari seguirono il ritmo forsennato di uno alla settimana. Nel
solo 1968, gli USA eseguirono ben 55 esplosioni sotterranee, i russi 18.
Delirio tecnocratico
Si tratta di storia recente, è solo l’altro ieri, eppure pochissimi sembrano
ricordarsene, come se l’immaginario collettivo volesse rimuovere un terrore
troppo opprimente. La storia dell’umanità ha conosciuto ombre e orrori
agghiaccianti, ma la storia dei test nucleari non ha neppure la cupa grandezza
di un titanismo diabolico, ma piuttosto è una lunga parentesi di imbecillità
generale, di cretineria feroce, qualcosa di paragonabile alla crudeltà laboriosa
di un pazzo assassino. Gli scienziati giocavano alle divinità, si sentivano
onnipotenti e fremevano d’orgoglio contemplando le colossali bolle di fuoco nei
cui vortici, a dieci milioni di gradi, si plasmava la materia come nel caos
primigenio. A spese dell’intero genere umano, su cui piovevano tonnellate di
scorie radioattive, i tecnocrati potevano far scoppiare a dozzine le loro bombe,
disponendo di finanziamenti statali enormi. Alla fine del 1955, gli USA
investivano 12.000 milioni di dollari nell’industria atomica, che impegnava
130.000 tecnici ed aveva 10 stabilimenti per la produzione di uranio
arricchito13. Per tentare di dare una parvenza di umanità a questo abisso di
follia, fu diffusa e imposta tramite una propaganda martellante la vergognosa
menzogna dell’atomo di pace. Si diceva che l’energia nucleare sarebbe stato un
potentissimo alleato dell’uomo, uno strumento benefico di straordinaria
efficacia per domare la natura e migliorare la vita. L’uso militare – si diceva
- era solo un aspetto dolorosamente necessario, tragicamente inevitabile (ma
perché?) di quella che era «una meravigliosa risorsa costituente patrimonio
comune dell’umanità»; «una vera e propria rivoluzione scientifica e industriale,
non meno profonda di quella che si determinò nell’Ottocento, forse capace di
liberare l’uomo dal bisogno».
«Oltre che per la produzione di forza motrice in quantità sufficiente per tutte
le esigenze e ad un costo irrisorio, l’utilizzazione dell’energia atomica si
dimostra ancora più promettente per fugare lo spettro della fame». Ciascuna
delle affermazione precedenti racchiuse tra virgolette è falsa. E nessuna delle
previsioni citate si è avverata. Questa visione pacifica, persino idilliaca,
dell’energia atomica è irreale, lo è sempre stata e gli addetti ai lavori lo
hanno sempre saputo, anche se il solo supporto era un’eresia, l’affronto al
dogma della bontà sublime della scienza tecnocratica. Troppi interessi legavano
fin dagli inizi delle ricerche atomiche gli scienziati al potere. Di solito, la
costruzione della prima bomba atomica è presentata come la conseguenza di un uso
perverso della scienza. E’ ormai popolare la leggenda di una amara rassegnazione
degli scienziati del Progetto Manhattan alle tragiche ragioni belliche: per
mettere fine alla guerra, fu inevitabile usare la bomba A. Un necessario fine
giustificò un terribile mezzo. Tutto ciò è falso: la bomba atomica fu
entusiasticamente, caparbiamente voluta dai fisici atomici. Nel bei mezzo della
discussione se impiegare o no un ordigno che, in un attimo, avrebbe spazzato via
migliaia di persone, quel brav’uomo mite e sorridente di Enrico Fermi sbottò
infastidito: «Lasciatemi in pace coi vostri rimorsi di coscienza! E’ una fisica
così bella!».
