RACCONTI DALLA EX JUGOSLAVIA,

TRA SPERANZE E DIFFICOLTÀ

DI UN PASSATO CHE PESA

 

(a cura di Claudio Prandini)

 


 

 

 

Cartina della ex Jugoslavia

 

 

 

 

INTRODUZIONE
 

I FANTASMI DELLE ATROCITÀ

NELL'EX JUGOSLAVIA ANCORA LIBERI

 

Fonte web

(AGI) - Belgrado, 11 gen. - Taglia da un milione di euro sull'ex generale Ratko Mladic, Ratko Mladic, ricercato per crimini di guerra.comandante delle milizie serbo-bosniache all'epoca della guerra in Bosnia e da anni super-ricercato dal Tribunale Internazionale dell'Aja per i Crimini di guerra nell'ex Jugoslavia: a porla e' stata la polizia serba, in applicazione della decisione del governo di Belgrado, risalente a due anni fa, di offrire una ricompensa a chi fornira' informazioni in grado di condurre alla cattura di Mladic, rinviato a giudizio dal Tribunale Onu per genocidio e crimini contro l'umanita' in relazione all'assedio di Sarajevo e al massacro di ottomila civili musulmani a Srebrenica, nel '95.

Manifesti con la dicitura 'Ricercato' e due immagini del latitante, sia in abiti civili sia in uniforme, sono stati affissi in tutti i commissariati della Serbia e ai valichi di frontiera: lo ha precisato Rasim Ljajic, responsabile della collaborazione con gli inquirenti dell'Aja. Sugli stessi manifesti compare anche il ritratto di un altro fuggiasco, Goran Hadzic, a suo tempo leader dei secessionisti serbi che in Croazia diedero vita all'auto-proclamata Repubblica Serba di Krajina: insieme a Mladic e' l'unico incriminato dal Tribunale Internazionale ancora latitante; la taglia sulla sua testa ammonta a un quarto di quella dell'altro ricercato, cioe' a 250.000 euro.

I manifesti riportano anche una serie di numeri verdi cui telefonare per prendere contatto con le autorita'; Ljajic ha assicurato che a chi collaborera' sara' garantita la segretezza dell'identita'. Su Mladic pendevano gia' diverse taglie, per importi fino a 5 milioni di dollari, offerte dagli Stati Uniti. Nel 2007 manifesti analoghi erano apparsi in Serbia con l'effigie dell'alleato numero uno di Mladic, l'ex presidente serbo-bosniaco Radovan Karadzic, e del comandante della polizia ai tempi della Repubblica Serba di Bosnia, Stojan Zupljanin; ambedue furono separatamente catturati l'anno scorso.

 

 

Svetlana Broz - I giusti al tempo del male

 

 

STORIE VARIE NELL'ATTUALE

EX JUGOSLAVIA

 

Morte di uno sminatore

Da Sarajevo, scrive Andrea Rossini

La situazione dello sminamento in Bosnia Erzegovina 13 anni dopo la fine della guerra. Oltre 200.000 mine ancora sul terreno. Il problema delle Prom-1. Gli appalti per lo sminamento, i subappalti, il lavoro a cottimo sui campi minati. Nostra inchiesta.


Si chiamava Vahid Zahirović, aveva 35 anni, era di Jablanica. E' morto il 23 ottobre scorso a mezzogiorno sul campo minato di Zaloški Grabeš, vicino a Bihać. Lavorava per una ditta locale, l'Associazione per l'eliminazione delle mine. E' l'ultima vittima di una lunga serie di incidenti che stanno funestando la comunità degli sminatori bosniaci.

