NO AL DIALOGO CON LA
CHIESA CATTOLICA
RABBINI OFFESI PER LA PREGHIERA DEL VENERDÌ SANTO
IN CUI LA CHIESA PREGA PER IL POPOLO EBRAICO.
CRISTO FU LA VERA PIETRA D'INCIAMPO PER I RABBINI
EBREI DI 2000 ANNI FA COME LO È PER QUELLI DI OGGI.
(a cura di Claudio Prandini)
LE TRE VERSIONI CATTOLICHE DELLA PREGHIERA PER GLI EBREI
L'Orazione solenne del Venerdì Santo, nella versione italiana del Messale Romano del 1962 dice: “Preghiamo anche per gli Ebrei, affinché il Signore Dio nostro tolga il velo dai loro cuori, in modo che essi pure con noi riconoscano Gesù Cristo Signor Nostro. Preghiamo. O Dio onnipotente ed eterno, che non rigetti dalla tua misericordia neppure gli Ebrei, esaudisci le suppliche che ti rivolgiamo per questo popolo accecato, affinché ammetta che il Cristo è la luce della tua verità, ed esca così dalle tenebre”.
Ultimamente Papa Benedetto XVI l'ha così cambiata:
«Preghiamo per gli Ebrei. Il Signore Dio Nostro illumini i loro cuori perchè
riconoscano Gesù Cristo Salvatore di tutti gli uomini. Dio Onnipotente ed
eterno, Tu che vuoi che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza
della verità, concedi che, entrando la pienezza dei popoli nella tua Chiesa,
tutto Israele sia salvo».
LA birkat ha-minim
Forse pochi sanno che la orazione solenne per gli Ebrei
del Venerdì Santo ha una corrispondente nella birkat ha-minim (benedizione
contro gli eretici) della liturgia giudaica, che è la seguente: “Che per gli
apostati non ci sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il regno
dell’orgoglio; e periscano in un istante i nazareni (ndr. i giudeo-cristiani)
e gli eretici: siano cancellati dal libro dei viventi e con i giusti non siano
iscritti. Benedetto sei tu Yahweh che pieghi i superbi”. |
INTRODUZIONE
Rabbini, con Ratzinger
Cancellati 50 Anni di Dialogo
Ansa, 13 gennaio 2009
ROMA, 13 GEN - Con
Benedetto XVI, la Chiesa sta cancellando i suoi ultimi "cinquanta anni di
storia" nel dialogo tra ebraismo e cattolicesimo: a lanciare la critica è il
rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Richetti, che - in un editoriale per il
mensile dei gesuiti "Popoli", ha spiegato i motivi che hanno portato il
rabbinato italiano a non partecipare alla prossima Giornata sull'ebraismo,
indetta per il 17 gennaio dalla Confrenza episcopale italiana.
Il rabbino di Venezia ricorda innanzitutto la decisione di Benedetto XVI di
reintrodurre, con il messale pre-conciliare, la preghiera del Venerdì Santo per
la conversione degli ebrei. Il rabbinato italiano - riferisce Richetti - ha
chiesto spiegazioni ed un ripensamento: con risposte ufficiose, "una risposta
della Conferenza episcopale, sia pure sollecitata, è mancata", la Chiesa -
afferma l'esponente ebraico - ha fatto presente che "gli ebrei non hanno niente
da temere", in quanto "la speranza espressa dalla preghiera 'Pro Judaeis' è
'puramente escatologica', è una speranza relativa alla 'fine dei tempi' e non
invita a fare proselitismo attivo". "Queste risposte - osserva tuttavia rav.
Richetti - non hanno affatto accontentato il Rabbinato italiano. Se io ritengo,
sia pure in chiave escatologica, che il mio vicino debba diventare come me per
essere degno di salvezza, non rispetto la sua identità. Non si tratta, quindi,
di ipersensibilità: si tratta del più banale senso del rispetto dovuto all'altro
come creatura di Dio".
"Se a ciò aggiungiamo - aggiunge - le più recenti prese di posizione del Papa
in merito al dialogo, definito inutile perché in ogni caso va testimoniata la
superiorità della fede cristiana, è evidente che stiamo andando verso la
cancellazione degli ultimi cinquant'anni di storia della Chiesa". "In
quest'ottica, l'interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa
è la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma
autorità", ha concluso.
Città del Vaticano
(Agenzia Fides) - Alcuni circoli ebraici
ed alcuni organi di stampa hanno fatto rumore in occasione della promulgazione
del Motu proprio di Benedetto XVI sulla Messa antica, paventando la
reintroduzione della preghiera per gli Ebrei, quella da cui Papa Giovanni tolse
l’aggettivo ‘perfidi’.
Forse pochi sanno che la orazione solenne per gli Ebrei
del Venerdì Santo ha una corrispondente nella birkat ha-minim (benedizione
contro gli eretici) della liturgia giudaica, che è la seguente: “Che per gli
apostati non ci sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il regno
dell’orgoglio; e periscano in un istante i nazareni (ndr. i giudeo-cristiani)
e gli eretici: siano cancellati dal libro dei viventi e con i giusti non siano
iscritti. Benedetto sei tu Yahweh che pieghi i superbi”.
Così recita la XII benedizione della liturgia sinagogale nella forma primitiva.