Test atomici e terremoti
II 23 settembre 1969, la Cina fece esplodere una bomba termonucleare sotterranea
in un poligono nella parte occidentale del Paese. Il 28 settembre, un terremoto
colpì lo stato di Vittoria,nell’Australia sud-orientale. Le scosse furono
accompagnate da una serie di boati e da apparizioni di luci verdi nel cielo. Il
28 e 30 maggio 1970 vi furono test nucleari, ed il 31 maggio la città di
Chimbote fu devastata da un terremoto che uccise 60.000 persone. Il 27 luglio
1976, gli USA fecero esplodere una carica da 20-150 chilotoni nel sottosuolo del
Nevada. Il giorno seguente, la città di Tang-shan (Cina) e 800.000 persone
furono distrutte da un sisma che fu valutato di magnitudine 8,2 nella scala
Richter. Il 13 e 15 settembre avvennero test nucleari sotterranei, il 16
settembre un terremoto (7,7 Richter) rase al suolo la città iraniana di Tabas,
con 25.000 morti. Il 5 novembre 1988 la Francia realizzò nelle acque dell’atollo
di Mururoa un’esplosione nucleare di 50 chilotoni. Il giorno successivo, un
violento terremoto (7,6 Richter) sconvolse la provincia cinese dello Yunnan,
facendo circa 600 vittime. Il 24 novembre dello stesso anno, la Francia eseguì
un’identica esplosione. Un terremoto (6 Richter) colpì il Canada e gli Stati
Uniti del Nord-Est il giorno seguente; mentre il 26 novembre ancora una volta
una provincia cinese, Qin-ghai, fu scossa da un sisma. E ancora: il 4 dicembre
1988, l’URSS fece detonare una bomba nucleare di potenza stimata fra i 20 ed i
150 chilotoni in una base del circolo polare artico. Il 7 dicembre, l’Armenia fu
squassata da un terremoto (6,9 Richter) che uccise 60.000 persone e lasciò mezzo
milione di senzatetto. Il 22 gennaio 1989, una esplosione sperimentale (20-150
chilotoni) fu effettuata nel Kazakistan nordorientale; il giorno successivo il
terremoto nel Tajikistan sovietico fece più di 200 morti. Il 23 giugno 1992, gli
americani fecero scoppiare l’ennesima bomba nucleare sotterranea; il 28 giugno,
due terremoti di insolita violenza (7,4 e 6,5 Richter) colpirono il sud della
California.
Curiose coincidenze?
Per molti sismologi la risposta è sicuramente sì. Riley Geary, del Caltech,
dichiara che i dati non rivelano un legame tra esplosioni e sismi, e per
Robert-Carmichael, geologo della lowa University, l’ipotesi di un nesso causale
tra bombe sotterranee e terremoti, è «una frode scientifica, paragonabile alla
magia o all’astrologia». Eppure altri dati, del tutto scientifici, indicano che
questo legame è molto più che una fantasia o una superstizione. Il professor
Gary T. Whiteford, docente di geografia all’Università di Brunswick in Canada,
ha scoperto che i terremoti con magnitudine da 6 a 6,5 Richter sono più che
raddoppiati da quando hanno avuto inizio i test nucleari sotterranei. Infatti,
tali sismi furono 1.164 fra il 1900 ed il 1949; sono saliti a 2.844 tra il 1950
ed il 1988. Un significativo aumento è registrato anche per i sommovimenti
tellurici di magnitudine compresa tra 6,5 e 7 Richter: furono 1.110 nel periodo
1900-1949; se ne contarono 1.465 tra il 1950 ed il 1988. Tali incrementi si sono
verificati in tutte le zone particolarmente sismiche del globo.
In una visione globale si può rilevare che, nei primi cinquanta anni del XX
secolo, sono stati registrati 3,419 terremoti di magnitudine uguale o superiore
a 6 Richter, con una media di 68
all’anno. Dal 1950 al 1989, i terremoti in questione sono stati 4.963, con una
media di 127 all’anno: il valore è quasi raddoppiato. Il professor Whiteford ha
compiuto inquietanti scoperte a proposito dei cosiddetti «terremoti assassini»
(killer quakes), cioè sismi che provocano almeno 1.000 vittime. «Nel corso di 37
anni di sperimentazione nucleare, venti dei trentadue terremoti assassini,
ovvero il 62,5%, avvennero lo stesso giorno o entro quattro giorni dal test».
Dati allarmanti provengono anche da uno studio di due scienziati giapponesi,
Shigeyoshi Matsumae e Yoshio Kato, della Tokai University di Tokio: «Fenomeni
anomali meteorologici, terremoti e la variazione dell’asse terrestre sono
notevolmente correlati ai test atmosferici e sotterranei. Essi hanno causato un
aumento della temperatura dell’esosfera terrestre da 100 a 150 gradi, che cresce
in modo abnorme immediatamente dopo un test nucleare. Ad esempio, è stato
scoperto che la temperatura assoluta salì da 70 ad 80 gradi dopo un test
sovietico che fu rilevato dalla stazione d’osservazione da Uppsala, il 23 agosto
1975. Similmente, un continuo e drastico rialzo della temperatura fu osservato
in occasione di una fitta serie di sei esplosioni sperimentali avvenute tra il
18 ed il 29 ottobre 1975».
E concludono: «La temperatura dell’atmosfera è cambiata dai test nucleari, un
cambiamento che neppure il sole potrebbe produrre. Si può facilmente immaginare
quali effetti abbia tutto ciò sulle condizioni meteorologiche della terra».
Ovviamente, il potere negò sempre che le esplosioni atmosferiche potessero avere
simili conseguenze: «Due scienziati dell’Ufficio Meteorologico di Washington
hanno portato a termine una loro inchiesta sugli effetti delle esplosioni delle
bombe A sull’evoluzione nel tempo. Essi escludono che le particelle radioattive
liberate dall’esplosione possano comportarsi, nella libera atmosfera, come
nuclei di condensazione, e quindi non si può avere un aumento della piovosità.