In Bosnia Erzegovina (BiH), 13 anni dopo la fine della guerra, ci sono ancora tra le 200 e le 250.000 mine (1) disperse su un territorio di circa 2.000 chilometri quadrati. Le vittime registrate per l'esplosione di questi ordigni, dal 1992 ad oggi, sono 5.003. La maggior parte di loro, 3.339, sono stati feriti o uccisi durante la guerra. Il resto durante la pace. La distribuzione dei campi minati segue grosso modo quella che era la linea di confronto tra gli eserciti. In conseguenza della rottura del fronte avvenuta nell'estate del '95, la maggioranza dei campi sono andati in eredità alla Federazione, una delle due entità in cui il Paese è diviso.

Secondo la visione contenuta nella “Mine Action Strategy”, un documento approvato dal Consiglio dei Ministri della BiH il 24 aprile scorso, la Bosnia dovrebbe essere libera dal rischio mine entro il 2019. L'organismo preposto al coordinamento e alla supervisione di tutte le attività di sminamento nel Paese è il BH MAC, una struttura del ministero per gli Affari Civili della Bosnia Erzegovina.

Il BH MAC, in collaborazione con gli ex eserciti, fornisce – quando possibile (2) - la cartografia dei campi minati, dà l'accreditamento alle organizzazioni di sminatori, ne verifica e controlla le attività. In questo momento le organizzazioni accreditate sono 35. Si dividono in organizzazioni non governative (ong) di tipo umanitario e in organizzazioni commerciali. Nella prima categoria rientrano anche quelle ong internazionali, come l'italiana Intersos o la Norwegian People's Aid, che operano in Bosnia grazie ai fondi allocati dai rispettivi governi. Tutte le altre lavorano sulla base di gare d'appalto, organizzate in particolare nel quadro dell'International Trust Fund, una sorta di collettore di fondi a livello internazionale con sede legale in Slovenia.

Il costo dello sminamento per metro quadro può variare di molto, soprattutto in relazione alla natura del terreno da affrontare. La tendenza generale, tuttavia, è quella verso una sempre maggiore riduzione delle spese: “Subito dopo la guerra le cifre potevano arrivare a 20 marchi convertibili [circa 10 euro] per metro quadro. Adesso siamo sui 2 marchi a metro quadro”, mi spiega Svjetlana Trifković, portavoce del BH MAC.

Il prezzo è determinato dalle offerte presentate durante le gare d'appalto. Chi vince si aggiudica la porzione di territorio da sminare. L'offerta migliore, come in un qualsiasi appalto per un cantiere edile, coincide per lo più con il prezzo più basso: “C'è una commissione di valutazione formata da rappresentanti del BH MAC, dell'ITF e dei donatori. Si valutano l'esperienza, le capacità dell'organizzazione, il piano di esecuzione. Certo, la cosa più importante è il prezzo”, conferma la Trifković.

Gli sminatori, in Bosnia Erzegovina, sono circa 3.000 persone. Molti di loro sono militari smobilitati. Lavorano di media per 700 euro al mese. In questi anni la loro comunità ha avuto quasi un centinaio di vittime. 40 sono stati fino ad ora gli incidenti mortali. Le statistiche non sembrano segnare una diminuzione degli incidenti. Anzi, l'andamento di quest'ultimo anno è stato particolarmente nefasto, con sei morti e due feriti, oltre a due poliziotti e un rappresentante della Protezione Civile uccisi dalle mine mentre stavano cercando di delimitare un campo minato appena scoperto.

La stragrande maggioranza degli ultimi incidenti, come quello che è costato la vita a Vahid Zahirović, sono stati causati da un tipo particolare di mine, le Prom. Sono mine di fabbricazione jugoslava. Vengono interrate e, se attivate, esplodono scattando a mezz'aria e rilasciando centinaia di schegge. “Sono le più micidiali. Con le altre si riesce a lavorare, con queste è un disastro. Se scoppiano bisogna ringraziare il cielo se sopravvive il collega a 50 metri di distanza”, mi spiega l'ingegnere Vito Alfieri Fontana, esperto della Cooperazione Italiana e responsabile di Intersos in Bosnia Erzegovina.