Mentre in quella del Talmud babilonese più diffusa oggi:
“Per i calunniatori e gli eretici non vi sia speranza, e tutti in un istante
periscano; tutti i Tuoi nemici prontamente siano distrutti, e Tu umiliali
prontamente ai nostri giorni. Benedetto Tu, Signore, che spezzi i nemici e umili
i superbi”
Quanto all’Orazione solenne del Venerdì Santo, la versione italiana del Messale
Romano del 1962 dice: “Preghiamo anche per gli Ebrei, affinché il Signore Dio
nostro tolga il velo dai loro cuori, in modo che essi pure con noi riconoscano
Gesù Cristo Signor Nostro. Preghiamo. O Dio onnipotente ed eterno, che non
rigetti dalla tua misericordia neppure gli Ebrei, esaudisci le suppliche che ti
rivolgiamo per questo popolo accecato, affinché ammetta che il Cristo è la luce
della tua verità, ed esca così dalle tenebre”.
In quella del Messale Romano del 1970 è stata così modificata: “Preghiamo per
gli ebrei: il Signore Dio nostro, che li scelse primi fra tutti gli uomini ad
accogliere la sua parola, li aiuti a progredire sempre nell’amore del suo nome e
nella fedeltà alla sua alleanza”. Preghiera in silenzio. “Dio onnipotente ed
eterno, che hai fatto le tue promesse ad Abramo e alla sua discendenza, ascolta
benigno la preghiera della tua Chiesa, perché il popolo primogenito della tua
alleanza possa giungere alla pienezza della redenzione”.
Osservando comparativamente le formule, si nota che quella giudaica si serve
delle invettive proprie di taluni salmi e testi profetici (per esempio il Salmo
58), non estranee nemmeno al Nuovo Testamento; quella cristiana dell’antico
Messale riecheggia l’invito di San Paolo alla comunità cristiana, a pregare per
tutti gli uomini (cfr. 1 Timoteo 2,1), quindi per i giudei, quando le rammenta
l’irrevocabilità dell’elezione divina d’Israele (cfr. Romani 11,29) ed il
mistero della sua conversione alla fine dei tempi (cfr. Romani 11,25-26).
Secondo De Clerk, questa preghiera potrebbe essere “segno di grande antichità
delle orationes sollemnes, oppure potrebbe risalire a un periodo in cui i giudei
erano molto numerosi a Roma. Quanto all’orazione del nuovo Messale, il tema è il
popolo di Abramo, depositario delle ‘irrevocabili’ promesse divine e chiamato
comunque “alla pienezza della redenzione”. Questa è stata sempre la coscienza
della Chiesa che nell’orazione domanda a Dio che si affretti la realizzazione di
quella promessa.
Dunque, non è il caso che i nostri ‘fratelli maggiori’
continuino a scandalizzarsi della preghiera che i cristiani innalzano a Dio per
loro, quando dovrebbero agire a modificare la loro, visto che nella prima forma
e anche in quella del Talmud babilonese, non è stata tolta la maledizione di Dio
che non si concilia col suo amore universale.
Un po’ di storia.
In realtà la querelle cesserebbe se si inquadrasse nel rapporto tra liturgia
cristiana e liturgia giudaica, da cui anche l’orazione di lode e di
intercessione ha la sua origine, come ricorda il Catechismo della Chiesa
Cattolica (1096). Infatti, il corrispondente giudaico dell’Oratio fidelium -
anche dell’anafora secondo taluni studiosi come Adrien Nocent - è la preghiera
Shemonèh Esréh (la Tefillah delle diciotto benedizioni). Com’è noto, il
cristianesimo delle origini, e quindi la liturgia, si è posto in rapporto di
continuità e nel contempo di novità rispetto al giudaismo. I nazareni o
cristiani avevano frequentato il Tempio (cfr. Atti 2,46), come pure le
sinagoghe, finché, due decenni dopo la sua distruzione nel 70, i giudei non
introdussero nella Tefillah la XII “benedizione”, appunto la birkat ha-minim
(diventarono così diciannove ma il nome di Shemonèh Esréh non fu cambiato),
ovvero una maledizione contro la setta considerata eretica, dei giudeo-cristiani
(cfr. Atti 24,14) sia per tenerli lontani dalla sinagoga, sia per proclamare
formalmente la rottura definitiva tra le due religioni.
Accanto ai minim (dissidenti) si menzionavano i nozrim, i
nazareni, cioè i seguaci di Gesù di Nazareth, perché “spariscano all’istante,
cancellati dal libro della vita e non scritti con i giusti. Benedetto sei tu che
umili i superbi” (cfr. G. De Rosa, Gesù di Nazareth e l’Ebraismo di ieri e di
oggi. Dal rifiuto all’appropriazione esclusiva. “La Civiltà Cattolica”, 15
(2000), n 12). Nel medesimo periodo venne comminata infatti la scomunica
contro i giudeo-cristiani, i quali pur pretendendo di rimanere dentro la
sinagoga, la dividevano nella fede, proteggevano i “gentili”, soprattutto i
romani, e distruggevano il principio dommatico della habdàlàh ossia la
separazione tra circoncisi e non (cfr. H.Herts, Daily Prayer Book with
commentary. Introductions and notes, New York 1971, p 142 s.). Così nel Medioevo
la pensava Maimonide e ai nostri giorni il rabbino americano J.Petuchowski (cfr.
S.Ben Chorin, Il giudaismo in preghiera. La liturgia della sinagoga, Cinisello
B.1988, p 80). Tuttavia oggi non tutti gli ebrei nominano i nazareni e i
dissidenti, ma si limitano ai calunniatori, i cattivi e i nemici.