Essi non ammettono minimamente che i residui delle esplosioni proiettati
nell’alta atmosfera possano portare ad una diminuzione d’intensità nella
radiazione solare e tanto meno che gli scoppi possano influenzare dinamicamente
l’oceano d’aria».
E’ fin troppo facile supporre che il potere negherebbe ogni credibilità ad altre
gravissime conclusioni cui giunge lo studio di Matsumae e Kato. Tipo: «Le
esplosioni nucleari spostano l’asse di rotazione terrestre».
I due ricercatori nipponici notano infatti che test nucleari di almeno 150
chilotoni fanno slittare sensibilmente la posizione dell’asse polare. Questo
spostamento provoca una variazione nella durata della rotazione del nostro
pianeta, che è nell’ordine del centesimo di secondo, ma rivela come l’intervento
umano possa interferire con realtà vecchie di milioni di anni e di dimensione
planetaria.
Le osservazioni scientifiche di ricercatori indipendenti dimostrano chiaramente
che le esplosioni nucleari sperimentali hanno causato danni rilevanti
all’equilibrio della struttura stessa del nostro pianeta. Diversi scienziati,
tuttavia, lo escludono, soprattutto per il motivo che le energie sviluppate
dagli scoppi termonucleari sarebbero troppo esigue e troppo brevi. Eppure i
fatti sono ben evidenti.
Come si può negare un legame causale quando, anche all’analisi statistica, esso
è più che verosimile? Come interpretare questa miopia scientifica?
Prima di tutto, occorre non tenere in alcun conto le opinioni di chi ha
interesse a negare i pericoli nucleari. Non si può prestare nessuna fiducia, ad
esempio, a quei due scienziati dell’Ufficio Meteorologico di Washington citati
poc’anzi, perché essi lavoravano per lo stesso governo che voleva a tutti i
costi i test nucleari. Essi non esponevano un parere motivato da ricerche
scientifiche libere, ma servivano a tranquillizzare l’opinione pubblica.
L’ubriacatura atomica, lo stronzio 90 e
la biotecnologia
Solo oggi, a distanza di quasi mezzo secolo, possiamo accedere ad una quantità
di documenti prima top-secret che mostravano tutta la allucinante pericolosità
dei cosiddetti esperimenti. Ma come spiegare le teorie rassicuranti di
scienziati non governativi? Credo che in questi casi si debba tener presente la
formazione accademica di questi studiosi. La loro cultura è sempre stata
tecnocratica. Essi sono stati educati nella fede ad alcuni assiomi tecnocratici:
la scienza e la tecnologia sono benefiche, la ricerca scientifica giustifica e
deve ammettere ogni esperimento, la santa causa del progresso assolve ogni
peccato e merita ogni sacrificio. Per questi «tecnocrati in buona fede», gli
allarmi degli scienziati ambientalisti sono una snobistica forma di
oscurantismo, che esagera, demonizza, fraintende, enfatizza, sparge sfiducia e
discredito. Gli scienziati tecnocrati non hanno categorie mentali capaci di
considerare, ad esempio, la sottomissione alla grandezza del pianeta di cui sono
ospiti. Per costoro, le astrazioni teoriche del calcolo sono altrettanti
lasciapassare per le avventure più rischiose, per le decisioni più arbitrarie:
accadde cinquantanni fa con lubriacatura atomica; sta accadendo oggi con il
nuovo gingillo tecnocratico, la biotecnologia. Gli scienziati di Los Alamos che
giocavano con le bombe atomiche negli anni Quaranta avevano ideato una simpatica
espressione per definire il loro lavoro: stuzzicare la coda del dragone. Essi
erano consapevoli del mostruoso potere distruttivo che manipolavano, eppure
tutto questo non li atterriva; anzi ci scherzavano sopra, sicuri che la loro
scienza avrebbe tenuto a bada ogni dragone.
I risultati di questa superbia idiota sono gli orrori nucleari con cui tutti
devono convivere da decenni e per chissà quanto tempo ancora. I tecnocrati non
sanno vedere al di là delle loro teorie; non possono capire nulla che non sia
compreso nei loro libri. Come possono escludere certe conseguenze di certi
esperimenti, se in tutta la storia della terra non è mai successo quello che
essi vogliono fare? Come potevano garantire che lo stronzio 90, distribuito su
tutto il pianeta dalle esplosioni nucleari, «non poteva destare preoccupazioni»,
se lo stronzio 90 non esisteva sulla terra prima dei test. Se io mi portassi a
casa un animale sconosciuto, e aspettassi immobile di vedere se è mansueto o
feroce, sarei saggio o imbecille? Se mangiassi un fungo sconosciuto e aspettassi
tranquillo di morire avve-lenato o sopravvivere, sarei saggio o cretino? Questo
è stato, per decenni, il modulo di pensiero degli scienziati tecnocrati. E c’è
il serio timore che si continui così; anche per la biotecnologia.