Le mine sono state collocate nel corso della guerra 1992-95. Dopo tanti anni, il fattore tempo incide diversamente a seconda dei tipi di mine. Ci può essere un ciclo di decadimento “positivo”, ad esempio con capsule detonanti che si attivano con maggiore difficoltà, o un ciclo di decadimento catastrofico: “Alcune mine diventano più instabili con il passare del tempo, e questo rende il lavoro più pericoloso – continua l'ingegner Alfieri Fontana. E' il caso delle Prom. Se il meccanismo interno si deteriora, e le molle perdono di forza, possono sparare prima. A volte basta sfiorarle.”

Le Prom non possono essere disinnescate. E' troppo pericoloso. Devono essere isolate e fatte esplodere a fine giornata da un artificiere. Queste sono le norme contenute nelle procedure standard di sminamento approvate per la Bosnia Erzegovina. Ci sono molte regole che gli sminatori devono rispettare nel corso delle operazioni. Come anche il mantenimento delle distanze di sicurezza. Nel malaugurato caso di incidente con una Prom morirerebbe al massimo uno sminatore, non due o tre. Non sempre però le cose vanno come previsto.

Il 12 luglio sulla montagna di Crni Vrh, a Maglaj, sono morti Vehid Jusufagić e Enes Subašić. Stavano sminando in località Krč e sono stati uccisi da una Prom. Il 18 marzo scorso, sul monte Ozren, sono morti per l'esplosione di una Prom Admir Redzić e Fahrudin Hodzić mentre un loro collega, Enver Dautović, è rimasto gravemente ferito. Stavano sminando a Karanovac, nel campo Sprecanskom, comune di Petrovac. In quell'occasione la stampa locale aveva riportato il malfunzionamento dei metal detector, mandati in tilt dalla forte presenza di oggetti di metallo e materiali ferrosi nel terreno. Altri due sminatori sono stati uccisi da una Prom a Ljubinje, in località Bančići, il 18 dicembre scorso.

Provo a chiedere alla portavoce del BH MAC come sia possibile che ci siano così tante vittime in singoli incidenti. “Ci sono casi in cui le organizzazioni di sminatori non rispettano le procedure - mi suggerisce la Trifković. Cercano di lavorare più velocemente, di finire presto un campo per poter passare all'appalto successivo. Se provate ad analizzare gli ultimi incidenti, la maggioranza accade alle organizzazioni commerciali [quelle che dipendono dagli appalti, ndr].”

Dato il meccanismo degli appalti, e la generale riduzione dei fondi, sembra che gli sminatori bosniaci debbano lavorare sempre più in fretta. Una volta aggiudicatosi un campo, per ottimizzare i guadagni, la cosa più importante per alcune organizzazioni è finire nel più breve tempo possibile. Il sistema finisce per assomigliare a quello del lavoro a cottimo. E le Prom, in tutto questo, rappresentano un problema. Le procedure da adottare nei confronti di queste mine rallentano di molto il lavoro: “Isolare la Prom ti fa perdere tempo. Devi chiudere quel corridoio e bloccare una parte del campo - mi spiega una fonte locale che ha preferito rimanere anonima. Se un'organizzazione deve completare in fretta il proprio task, può succedere che lo sminatore si avvicini e cerchi di svitarla, scavandoci intorno e sperando che non ci siano delle trappole. E' molto pericoloso. Se però gli va bene, a fine giornata nel rapporto scrivono che hanno trovato una Prom già disinnescata. Oppure la mina viene fatta sparire. Uno può anche avere la tentazione di metterle da parte, per ogni evenienza. La BiH è firmataria del trattato di Ottawa, non può più né produrre né immagazzinare mine. Ma se la situazione politica nel Paese degenerasse, potrebbero tornare utili.”