Quanto alle Orazioni solenni del Venerdì Santo e alla Orazione universale o dei
fedeli nella Messa, si riallacciano alla tradizione apostolica di pregare per
tutti: in particolare perché trascorrano una vita calma e tranquilla con tutta
pietà e dignità, quale “cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro
salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla
conoscenza della verità” (cfr. 1 Timoteo 2,1-3). Tracce di tale preghiera si
ritrovano in Clemente di Roma, Policarpo di Smirne, Giustino, Tertulliano e
Cipriano, che sottolineano la richiesta a Dio di giungere alla conoscenza della
verità e alla salvezza eterna. Sarà Prospero d’Aquitania (390-455), autore del
celebre “ut legem credendi lex statuat supplicandi” a riferirvisi con più
evidenza. L’autore non intendeva istituire un automatismo, quasi che dalla
preghiera derivi la norma della fede, ma dire che diventa norma di fede quella
preghiera connessa con la dottrina cattolica conclusa con la morte dell’ultimo
apostolo. In certo senso la liturgia deve esprimere la fede cattolica e
apostolica, oltre che l’unità e la santità della Chiesa.
Tuttavia, la descrizione più antica delle orationes
sollemnes è contenuta nei Capitula, un documento annesso alla lettera di Papa
Celestino I ai Vescovi della Gallia, scritto tra il 435-442. In particolare
nella preghiera pro Judaeis dice: “ut Judaeis, ablato cordis velamine, lux
veritatis appareat”. La frase evidentemente richiama da un lato San Paolo (2 Cor.
3,12-16) e dall’altro la orazione che, attraverso Leone Magno e i libri
liturgici romani altomedievali noti come Ordines, giunge fino alla forma del
Messale romano del 1962. Dunque le fonti liturgiche che ci tramandano le
orationes sollemnes risalgono alle tradizioni gelasiana, gregoriana e gallicana
codificate nei Sacramentari e negli Ordines romani.
L’Oratio
pro conversione iudaeorum, la sesta delle orazioni solenni, nel Messale del 1970
è intitolata semplicemente “pro iudaeis”. L’appellativo ‘perfidi’ è stato tolto,
sebbene significasse semplicemente ‘increduli’, in certo senso meglio del minim,
i dissidenti della birkat giudaica. Per l’analisi e la traduzione
dell’espressione, approvata già nel 1948 dalla Congregazione dei Riti,
rimandiamo agli studi esistenti; ma già nel 1936 il grande esegeta protestante
diventato cattolico Eric Peterson, aveva pubblicato uno studio in cui mostrava
che l’epiteto voleva dire fedifrago, in quanto i giudei avevano stretto un patto
con Jaweh al quale erano venuti meno. Tale significato, applicato anche ai
pagani, si trova in alcune opere di Cipriano e di Ambrogio. Sant’Agostino
rifacendosi alla giustizia della fede in San Paolo, la traduce con ingiustizia e
mancanza di fede. Sulla stessa linea anche Gelasio e Gregorio Magno.
A questo punto si può dedurre che la Oratio pro iudaeis
appare in certo senso speculare alla birkat ha-minim giudaica, la maledizione
contro gli eretici; quasi una ‘risposta’, poiché il dato liturgico non è mai
astratto, ed entrambe risalgono allo stesso periodo, come abbiamo visto. Alla
scomunica comminata ai giudeo-cristiani e all’accusa di “eresia” da parte dei
giudei - forse durante il sinodo di Jabne tra 90 e 100 d.C., - che volevano in
tal modo sancire la rottura definitiva del Giudaismo ufficiale con i cristiani,
questi avrebbero ‘risposto’ con l’inserzione della “preghiera per i giudei”. Al
di là di ogni polemica, è “ragionevole ritenere che la storia di entrambe le
preghiere, il cui contenuto era certamente noto sia ad ebrei che a cristiani
alla fine del I secolo, si sia intrecciata, dando così forma al testo liturgico
così come ci è pervenuto, salvo, ovviamente, le inevitabili modifiche che,
generalmente, i testi liturgici subiscono nel corso dei secoli” (Annamaria
Abrusci, Storia ed evoluzione delle Orazioni solenni. Il caso della preghiera
Pro Iudaeis, tesi di magistero presso l’ISSR di Bari, anno 2000-2001, p 111-112,
pro manuscripto). Ciò dimostra ancora una volta l’influsso della liturgia
ebraica e giudaica in specie su quella cristiana. La preghiera non può essere
modificata in contraddizione con la dottrina cattolica e apostolica. Volentieri,
dunque, oggi pregheremo anche con le nuove formule del Messale Romano di Paolo
VI dove si supplica il Signore che “il popolo primogenito della tua alleanza
possa giungere alla pienezza della redenzione”.
La Chiesa prega per la conversione di tutti gli uomini
“Forti di tale speranza, ci comportiamo con molta franchezza e non facciamo come
Mosé che poneva un velo sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero
la fine di ciò che era solo effimero. Ma le loro menti furono accecate; infatti
fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, alla lettura dell’Antico
Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si
legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al
Signore, quel velo sarà tolto” (2 Corinzi, 3, 12-16).
Questo testo paolino è notoriamente la fonte dell’orazione per gli ebrei fino al
Messale del 1962. Oggi non pochi cattolici hanno timore della conversione e così
pure gli ebrei, i quali vorrebbero che la Chiesa cattolica non sia se stessa,
almeno nei loro confronti. Ora la conversione è l’essenza del Vangelo di Gesù, e
ha designato il cammino verso di Lui di popoli e nazioni (cfr. gli studi di E.