L’11 settembre, una perfetta
demolizione, con opportuna scenografia, fatta, passare per un attentato
L’evento più ricco di dietrologia sarebbe il grande attentato dell’11 settembre.
Qui la presenza di internet ha reso possibile una imponente contro-informazione
che ha reso di pubblico dominio documenti ufficiali usciti da organi
governativi, documenti che presentano non poche contraddizioni con la versione
ufficiale degli avvenimenti.
Chi abbia seguito anche solo fuggevolmente le versioni «alternative» a quella
ufficiale, sui fatti dell’11 settembre 2001, sa già chi siano gli «israeliani
danzanti», ossia quello sconce figure che, contemplando a distanza il crollo
delle Twin Towers, ballavano di gioia, come se avessero ottenuto un successo
lungamente agognato. Sa che essi si erano fermati, con il loro furgone, prima
dell’arrivo dei due aerei dirottati che si sarebbero schiantati contro i
grattacieli. Sa anche come essi vennero rapidamente identificati e arrestati
dalle autorità di polizia e come, altrettanto rapidamente - e inspiegabilmente -
vennero liberati ed espulsi dagli Stati Uniti, mentre ogni responsabilità
dell’attentato ricadeva, attraverso i media, su Bin Laden ed Al-Qaida. Del
resto, non era stato lo stesso «sceicco del terrore» ad assumersi la paternità
dell’attacco alle Torri Gemelle e alla sede del Pentagono, compiacendosi per il
buon esito dell’operazione e per l’alto tributo di vite umane che gli «infedeli»
avevano dovuto pagare alla loro stessa politica anti-islamica e filo-sionista?
Tutto chiaro, dunque.
E’ vero, c’era la circostanza - assai imbarazzante - che il presidente George W.
Bush, che in quel momento era in visita a una scuola, aveva creato il sospetto
di essere informato dei fatti prima che accadessero, e che si era detto
sconvolto per aver visto in televisione lo spettacolo del crollo delle Due
Torri, quando ancora le televisioni americane non avevano mandato in onda quelle
immagini. Ma anche per questo, si disse, c’è una spiegazione, e molto semplice:
il presidente non si riferiva alla televisione pubblica, ma a un filmato che gli
era stato proiettato in privato, in anteprima, in una televisione a circuito
chiuso (ma la televisione pubblica non trasmetteva in diretta?).
C’è, tuttavia, ancora un altro particolare che non quadra, e che è sotto gli
occhi di tutti: il modo in cui sono crollati i due immensi grattacieli del World
Trade Center. Un crollo perfettamente verticale che si può ottenere solo con un
sistema di cariche esplosive perfettamente sincronizzate. Un modo che non ha
nulla a che fare con l’impatto di un aereo, per quanto di grosse dimensioni.
Molti esperti, in realtà, dubitano che un aereo avrebbe potuto far crollare
degli edifici di quelle dimensioni: li avrebbe semplicemente attraversati e, in
ogni caso, urtandoli a quell’altezza, non sarebbe stato in grado di far rovinare
l’intera costruzione, dal primo all’ultimo piano. La struttura delle due Torri
era stata progettata per resistere all’impatto con un aereo di linea. Una
protezione esterna composta da una cortina di pilastri d’acciaio, mentre la
struttura portante era all’interno ben protetta da una spessa imbottitura
d’amianto.
Si deve anche osservare che le cariche principali per la demolizioni si
sarebbero dovute piazzare all’interno dei due grattacieli e quindi il loro
scoppio non sarebbe stato visibile all’esterno. L’ente governativo NIST,
incaricato di svolgere un’indagine tecnica sul crollo, ha pubblicato una
perfetta simulazione numerica dell’impatto dei due aerei, che non avrebbero
intaccato la struttura portante centrale degli edifici. Ma non ha pubblicato una
simulazione del crollo dei tre grattacieli. Chi ha fatto le simulazioni afferma
che i grattacieli del WTC non sarebbero crollati neppure con il calore
sviluppato da un quantitativo dieci volte superiore di carburante.
La conferma che i crolli non si sono verificati per gli incendi si era già
avuta, del resto, nel corso di «normali» incidenti aerei: mai si era visto
qualcosa di simile a quanto avvenne l’11 settembre 2001, ossia un crollo
verticale, perfetto e totale. Un edificio delle dimensioni delle Torri Gemelle,
se crolla a causa di un impatto dall’esterno o di un incendio da questultimo
provocato, non implode verticalmente e non si sbriciola in modo «pulito», ma
semina rovine su un ampio raggio circostante.