La produttività degli sminatori è regolata da tabelle precise, limiti oltre i quali non si può andare. Il numero di metri quadri al giorno varia in funzione del numero di ordigni incontrati e dei metodi di lavoro. Se si usa solo il metal detector, ad esempio, si possono fare fino a 100 metri quadri al giorno. Se si usa anche lo spadino, cioè lo spillone che serve da sonda, si va dai 35 ai 50. Solo con lo spadino non si possono superare i 10, 15 metri quadri al giorno. Le regole esistono. “Però può anche accadere che su un terreno siano dichiarati 6 sminatori, e ne lavorino 3 – continua la stessa fonte. Oppure sottobanco vieni pagato a cottimo, più metri quadri fai e più guadagni. Questo è l'ambiente in cui uno sminatore deve vivere, in alcune organizzazioni. Quando succedono incidenti come questi si capisce bene che la disperazione di chi va a lavorare, unita alla necessità delle ditte di fare profitti, azzera ogni misura di sicurezza. Ci si leva il giubbotto, o il casco, perché si suda. E' una catena. Bisogna andare in fretta, alla ditta interessa solo che si produca. In alcuni casi poi si scopre che il campo minato viene dato in subappalto, e allora sul lavoro potrebbe esserci chiunque.”

Il fenomeno del subappalto di un campo minato mi viene confermato dalla Trifković (“ci sono stati dei casi, sì”), anche se la mia interlocutrice sottolinea che il BH MAC effettua controlli con una particolare frequenza “nei siti dove potrebbero esserci violazioni delle procedure standard.”

Il lavoro dello sminatore è molto duro, richiede grande concentrazione. Secondo il responsabile di Intersos in Bosnia Erzegovina, chi fa questo mestiere andrebbe anche “continuamente reistruito, perché col passare degli anni la mente dello sminatore tende ad anestetizzare il pericolo, ad allontanarlo da se, a rimuoverlo. Ci si può appassionare alle mine, l'adrenalina può spingere a fare cose che non bisognerebbe fare.”

L'animo umano è imponderabile. Le statistiche no. Le organizzazioni umanitarie che operano in questo Paese e che hanno un budget stabile, non dipendente dagli appalti, hanno una percentuale di incidenti bassissima. Quest'anno nessuno. Sminare richiede calma, e tutto il tempo necessario a fare il lavoro. Del resto, non c'è niente di più imprevedibile di un campo minato. Se su un terreno si trovano il doppio delle mine previste saltano i conti. Per le organizzazioni umanitarie è semplice, fanno una relazione e giustificano al donatore lo slittamento dei tempi. Per quelle commerciali è diverso, i costi sono stabiliti dall'appalto e non è facile cambiare in corso d'opera.

In Bosnia è ormai iniziato l'inverno. In montagna ha cominciato a nevicare all'inizio di novembre, la neve è ormai arrivata anche a Sarajevo. Per gli sminatori la stagione finisce qui. Bisogna aspettare la primavera. Sperando che la nuova stagione porti in dote condizioni di lavoro più dignitose per tutti. E nessuna vittima.

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[1] 220.000 secondo il BH MAC, la struttura che dipende dal ministero degli Affari Civili della BiH ed è responsabile per le operazioni di sminamento nel Paese. Secondo alcuni esperti il numero delle mine e degli ordigni inesplosi ancora sul terreno potrebbe invece raggiungere le 300.000 unità.

[2] “Abbiamo un ottimo livello di collaborazione con l'esercito. Però deve tenere presente che non tutti i campi minati in Bosnia sono stati fatti dai militari. Circa il 60% delle mine sono state collocate dalla gente, non dai soldati. Si tratta di campi minati improvvisati, senza una cartografia”, ha dichiarato ad Osservatorio Balcani la portavoce del BH MAC, Svjetlana Trifković. In quei casi il BH MAC deve fare affidamento su informatori locali, persone che sanno dell'esistenza di un campo e lo denunciano al BH MAC. In alcuni casi l'esistenza di un terreno minato emerge solo a seguito di un incidente.