Peterson sull’interpretazione di Romani 9-11 e il significato della
conversione). Facendo la verità nella carità e nel rispetto della libertà, la
Chiesa ha come priorità l’annuncio del Vangelo che è la verità piena e
definitiva sull’uomo e alla quale l’uomo è chiamato a convertirsi. E’ Cristo che
ha dichiarato: “Il tempo è compiuto…convertitevi e credete al vangelo” (Marco
1,15), non ‘dialogate e mettetevi d’accordo’. San Pietro ha descritto la
conversione come un percorso irreversibile: dalla parola dei profeti, lampada
che brilla in luogo oscuro fino allo spuntare della stella del mattino (cf. 2
Pietro 1,19); i Magi avevano cercato la verità al seguito della stella, finché
trovarono la luce vera (cfr. Matteo 2,2); san Paolo, dopo essere andato a
tastoni come in un luogo buio (cf. Atti 17,27) fino ad essere investito da
Cristo verità incarnata e convertirsi a Lui.
La Chiesa, come ha detto il Concilio, è sacramento anche in rapporto alle
religioni, cioè non solo segno ma strumento di salvezza per tutti. Si comprende
così che il cristianesimo è una religione universale che fa conoscere il vero
Dio d’Israele (cfr. Giovanni Paolo II, “Varcare la soglia della speranza”,
Milano 1994, p.112).
Il tema della salvezza in Gesù Cristo necessaria per ogni uomo è stato
riaffermato nella Dichiarazione Dominus Iesus. Il dialogo con gli ebrei nasce
dalla “coscienza del dono di salvezza unico e universale offerto dal Padre per
mezzo di Gesù Cristo nello Spirito” (n. 13). Proprio mostrando in Cristo il
compimento del Giudaismo, la Chiesa è passata ad affrontare il mondo pagano “che
aspirava alla salvezza attraverso una pluralità di dèi salvatori” (ivi).
Il dialogo è parte integrante della coscienza missionaria della Chiesa; fondato
sulla consapevolezza della pari dignità di tutti gli uomini, a qualsiasi
religione appartengano, e nello stesso tempo sul primato di Gesù Cristo e della
sua dottrina “in confronto con i fondatori delle altre religioni” (Dominus Iesus,
n. 22 ).
La Chiesa propone il regno di Dio come signoria universale di Gesù Cristo (cfr
J.Ratzinger -Benedetto XVI, “Gesù di Nazaret”, Città del Vaticano 2007, cap III);
Benedetto XVI cita nel suo libro l’erudito rabbino Jacob Neusner che in un
saggio del 1993 aveva evidenziato tutta la differenza tra la Torah e Gesù. Se e
quando tutti gli uomini entreranno nella Nuova Alleanza
della Chiesa, compresi gli ebrei, è questione da lasciare allo Spirito Santo
(cfr. Varcare…, p. 112). La preghiera per gli ebrei esprime la convinzione che
l’incontro e il dialogo è “un tentativo che sta completamente nelle mani di
Dio”(Gesù di Nazaret, p 248), con un messaggio: “Allora non abbandoneranno la
loro obbedienza - (alla Torah che permette di vedere Dio “di spalle”, Ivi, p
310-311), - ma essa verrà da fonti più profonde e perciò sarà più grande, più
sincera e pura, ma soprattutto anche più umile”(Ivi, p 249).
Così si capiscono di più le richieste di perdono e il gesto di Giovanni Paolo II
al ‘muro del pianto’ e ancora prima l’intervento del Cardinale Joseph Ratzinger
alla Conferenza internazionale ebraico-cristiana di Gerusalemme nel 1994, dove
svolse la tesi della riconciliazione, essenza di due fedi, ricordando che il
sangue versato da Cristo non grida vendetta ma appunto riconciliazione. Nessuna
intenzione da parte cattolica, dunque, di incentivare l’antigiudaismo - e
speriamo da parte ebraica nemmeno l’anticristianesimo - ma conoscenza e rispetto
reciproco, anche delle espressioni della propria fede, pregando gli uni per gli
altri.
EBREI 1:
LUZZATTO, CHIESA NON PUO' PREGARE
AFFINCHE' NOI LASCIAMO NOSTRA FEDE
Citta' del Vaticano, 17 gen. (Adnkronos) - Un canale di dialogo rimane aperto fra ebraismo e Vaticano ma il problema e' che la Chiesa cattolica non puo' pregare - come avviene nella preghiera del venerdi' santo - perche' gli ebrei smettano di essere ebrei. Con questi presupposti il dialogo non c'e' piu'. Inoltre i tentativi di ricucire del cardinale Walter Kasper, responsabile dell'ecumenismo e del dialogo con gli ebrei della Santa Sede e di mons. Vincenzo Paglia, che ricopre lo stesso incarico nella Cei, sono encomiabili ma rappresentano posizioni personali. E' quanto ha spiegato al Sir, l'agenzia stampa della Cei, Amos Luzzatto, che dal 1998 al 2006 e' stato presidente dell'Unione delle comunita' ebraiche italiane.