Il minimo che si possa sospettare è che all’opinione pubblica sia stata tenuta
nascosta una bella fetta della verità. Perché? Forse perché l’Amministrazione
Bush aveva bisogno di un casus belli per scatenare la sua politica di forza a
livello planetario, creando attorno a sé un clima di legittimazione morale e di
avallo alla «legittima difesa»? Questa è una vecchia costante della politica
estera americana.
Nel 1898, quando scoppiò la guerra con la Spagna, fu l’esplosione della
corazzata Maine nel porto de L’Avana che - complice una formidabile campagna
stampa del gruppo Hearst - portò
l’interventismo e il nazionalismo statunitensi a livelli di autentico isterismo.
Nel 1917 fu la faccenda del Lusitania, affondato da un sommergibile tedesco; nel
1941, l’attacco proditorio dei Giapponesi a Pearl Harbour. Peccato che, in
entrambi i casi, gli americani fossero preventivamente a conoscenza di quanto
sarebbe accaduto: sia che il Lusitania sarebbe stato attaccato (la voce fu fatta
circolare, pubblicando un annuncio a pagamento su giornali americani, dallo
stesso ambasciatore tedesco a New York, proprio per dissuadere i cittadini
statunitensi dall’imbarcarvisi), sia che le forze aeronavali nipponiche
avrebbero sferrato il colpo sulla base della flotta americana nelle Isole
Hawaii.
E si potrebbe continuare: con l’incidente navale nel Golfo del Tonchino, ad
esempio, durante la guerra del Vietnam; con l’oscura vicenda delle mine
galleggianti nel Golfo Persico, al tempo della guerra fra Iran e Iraq; con le
fantomatiche ed inesistenti «armi di distruzione di massa» di Saddam Hussein…
Se, dunque, la risposta al «perché» non è poi tanto difficile da trovare, quella
alla domanda: «per coprire le responsabilità di chi» appare molto più difficile,
almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze. Che, nei fatti dell’11
settembre 2001, vi sia un coinvolgimento dei servizi segreti americani, appare
decisamente probabile. Impossibile spiegare, diversamente, la relativa facilità
con cui un gruppo di terroristi stranieri ha potuto agire nel cuore degli Stati
Uniti, durante mesi di preparazione, fino a colpire lo stesso Pentagono. Che vi
siano coinvolti anche altri servizi segreti, ufficialmente «amici» e «alleati»,
a cominciare dal Mossad - come, del resto, in alcuni casi eclatanti del
terrorismo che ha sconvolto l’Italia durante gli «anni di piombo», quando la
politica estera della Farnesina era dichiaratamente filo-araba e
filo-palestinese -, questo non è possibile dirlo con certezza, almeno
attualmente. Però è possibile e, forse, addirittura probabile. L’11 settembre
del 2001… un giorno che avrebbe cambiato molte cose, sulla scena della politica
internazionale.
Ecco perché la gente oggi ha tanto interesse nei complotti. La storia ufficiale
ha troppe contraddizioni ed è poco credibile. L’attuale storia incredibile è
dettata dagli Stati Uniti, che a partire dalla guerra di secessione, sono
governati dalle lobby, obbligate a mascherare il più possibile le loro azioni, a
volte ripugnanti, azioni che la pubblica opinione non sarebbe disposta ad
accettare. Il governo ufficiale è chiamato administration, una amministrazione
al servizio di chi esercita il vero potere. Così in tutto il mondo sono sempre
meno coloro che credono alla versione ufficiale dei fatti come vengono
presentati dalla vulgata statunitense.
Si possono trovare ragioni diverse per l’atteggiamento medio degli statunitensi.
Gli americani per tradizione covano un desiderio nascosto di rivincita contro
chi un giorno ha costretto loro, o un loro antenato, ad emigrare. Nell’America
latina le cose sono un po’ diverse perché la religione cattolica favorisce il
perdono e la creazione di un legame molto stretto con i nuovi luoghi con la
nascita di santuari e luoghi di culto. Credere nella trascendenza favorisce la
conservazione di un legame spirituale con le persone rimaste nei luoghi
d’origine. Per gli anglosassoni il desiderio di rivincita è legato al loro
attaccamento al denaro ed al potere. Gli anglosassoni hanno una credenza
«religiosa» molto vicina al denaro. Per essi il successo materiale è il segno
inequivocabile della benevolenza di Dio. Il desiderio di rivincita o di rivalsa
non si è attenuato con l’aver costruito una nuova patria come invece è avvenuto
per chi è emigrato nell’America latina. L’influenza dell’ebraismo, con la sua
carica di odio e di rivincita millenaria, si è sommata alla volontà di potere
della parte anglosassone prevalente negli Stati Uniti. Questa è la realtà delle
motivazioni che sono alla base della psicologia degli statunitensi. Per
conseguire la loro vendetta hanno scelto di mascherare i loro veri desideri.