 

 

Bosnia Erzegovina - Vita difficile

 

 

I miei Balcani senza bussola

Fonte web - Di Valentina Scaglia

Da Trieste all’Olimpo, attraverso Croazia, Bosnia, Albania. 1.450 chilometri a piedi alle soglie dell’inverno. In una chiacchierata-fiume il camminatore Pierluigi Bellavite ci racconta la sua rotta balcanica

50 giorni di luoghi alieni, di lingue incomprensibili, alla ricerca di sentieri incerti, è un viaggio che ti cambia fuori e anche dentro. Difficile raccontare tutto. Lo rifaresti? "Probabilmente no. Sono partito allegro e forse senza realizzare del tutto dove andavo". Spieghiamo la mappa, l’unica dove il percorso c’è per intero è una datata carta stradale in scala 1:750.000. Guardiamo il rettilineo ideale che tocca un fettino di Slovenia e poi Croazia, Bosnia, Montenegro, Kossovo, Albania, Macedonia e Grecia settentrionale, Epiro e Tessaglia. Una riga blu netta e pulita. "Basta andare per di lì… e si arriva". Beh, la differenza tra il viaggio pensato e quello reale, sta disegnata su questo foglio di carta. Alla riga netta del cammino ideale si intreccia la sinuosità del percorso reale, fitto di date e nomi strani. 20 settembre, Male Mune. "Partito da un giorno e già lontano, un altro mondo nel cuore dell’Istria". 24 settembre: cima del Tuhobic. "Da lì vedo il mare per l’ultima volta». 3 ottobre. Zelenkovac. Qui, solo cirillico". 16 ottobre, Zabljak, "40 km di sentieri duri per attraversare il Durmitor". E così via.

Facciamo qualche calcolo sulla rotta. "Ho camminato per 1.450 chilometri, misurati con un pedometro, che ho tarato con buona precisione. Ho preso qualche passaggio, per altri 190 km, in alcuni posti ostici da traversare a piedi, uno era la piana a sudest di Fiorina, in Grecia". Strade o sentieri? "Grosso modo, metà e metà". Ma presto, le strade diventano sempre più piccole e l’acqua scompare. "Poco dopo Fiume ho perso di vista l’autostrada costiera. Serpeggiava accanto al mio percorso, dovevo salire verso il Risnjak, la sua presenza un fastidio continuo. Non ne avrei più vista una. I Balcani sono il regno delle piccole strade libere dalle auto, ne passano poche, se arriva una macchina puoi quasi giurare che si ferma". Le Dinariche sono montagne carsiche, l’acqua se ne va nel sottosuolo. "Un problema per chi si muove a piedi. Ho fatto anche una decina di chilometri per arrivare a un paese, trovare dell’acqua". Ma i fiumi sono fantastici. "Fiumi da sogno, come a Scepan Polje, dove la Tara diventa Drina". E’ lì una delle gole più lunghe, oltre 60 chilometri. Una stradina spettacolare che le segue dall’alto. "In Bosnia la Una, un torrente incassato con belle cascate, e ogni tanto passa un gommone da rafting".

Fuori rotta ma senza bussola, e con pochi segnali. "La bussola? Non funzionava. Subito i primi problemi, nelle interminabili foreste della prima parte della Bosnia. Avevo fatto troppo affidamento sull’altimetro multifunzione, l’ azimut ha cominciato subito a farmi impazzire". Non si può pensare di attraversare i Balcani come se si andasse a fare una haute route delle Alpi. Soprattutto, non ci sono percorsi segnati. "Mille stradine, mulattiere, vie forestali, e trovi al bivio, e non c’è nessuno. E arrivi in un posto, ma non c’è il nome del posto. E a quel punto è l’intuizione che ti fa decidere. Molte scelte sono state così, un po’ casuali. A volte sono finito nell’imprevedibile. E non è stato un male". Verso la fine del cammino, a circa 100 km dall’Olimpo, ci si immette su un itinerario tracciato: è l’E4, uno dei grandi percorsi europei, viene dalla Scandinavia.