Luzzatto non e' pessimista sul proseguimento positivo del dialogo ma i problemi, sottolinea, oggi non mancano. Al centro dell'impasse, come e' noto, la decisione di papa Benedetto XVI di reintrodurre, con il messale del 1962, la preghiera del Venerdi' Santo. In particolare e' stata contestata la parte in cui si prega perche' ''Il Signore Dio Nostro illumini i loro cuori perche' riconoscano Gesu' Cristo Salvatore di tutti gli uomini''.
''Un canale di dialogo di carattere culturale ed esegetico si mantiene'', ha spiegato Luzzatto, che ha aggiunto: ''Viene sospeso il canale di comunicazione specifica e privilegiata con la Chiesa cattolica che richiede una serie di chiarificazioni per poter essere ripreso. Non e' sospeso in eterno, ma sospeso in considerazione di questi ultimi episodi. D'altronde sarebbe difficile per gli ebrei dire: partecipiamo a un dialogo con la Chiesa cattolica, la quale avvalora la speranza che gli ebrei cessino di essere ebrei. Come si fa? Non e' questione di liturgia ma di relazione con il dialogante''
Ebrei 2:
''Il Papa ha messo in crisi il dialogo''
Il rabbino capo di Venezia, Richetti: con le parole di Benedetto XVI secondo le quali 'in ogni caso va testimoniata la superiorita' della fede cristiana', si va ''verso la cancellazione degli ultimi 50 anni di storia della Chiesa''
Citta'
del Vaticano, 13 gen. - (Adnkronos) - Viene dalla somma autorita' del
cattolicesimo, il Papa,
la messa in
discussione del dialogo con l'ebraismo. A sostenerlo, con parole pesanti
come pietre, scritte nero su bianco in un intervento ospitato dalla rivista dei
gesuiti, ''Popoli'', e' il
rabbino capo
di Venezia, Elia Enrico Richetti. Nell'intervento, nel quale si da'
conto, a nome del Rabbinato d'Italia, dell'attuale
crisi nei rapporti ebraico-cattolici in Italia, Richetti spiega che
secondo Benedetto XVI ''il dialogo e' inutile perche' in ogni caso
va testimoniata la superiorita' della fede cristiana'' e in tal modo si
va verso ''la
cancellazione degli ultimi cinquant'anni di storia della Chiesa''.
Insomma, sostiene, ''in quest'ottica, l'interruzione della collaborazione tra
ebraismo italiano e Chiesa e' la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico
espresso dalla sua somma autorita'''.
E si' che l'intervento del rabbino e' preceduto da poche righe in cui ''Popoli''
spiega: ''Il
primo passo per un dialogo autentico e' mettersi in ascolto delle ragioni
dell'altro''. D'altro canto,
oggetto
dell'articolo e' proprio la rinuncia ebraica alla partecipazione alla giornata
dell'ebraismo che si celebra ogni anno il 17 gennaio. All'origine della
crisi interreligiosa il ritorno della messa in latino secondo il messale di San
Pio V nel quale si invoca la conversione degli ebrei alla verita' cristiana. Una
preghiera che in passato aveva peraltro una formulazione ingiuriosa, quella dei
''perfidi giudei'', poi modificata da Benedetto XVI nel liberalizzare l'antico
rito.
La scelta compiuta dall'assemblea dei rabbini d'Italia, si legge
nell'intervento, ''e' la logica conseguenza di un momento particolare che sta
vivendo il dialogo interconfessionale oggi, momento i cui segni hanno cominciato
a manifestarsi
quando il
Papa, liberalizzando la messa in latino, ha indicato nel Messale tridentino il
modulo da seguire''.
''In quella formulazione -scrive il rabbino Richetti-
nelle
preghiere del Venerdi' Santo e' contenuta una preghiera che auspica la
conversione degli ebrei alla 'verita'' della Chiesa e alla fede nel ruolo
salvifico di Gesu'''. ''A onor del vero, quella preghiera - prosegue il testo -
che nella prima formulazione definiva gli ebrei 'perfidi', ossia 'fuori dalla
fede' e ciechi, era gia' stata 'saltata' (ma mai abolita) da Giovanni XXIII.
Benedetto XVI
l'ha espurgata dai termini piu' offensivi e l'ha reintrodotta''.
Da questo momento in poi, afferma il rabbino, la parte ebraica si e' presa una
pausa di
riflessione nel dialogo con la Chiesa cattolica e si e' avviata una fase
di contatti e tentativi di mediazione. ''Purtroppo -afferma il rabbino capo di
Venezia- i risultati si sono dimostrati deludenti. Si sono registrate reazioni
'offese' da parte di alte gerarchie vaticane: 'Come si permettono gli ebrei di
giudicare in che modo un cristiano deve pregare? Forse che la Chiesa si permette
di espungere dal rituale delle preghiere ebraiche alcune espressioni che possono
essere interpretate come anticristiane?'''.
Ancora, si rileva che
non e' mai
arrivata una risposta ufficiale della Conferenza episcopale italiana.
Altri prelati hanno affermato, spiega Richetti, che ''la speranza espressa dalla
preghiera 'Pro Judaeis' e' 'puramente escatologica', e' una speranza relativa
alla 'fine dei tempi' e non invita a fare proselitismo attivo (peraltro gia'
vietato da Paolo VI)''.
Ma proprio da qui prende spunto il rabbino per un giudizio estremamente severo:
''Queste risposte non hanno affatto accontentato il Rabbinato italiano.
Se io
ritengo, sia pure in chiave escatologica, che il mio vicino debba diventare come
me per essere degno di salvezza, non rispetto la sua identita'''.