Questo li ha portati a darsi una falsa identità, che si è propagata a tutti gli
aspetti della vita sociale e politica. Essi debbono disporre di un alto
patrimonio etico per poter affrontare con malcelato disprezzo e senso di
superiorità gli altri popoli. Quindi per procurarsi questo indispensabile
patrimonio etico hanno scelto di costruirsi un castello di falsità che non
possono mettere in discussione perché crollerebbe la loro immagine e la stima
che hanno di se stessi.
Per ridurre il rischio di essere sottoposti a verifiche gli Stati Uniti, dove
possono, hanno favorito la creazione di una umanità fatta di diseredati, senza
identità e senza memoria storica, perseguitati proprio dalle loro maledette
organizzazioni caritatevoli. La distruzione della memoria e delle tradizioni è
un caposaldo della loro politica nel mondo, incluse le stesse popolazioni degli
Stati Uniti.
Il retaggio vichingo
Ma a questo si deve aggiungere un antico retaggio, una tradizione radicata nel
DNA di molti anglosassoni: la loro anima vichinga. L’8 giugno del 793 i monaci
dell’isola di Lindisfarne (8), presso
la costa del Northumberland, vennero assaliti torturati e uccisi quasi tutti da
un gruppo di vichinghi arrivati dal mare. A Lindisfarne nel 635 i monaci di Jona,
dall’isola di san Colombano, avevano fondato un’abbazia. Dopo un secolo
Lindisfarne era diventato il centro della cultura monacale celtica, luogo di
fede, arte e dottrina, famoso per la scuola degli amanuensi, di cui siconserva
un Evangelario del 700, una delle più belle opere di scrittura del primo
medioevo. Stava nascendo il mondo creato dal cristianesimo, si stava realizzando
un modello di vita basato sulle promesse della nuova religione. Da qualche
secolo le legioni romani si erano ritirate ed al loro posto sembrava nascere una
nuova civiltà, un nuovo modo di produrre, un nuovo modo vivere in comunione con
Dio. Una stele porta scolpita la tragedia di Lindisfarne. Su un lato sono
rappresentati i monaci nelle loro attività operose e pacifiche, sul retro la
scena della strage. Tanta crudeltà poteva apparire immotivata. I monaci non
avrebbero opposto resistenza al furto di tutti i loro beni, inclusi i tesori
della chiesa. Invece i vichinghi distrussero tutto, compresa la biblioteca,
sgozzarono le bestie che non potevano portar via. Sarebbero passati molti anni
prima di poter compiere un’altra rapina.
In realtà i vichinghi volevano spargere il terrore, che avrebbe paralizzato le
loro vittime dissuadendole dall’opporre qualsiasi resistenza. Con ciò veniva
distrutta la speranza di creare un mondo senza la forza. Era l’inizio del
confronto tra l’utopia cristiana, un socialismo cristiano pacifico, e la rapina
con la violenza e la morte. I vichinghi erano spinti dall’individualismo, dalla
sete di potere e di morte. La conversione alla religione cristiana era stato
l’elemento vincente della politica verso i barbari. Ma con i vichinghi sarà più
difficile. Nell’estate del 911, Rollone (detto anche Hrolf o Rolf) che si era
installato nella regione attorno a Rouen, subisce una dura sconfitta
dall’esercito di Carlo il Semplice. Il re di Francia avanza la proposta di una
accordo che contempla la conversione al cristianesimo di Rollone. L’anno dopo
Rollone mantenne la promessa e si fece cristiano. Per ospitare stabilmente i
vichinghi venne fondato il ducato di Normandia, attuando una politica che era
stata adottata per molti secoli dall’impero romano. Ma il carattere distintivo
della civiltà vichinga fu la sua propensione a mentire per modificare la realtà
storica a proprio vantaggio. Per quasi due secoli mantenne una ostilità radicale
contro il cristianesimo, che nell’alto medioevo cercava di realizzare comunità
di credenti in cui esisteva una specie di comunismo dei beni.
La civiltà vichinga fu quindi anche una forza politica contro la nascente
società cristiana. Esaltò l’ideologia della rapina (che ritroveremo puntualmente
con Francis Drake, sostenuto dalla regina d’Inghilterra). La rapina era
corredata da stermini di massa, che venivano assunti come un rituale sacro di
una religione infernale. Di loro abbiamo le cronache dei contemporanei piene
dell’orrore dei loro misfatti, abbiamo notizie che ci vengono dall’archeologia,
ma dalle loro notizie dirette, contenute nelle loro saghe, non c’è niente di
storicamente attendibile, ci sono solo fantasie spesso tragiche che nulla hanno
in comune con la realtà storica. In opposizione al culto del lavoro e della
preghiera essi praticavano il culto della violenza fine a se stessa e la fede in
una realtà radicalmente terrena e materialistica. Gli aspetti più scoperti ed
intollerabili del loro carattere si attenuarono quando avvenne la fusione con le
popolazioni che mantenevano il ricordo della civiltà romana. Così avvenne in
Inghilterra, in Normandia, in Danimarca, più tardi in Svezia e in Norvegia. Ma
la loro azione scoraggiò la rinascita di quella civiltà cristiana che era
fiorita nel nord sino al secolo VIII. Si formarono invece gli ordini religiosi
militari, che determinarono la nascita di un cristianesimo «armato», che sfocerà
poi nelle crociate.