Pierluigi aveva una cinquantina di copie di una sua poesia tradotta in varie lingue, compreso l’albanese. Comincia così: Ciao, io sono un uomo che cammina, un viandante, un pellegrino, un curioso, fai tu. Attraverso terre nuove, forse più belle o più dure, forse più aspre o più dolci della mia, non so. Il breve massaggio, nato per spiegare il senso della propria presenza e a superare le barriere, funzionava abbastanza, con eccezioni. «Lo leggevano e vedevo il volto, il sorriso, e si aprivano le porte e i cuori. A Sarajevo avevo esaurito tutte le copie dei foglietti e ho dovuto farne delle altre. Se mi capitava che lo restituissero senza guardarmi e parlare, non era buon segno». Le notti andavano a fortuna: spesso arrivava l’invito in una casa, in una fattoria. Ma molte volte si fa il campo con la tenda ultraleggera, un riparo appena sufficiente a sdraiarsi.
Piccola cascata del luogo
La stagione avanza, la prima neve è già sopra Jaice. "Non c’è una sola Bosnia, ce ne sono (almeno) due. Una è la Srpska. Tra le due un confine palpabile". Il viandante arriva a Jaice si trova, dopo 15 giorni, un internet point. Scrive una mail: Sono di nuovo sulla linea che unisce Trieste a Sarajevo e l'Olimpo dopo aver vagato a lungo per evitare la statale. Oggi la prima neve sopra di Jaice e la vista dall'alto del mio prossima cammino tra monti senza pianure. Ho provato a trovarmi a camminare fuori strada in una zona minata.

Quella delle mine, una minaccia costante. "Ho visto la case dei poveri mitragliate su tutti e quattro i lati, con cieca determinazione. E dove la guerra non è passata cova nei confini tra un valle e l'altra, ferite aperte". Prima della partenza avevamo cercato sulle carte ufficiali le zone minate, segnate da chiazze purpuree, un morbillo rosso senza soluzione. Le fonti citano almeno 11.000 siti. "Ma un conto è la teoria e un contro la pratica. Le mine sono un incubo ricorrente. Ci sono i cartelli, ci sono le dritte dei locali. E poi arrivi lì e ti vengono i dubbi. I cartelli forse non sono messi per chi arriva da un sentiero laterale. E la strada? Può essere minata la strada? Un giorno alcuni ragazzi locali cercano di spiegarmi: vicino a quella casa forse ci sono le mine. Forse no. Qual è il lato giusto? Non capisco nulla. E poi sono minati anche i passi di montagna".

Le esperienze adrenaliniche aprono un altro capitolo. "Una notte vengo preso a calci nel sacco a pelo. Erano una decina di cacciatori bosniaci. Ma poi per scusarsi mi hanno aperto casa loro, abbiamo bevuto assieme".

Il Montenegro si rivela ospitale, i visi allegri. Montagne spettacolari. Uno dei posti imperdibili era Gusinje, nel sud del paese. "Ci volevo andare, è legato al ricordo di un racconto di Ismail Kadaré, il grande scrittore albanese, che mi era piaciuto molto... Ma non ci sono arrivato. Prima difficoltà di orientamento, poi mi ferma la polizia locale. Il problema è passare dal Montenegro all’Albania settentrionale attraverso montagne sono tra le più “alpine” dell’intero percorso. Sono le cime già gelate del Prokletije". Ma il “confine triplo” tra Montenegro, Albania e Kosovo è ancora un’area delicata. Sembra incredibile che qui sia stato progettato un grande parco naturale internazionale. "I passi sono minati, mi dicono. Sarà vero? Magari è un trucco per non spedirmi tra i picchi. Ma nel dubbio, desisto". La condanna a una lunga via alternativa: Pec, Decani, Dakovica.

"Sono entrato in Kosovo passando da Pec. Qui trovo un po’ di visi ostili. Guai a entrare in un bar chiedendo in serbo. Qui la questione lingua è essenziale, per avere risposte si deve parlare albanese. Faccio fatica a trovare il monastero di Decani". E lì, finalmente, qualcuno parla italiano. "Ogni tanto parlavo in tedesco. Incredibile quanto serve il tedesco".