''Non si tratta, quindi - ha aggiunto - di ipersensibilita':
si tratta del
piu' banale senso del rispetto dovuto all'altro come creatura di Dio. Se
a cio' aggiungiamo le piu' recenti prese di posizione del Papa in merito al
dialogo, definito inutile perche' in ogni caso va testimoniata la superiorita'
della fede cristiana, e' evidente che stiamo andando verso la cancellazione
degli ultimi cinquant'anni di storia della Chiesa. In quest'ottica,
l'interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa e' la logica
conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorita'''.
''Dialogare - conclude il rabbino - vuol dire rispettare ognuno il diritto
dell'altro ad essere se stesso, cogliere la possibilita' di imparare qualcosa
dalla sensibilita' dell'altro, qualcosa che mi puo' arricchire.
Quando l'idea
di dialogo come rispetto (non come sincretismo e non come prevaricazione)
sara'
ripristinata, i rabbini italiani saranno sempre pronti a svolgere il
ruolo che hanno svolto negli ultimi cinquant'anni''.
Cerimonia in una Sinagoga ebraica
Ebrei: Giornata dialogo con
cattolici, ma la prima
senza rabbini
Card. Kasper: Segno preoccupante
Città del Vaticano, 17 gen. (Apcom) - E' la prima volta che la giornata del dialogo ebraico-cristiano avviene con l'assenza dei rabbini. In tutta Italia è stata infatti celebrata oggi la Giornata del dialogo, senza però gli ebrei. La singolare situazione si è venuta a creare perchè la comunità ebraica ha dato forfait per protestare con la 'preghiera del venerdì santo', un'invocazione che, nonostante la riformulazione voluta dal Papa proprio per andare incontro alla sensibilità ebraica, è finita, invece, col riattizzare le tensioni.
Un "segno preoccupante", l'ha definito il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani e della Commissione vaticana per i rapporti religiosi con l'ebraismo alla Radio Vaticana, "ma devo dire che gli ebrei italiani non hanno un diretto dialogo con il Vaticano: hanno un dialogo con la conferenza episcopale italiana e non con il Vaticano. Il nostro dialogo a livello universale con gli ebrei, soprattutto negli Stati Uniti, in Canada, ma anche altrove nel mondo, e anche quello che abbiamo con il Gran Rabbinato a Gerusalemme, va molto bene e loro partecipano a queste giornate di dialogo. Sono solo gli ebrei in Italia - ha aggiunto il cardinale Kasper - che hanno una sensibilità particolare, che hanno interrotto il loro dialogo. Ma noi speriamo che possano tornare ad un serio dialogo".
L'ultima fiammata di polemica è scaturita da un intervento del rabbino di Venezia pubblicato questa settimana dal mensile dei gesuiti 'Popoli'. "E' vero, non sta agli ebrei insegnare ai cristiani come devono pregare o che cosa devono pensare, e nessuno fra gli ebrei o i rabbini italiani pretende di farlo", ha scritto Elia Enrico Richetti. "Ma è chiaro che dialogare vuol dire rispettare ognuno il diritto dell'altro ad essere se stesso, cogliere la possibilità di imparare qualcosa dalla sensibilità dell'altro, qualcosa che mi può arricchire". Poi l'affondo contro una recente affermazione di Ratzinger circa l'impossibilità del dialogo interreligioso: "Stiamo andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant'anni di storia della Chiesa". Immediata è stata la reazione della Chiesa cattolica che - per bocca dei responsabili della Cei e del Vaticano per i rapporti con l'ebraismo, monsignor Vincenzo Paglia e il cardinale Walter Kasper - ha gettato acqua sul fuoco.
Anche all'interno del collegio rabbinico - e, più in generale, della galassia ebraica italiana - le valutazioni sono in realtà le più disparate. Certo, unanime è stato il malumore nei confronti della preghiera del venerdì santo tornata in uso con il messale preconciliare liberalizzato da Ratzinger (la cosiddetta messa in latino). Già Giovanni XXIII, nel 1959, aveva 'ammorbidito' la preghiera, eliminando il riferimento alla "perfidia" giudaica. Ma nella preghiera erano rimasti riferimenti all'"accecamento" e alle "tenebre" del popolo ebraico, che Ratzinger ha voluto depennare. La nuova formula di preghiera per gli ebrei, introdotta a febbraio dell'anno scorso, invoca comunque Dio perché "illumini" i cuori degli ebrei "perché riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini". Un'auspicio considerato dagli ebrei indebito proselitismo, nonostante il Vaticano abbia spiegato che si tratta di una preghiera "escatologica" che esclude il proselitismo e affida a Dio il cuore dei 'fratelli maggiori'. Su questo sfondo, però, le analisi differiscono. Lo dimostra, ad esempio, il fatto che il presidente dell'assemblea rabbinica, Giuseppe Laras, aveva usato toni meno duri del 'j'accuse' del rabbino di Venezia al momento di annunciare la sospensione della giornata ebraico-cristiana. E il rabbino di Roma Riccardo Di Segni si è sentito in dovere di intervenire, a sua volta, per puntualizzare che Benedetto XVI dà "un suo originale e determinante contributo" all'incontro ebraico-cristiano, "anche se le sue posizioni non sempre sono condivisibili dal nostro punto di vista".