E’ interessante vedere la natura degli schieramenti politici, soprattutto in
Francia, davanti alla minaccia dei vichinghi poiché si tratta di situazioni che
si ripeteranno poi sino ai nostri giorni. Molti contadini cacciati dalle loro
terre si strinsero in leghe paramilitari, tentando a volte con successo, di
eliminare con i propri mezzi le bande vichinghe, che contavano più sulla fama e
sul terrore delle loro efferatezze che non su una reale forza militare. Ma i
contadini ebbero ben presto un avversario nel loro stesso paese: la nobiltà
franca, la quale cominciava a temere questi eserciti di contadini, vedendo in
essi una ragione di più per battersi dalla parte degli oppressori stranieri.
Patteggiando coi vichinghi, essa combatteva non solo contro il potere regio, ma
anche contro i piccoli coloni per il mantenimento dei suoi privilegi, facendo
anche più del necessario per lasciar precipitare intere provincie nel disordine,
nell’egoismo e nella desolazione. La chiesa eraparalizzata dalla scelta della
non violenza dalla quale derivava anche una sorta di fabbrica di martiri. Era
paralizzata anche dalla sua contiguità con la nobiltà. Tuttavia alla fine i
martiri furono troppi.
Quando il 24 novembre 885 Sigrifido risalì la Senna con settecento navi e
quarantamila uomini per espugnare Parigi per la seconda volta, i parigini,
guidati dal vescovo Geuzlin e dal conte Oddone resistettero all’assedio. L’anno
seguente l’esercito di Carlo il Grosso si attestò ai piedi di Montmartre ed
ancora una volta invece di dare battaglia preferì trattare l’allontanamento
della
minaccia su Parigi pagando un riscatto e concedendo ai vichinghi di sistemarsi
nella Borgogna, ambitissima per la sua fertilità. Morto Carlo il Grosso nel 887,
nel 891, presso Lovanio nell’odierno Brabante, Arnolfo di Carinzia circondò un
contingente vichingo e lo sterminò facendolo annegare nel Dijle. Il «Grande
esercito» vichingo dovette tornare in Inghilterra sconfitto anche dalle
epidemie. La fama di invincibilità era distrutta e con essa era scomparsa l’arma
principale dei vichinghi. Intanto anche la nobiltà francese aveva compreso che
l’ambiguità verso gli invasori metteva in pericolo anche i suoi possedimenti ed
il suo prestigio. La nascente cavalleria francese ebbe facile successo contro le
residue bande di vichinghi. Tutte le difese vennero messe in funzione,
restaurate le vecchie mura e costruite di nuove. I fiumi vennero costellati di
ponti fortificati per ostacolare il passaggio delle navi vichinghe. Le campagne
si riempirono di castelli fortificati, utili anche per le contese tra i
feudatari.
Alla fine del IX secolo i vichinghi, per trovare qualche spiraglio per le loro
scorrerie, potevano contare solo sulle crisi politiche e militari che colpivano
la Francia, la Neustria, la Frisia, tutto il nord dell’Impero fondato da Carlo
Magno. I vichinghi avevano molti dei caratteri ereditati poi dal capitalismo
moderno: la fede nella tecnica, l’intraprendenza individualista, l’incapacità di
fare architettura, assegnare al denaro il significato di un feticcio, quindi il
denaro, l’argento e l’oro come valori in sé non come elementi di scambio (molti
tesori accumulati con le rapine sono stati ritrovati intatti), la visione
materialistica della vita, la necessità di avere schiavi ed infine la
deformazione della realtà con la menzogna sistematica e quindi l’assenza di una
storia.
Gli storici di oggi dimostrano una certa simpatia per i vichinghi e affermano
che le cronache dell’epoca, scritte da religiosi o da letterati di corte,
sarebbero troppo severe verso di loro, perché redatte sotto l’influenza delle
efferatezze compiute da questi predoni del nord. In realtà oggi ammiriamo
proprio il loro materialismo, la loro ostilità a tutti i valori del
cristianesimo. La nostra era anticristiana vede in loro dei precursori. Anche le
loro fandonie piacciono. Quando, durante la prima guerra contro l’Iraq, si
incolpò Saddam di aver ordinato la distruzioni di alcuni depositi di greggio nel
Dubai occupato, un fiume nero finì sulla spiaggia e in mare. Le televisioni per
alcuni giorni diffusero la scena di una povera anatra che annaspava nel
petrolio. Si seppe poi che la scena era stata costruita in certi studi
cinematografici americani. Da parte statunitense si disse che la cosa era del
tutto normale.
Come si è già detto, negli anni 1958 gli USA fecero esplodere la prima bomba
atomica nell’alta atmosfera senza informare nessuno. Negli anni seguenti i
ricercatori di tutto il mondo scoprirono nell’alta atmosfera particelle
radioattive la cui origine era inspiegabile. Poi gli americani «confessarono» la
loro bravata alla faccia della salute di tutto il genere umano. Prima
della loro confessione dire che gli americani avevano fatto esplodere una bomba
atomica nell’alta atmosfera avrebbe attirato l’accusa di complottista. Ma adesso
non se ne parla più, come dell’assassinio di Kennedy, santificato post mortem.
-----------------------
1) Maurizio Blondet «L’altro 11
settembre», Effedieffe, 23 novembre 2006.
2) Paul J. Watson, «LBJ night before
JFK assassination: Those SOB’s will never embarrass me again», PrisonPlanet, 30
agosto 2006.
3) Robert B. Sinnett, «Il giorno
dell’inganno», Il Saggiatore.
4) Robert Sinnett, opera citata,
pagina 26-27.
5) Un sondaggio di opinioni
pubblicato a fine gennaio 1941 aveva rivelato che, mentre il 79% della
popolazione statunitense riteneva errato venire a patti con Hitler, ben l’88%
era contrario ad un intervento militare del proprio Paese nella guerra che
dilaniava l’Europa. (Robert B. Stinnett, opera citata, pagina 52).
6) A settembre del 1940, cioè poco
più di un anno prima dell’attacco a Pearl Harbor, il Giappone aveva stipulato
con Germania ed Italia un patto di mutua alleanza, dando origine al
cosiddettoRoBerTo (asse Roma-Berlino-Tokio).
7) Paolo Cortesi, «Test Nucleari:
giocare col plutonio»,
http://www.minerva.unito.it/Chimica&Industria/MonitoraggioAmbientale/A2/TestNucleari.htm
8) Rudolf Pörtner, «L’epopea dei
vichinghi», Garzanti, 1972 (titolo originale: Die Vikinger-Saga).
APPROFONDIMENTO
La pseudoscienza di Piero Angela
E' noto ormai a molti che l'industria della salute in Italia è in mano ai lobbisti delle case farmaceutiche, con la totale sottomissione al loro potere da parte dello stato italiano (vedi Il lobbista impera nel mondo). Chi avrebbe sospettato che uno dei supporter di questa industria è il conduttore televisivo Piero Angela? Il giornalista, senza nessuna apparente vergogna ha mandato in onda nella puntata di Super Quark del 23 giugno scorso, un pezzo propagandistico sui farmaci che, a suo dire, sono l'unica cura per coloro che soffrono di mal di testa.
Nuovo Ordine Mondiale: i Signori del Mondo
Durante alcuni dei miei viaggi a Londra ho potuto conoscere un personaggio che ha lavorato per anni nel settore del Marketing. Tutto ciò che leggerete di seguito è frutto di indagini che lui ha condotto personalmente; coinvolgendo, in varie parti del mondo, figure di spicco legate alle grandi famiglie economiche. Ho deciso di pubblicare integralmente la ricerca così come lui l’ha scritta, ma penso sia giusto per etica professionale che tutto debba essere formulato sotto forma di ipotesi. A mio parere la maggior parte delle informazioni sono vere, faccio questa dichiarazione in relazione anche agli eventi che si stanno manifestando nel mondo.
David Icke, il coraggioso giornalista britannico, già redattore della BBC e di altri prestigiosi giornali che da diversi anni ci informa con i suoi libri sui poteri occulti, le loro trame e i complotti che cercano di rendere schiava l’umanità, è stato ospite a Bellaria del riuscitissimo MacroFest promosso dalla Macro Edizioni. Alle sue conferenze hanno assistito oltre 600 persone e in una pausa dei lavori abbiamo potuto scambiare un’interessante conversazione.
Altre riflessioni sul terrorismo internazionale
E’ chiaramente in atto una forte accelerazione degli eventi connessi al terrorismo. La strategia di chi muove le leve di questo fenomeno ha impresso un ritmo incalzante alla realizzazione del nuovo tipo di conflitto mondiale: quello tra civiltà e culture differenti, ed in particolare tra Islam e Occidente. La successione delle esplosioni, e l’innalzamento del livello generale di ansia, odio e paura stanno producendo un allargamento rapido delle aree grigie nell’atmosfera psichica della Terra. Questo ha una influenza diretta sull’interiorità di ognuno di noi. E’ una sfida crescente alle nostre capacità di trasformare i fatti, i pensieri ed i sentimenti negativi in occasioni di crescita.