E se sfaccettate sono le posizioni all'interno dell'ebraismo e del cattolicesimo, ancor più complesse sono le questioni che si intrecciano nel rapporto tra ebrei e cattolici: dalle difficoltà di ordine teologico emerse nella vicenda del 'venerdì santo' alle questioni politiche come le recenti frizioni tra Israele e Vaticano sulla striscia di Gaza, dai nodi del passato (quale la beatificazione di Pio XII) e del presente (ad esempio, il pendente negoziato bilaterale sullo statuto giuridico e patrimoniale della Chiesa cattolica in Terra Santa).
ll rabbino è Jacob Neusner
Un vescovo e un rabbino difendono
la preghiera per la Salvezza degli ebrei
Il vescovo è Gianfranco Ravasi. Il rabbino è Jacob Neusner. La preghiera è quella del Venerdì Santo in rito antico. Ecco perché Benedetto XVI ha voluto cambiarne il testo
ROMA, 7 marzo 2008 – Alcuni esponenti di
rilievo del mondo ebraico avevano protestato vivacemente contro la nuova
formulazione voluta da Benedetto XVI della preghiera per i giudei nella liturgia
del Venerdì Santo, secondo il rito antico.
A queste proteste è ora arrivata una risposta autorevole, in una breve nota
pubblicata sull'ultimo numero della "Civiltà Cattolica", la rivista dei gesuiti
di Roma stampata con il controllo previo, riga per riga, della segreteria di
stato vaticana.
In più, nei giorni scorsi sono intervenuti in difesa della nuova formulazione
anche personalità importanti della Chiesa cattolica e del mondo ebraico: da una
parte l'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della
cutlura, e dall'altra il rabbino Jacob Neusner (nella foto), professore di
storia e teologia del giudaismo al Bard College di New York, autore ampiamente
citato da Benedetto XVI, con reciproca stima, nel suo libro "Gesù di Nazaret".
In breve, questi sono gli antefatti.
Fino a un anno fa nella liturgia del Venerdì Santo di rito antico – il cui uso è
stato liberalizzato da papa Joseph Ratzinger con il motu proprio "Summorum
Pontificum" del 7 luglio 2007 – si invitava in latino a pregare per i giudei
"affinché Dio e Signore nostro tolga il velo dai loro cuori, perché anch’essi
riconoscano Gesù Cristo, nostro Signore".
E subito dopo l'orazione era così formulata:
"Dio onnipotente ed eterno, che non respingi dalla tua misericordia neppure i
giudei, esaudisci le nostre preghiere che ti presentiamo per l’accecamento di
quel popolo; affinché, riconosciuta la verità della tua luce, che è Cristo,
siano liberati dalle loro tenebre. Per lo stesso Cristo Signore nostro, Amen".
Benedetto XVI, con una nota della segreteria di stato pubblicata il 6 febbraio
2008 su "L'Osservatore Romano", ha cambiato le parole sia dell'invito alla
preghiera che dell'orazione.
Il papa ha disposto che, nella liturgia di rito antico, si inviti a pregare per
gli ebrei "affinché Dio e Signore nostro illumini i loro cuori perché
riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini".
E poi si pronunci questa orazione:
"Dio onnipotente ed eterno, che vuoi che tutti gli uomini si salvino e giungano
alla conoscenza della verità, concedi nella tua bontà che, entrando la pienezza
dei popoli nella tua Chiesa, tutto Israele sia salvo. Per Cristo nostro Signore.
Amen".
In latino il nuovo testo dell'invito è il seguente:
“Oremus et pro Iudaeis. Ut Deus et Dominus noster illuminet corda eorum, ut
agnoscant Iesum Christum salvatorem omnium hominum".
E quello dell'orazione:
“Omnipotens sempiterne Deus, qui vis ut omnes homines salvi fiant et ad
agnitionem veritatis veniant, concede propitius, ut plenitudine gentium in
Ecclesiam Tuam intrante omnis Israel salvus fiat. Per Christum Dominum nostrum.
Amen”.
Stando alla nota pubblicata su "La Civiltà Cattolica", questa sarebbe stata la
ragione del cambiamento:
"Nell’attuale clima di dialogo e di amicizia tra la Chiesa cattolica e il popolo
ebraico è sembrato giusto e opportuno al papa [fare questo cambiamento], per
evitare ogni espressione che potesse avere anche la più piccola apparenza di
offesa o comunque dispiacere agli ebrei".
Le parole della precedente formulazione che a molti – sia ebrei che cattolici –
apparivano offensive erano soprattutto "accecamento" e "tenebre". Entrambe sono
sparite dal nuovo formulario.
Ma ciò non ha impedito che dal mondo ebraico si levassero nuove proteste.
La più aspra è venuta dall'assemblea dei rabbini italiani. In un comunicato
firmato dal loro presidente, Giuseppe Laras, hanno detto che la nuova preghiera
costituisce "una sconfitta dei presupposti stessi del dialogo" ed è "solo
apparentemente meno forte" della precedente. Essa "legittima anche nella prassi
liturgica un’idea di dialogo finalizzato, in realtà, alla conversione degli
ebrei al cattolicesimo, ciò che è ovviamente per noi inaccettabile". E quindi,
"in relazione alla prosecuzione del dialogo con i cattolici, si impone quanto
meno una pausa di riflessione che consenta di comprendere appieno gli effettivi
intendimenti della Chiesa cattolica circa il dialogo stesso".
Altre comunità ebraiche, specie americane, hanno reagito in modo meno duro,
negando che la nuova preghiera metta in pericolo il dialogo con la Chiesa. Un
dialogo che di per sé – ha rimarcato "La Civiltà Cattolica" – "non è finalizzato
alla conversione degli ebrei al cristianesimo, ma si propone l’approfondimento
della mutua conoscenza in campo religioso, la crescita della reciproca stima e
della collaborazione nei settori della pace e del progresso, oggi messi in grave
pericolo".
Quanto alla nuova formulazione della preghiera, la nota della "Civiltà
Cattolica" così conclude, con un periodare un po' contorto:
"Essa non ha nulla di offensivo per gli ebrei, perché in essa la Chiesa chiede a
Dio quello che san Paolo chiedeva per i cristiani: che, cioè, 'il Dio del
Signore nostro Gesù Cristo [...] possa illuminare gli occhi della mente' dei
cristiani di Efeso perché possano comprendere il dono della salvezza che essi
hanno in Gesù Cristo (cfr Efesini 1,18-23). La Chiesa infatti crede che la
salvezza sia soltanto in Gesù Cristo, come è detto negli Atti degli Apostoli
(4,12). È chiaro d’altra parte che la preghiera cristiana non può non essere che
'cristiana', fondata, cioè, sulla fede – che non è di tutti – che Gesù è il
Salvatore di tutti gli uomini. Perciò gli ebrei non hanno motivo di offendersi
se la Chiesa chiede a Dio che li illumini affinché riconoscano liberamente
Cristo, unico Salvatore di tutti gli uomini, e siano anch’essi salvati da Colui
che l’ebreo Shalom Ben Chorin chiama il Fratello Gesù".
Naturalmente, la nuova formulazione della preghiera vale solo per la liturgia di
rito antico. E quindi nella quasi totalità delle chiese cattoliche il prossimo
Venerdì Santo si continuerà a pregare per gli ebrei con il formulario del
messale di Paolo VI del 1970.
Secondo questo formulario universalmente più diffuso, si prega per gli ebrei
affinché Dio “li aiuti a progredire sempre nell'amore del suo nome e nella
fedeltà alla sua alleanza”.
Parole ineccepibili – e in effetti mai contestate – ma anche meno ricche di
rimandi biblici, all'Antico e al Nuovo Testamento, di quelle introdotte da
Benedetto XVI con la sua variante del testo antico della preghiera.
Col nuovo formulario, infatti, papa Ratzinger ha non attenuato, ma molto
rafforzato la preghiera con più pregnanti contenuti cristiani.
Da questo punto di vista, quindi, la nuova preghiera per gli ebrei nella
liturgia in rito antico non impoverisce ma postula un arricchimento di senso
della preghiera in uso nel rito moderno. Esattamente come in altri casi è il
rito moderno a postulare un'evoluzione arricchente del rito antico. In una
liturgia perennemente viva come quella cattolica, è questo il senso della
coabitazione tra i due riti antico e moderno voluta da Benedetto XVI con il motu
proprio "Summorum Pontificum".
Una coabitazione non destinata a durare ma a comporsi in futuro "di nuovo in un
solo rito romano", prendendo il meglio da entrambi. Questo scrisse nel 2003
l'allora cardinale Ratzinger – svelando un suo recondito pensiero – in una
lettera a un colto esponente del tradizionalismo lefebvriano, il filologo
tedesco Heinz-Lothar Barth.
Tornando alla nuova formulazione della preghiera per gli ebrei nel rito antico,
ecco qui di seguito come l'arcivescovo Gianfranco Ravasi – presidente del
pontificio consiglio della cutlura ma anche biblista di fama mondiale – ne ha
spiegato la stupefacente ricchezza in un articolo su "L'Osservatore Romano" del
15 febbraio 2008.
Con subito dopo uno scritto del rabbino americano Jacob Neusner, pubblicato in
Germania il 23 febbraio 2008 su "Die Tagespost" e in Italia su "il Foglio" del
26 febbraio, anch'esso in difesa della nuova formulazione della preghiera.
APPROFONDIMENTO
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La Summorum Pontificum, in italiano Dei Sommi Pontefici, è una lettera apostolica di papa Benedetto XVI, pubblicata in forma di motu proprio il 7 luglio 2007. Il motu proprio contiene le indicazioni giuridiche e liturgiche per la corretta celebrazione della Messa tridentina secondo il Messale promulgato nel 1962 dal beato Giovanni XXIII; tali disposizioni sono entrate in vigore il 14 settembre 2007, festa dell'esaltazione della Santa Croce, e hanno sostituito le precedenti norme contenute nelle lettere Quattuor abhinc annos del 1984 ed Ecclesia Dei adflicta del 1988.
di Gianfranco Ravasi - Da "L'Osservatore Romano" del 15 febbraio 2008
Un giorno Kafka all'amico Gustav Janouch che lo
interrogava su Gesù di Nazaret rispose: "Questo è un abisso di luce. Bisogna
chiudere gli occhi per non precipitarvi". Il rapporto tra gli Ebrei e questo
loro "fratello maggiore", come l'aveva curiosamente chiamato il filosofo Martin
Buber, è stato sempre intenso e tormentato, riflettendo anche la ben più
complessa e travagliata relazione tra ebraismo e cristianesimo. Forse sia pure
nella semplificazione della formula è suggestiva la battuta di Shalom Ben Chorin
nel suo saggio dal titolo emblematico Fratello Gesù (1967): "La fede di Gesù ci
unisce ai cristiani, ma la fede in Gesù ci divide".