Ma l’Albania? "Dal valico di Vrbnica entro in Albania. In cammino verso Kukes. Mi chiedo dov’è la bellezza, dov’è il segreto da scoprire, cammini dieci ore e quando sei arrivato sei in un villaggio-città da incubo. Palazzoni, bruttezza. Lì ho provato la solitudine. Siamo abituati all’impero del viadotto, alla logica del rettilineo". "Andate in Albania, a guardare cos’è una strada. Un contorcimento, una teoria interminabile di tornanti e saliscendi. E vai, e vai, e sei sempre più o meno nello stesso posto". La montagna albanese è ancora molto abitata. "Gente e ragazzi, dappertutto. A gruppetti mi seguono a lungo, dopo ogni villaggio. Curiosi, un po’ invadenti".

Altri viaggiatori? "Qualcuno in giro c’è. In genere sono cicloturisti. A piedi, come me, nessuno. Ho incontrato uno svizzero nel cuore dell’Albania. Giovane, capelli da rasta, con una vecchia bici, non è neanche una mountain bike. Va così piano che sulle salite lo raggiungo. E’ partito da Basilea. Cerca “gli elefanti”. Un po’ fuori… No, ho capito che era un mattacchione simpatico".

Pierluigi arriva a Debar, entra in Macedonia. La gente è cordiale, il paese verde e dolce, le montagne silenziose. Una corsa attraverso la valle del Crni Drim, poi il lago di Ohrid, è una visione da cartolina. "Sono ospite dei barbuti monaci di Sveti Naum, sembra un film". Da qui il percorso è più facile, spariscono i problemi d’orientamento, il sentiero E4 è un’autostrada escursionistica. "L’Olimpo con i suoi 2.900 e passa m appare da molto lontano, devo studiare bene la salita. L’incontro fortunato con un esperto di montagna locale mi spiana un po’ il cammino". L’ultima notte? "Una stalla a 2.500 metri. Vicine le mandrie al pascolo. L’indomani verso le 10 arrivo in cima. Dèi in vista, nessuno".

 

 

Balkan Junctions - Sottotitoli in Italiano - Parte 1

La Ex Jugoslavia vista dal finestrino di un treno a lunga percorrenza.

 Incontri, ricordi, avvenimenti tra Ljubljana e Zagreb.
Documentario prodotto dalla slovena Luksuz Produkcija (DZMP Krško)

 

Balkan Junctions - Italiano - Parte 2

 

 

Ladri di memoria

scrive Azra Nuhefendić

Babbo Natale è stato cancellato per decreto dagli asili di Sarajevo. La degenerazione delle divisioni identitarie nella Bosnia post conflitto, i ricordi di una bambina bosniaca "prima della pioggia"

Quest'anno Babbo Natale non porterà i suoi regali ai bambini di Sarajevo. Così ha deciso la direttrice dei 25 asili nido della città, Arzia Mahmutović. La signora Mahmutović ha dato corso alla decisione presa dai vertici del partito musulmano SDA, di cui è membro.

Dopo aver introdotto nei nidi le lezioni di religione musulmana (invano le proteste e le petizioni dei genitori, che non volevano che i bambini si dividessero già da piccoli), le autorità di Sarajevo, dove il partito SDA ha la maggioranza, hanno deciso che "Babbo Natale non appartiene alla tradizione dei bosgnacchi (bosniaco musulmani)".

Già negli anni precedenti avevano preso misure per ridurre o almeno ostacolare la celebrazione del Capodanno. Non è proibito farlo, ma si trovano scuse o si ostacolano i festeggiamenti nei locali pubblici. Si sta realizzando così quello che l'ex presidente bosniaco Alija Izetbegović prometteva nel 1996. Il presidente domandava ai media "di non imporre vari Babbi Natali e altri simboli strani al nostro popolo… Noi certamente non insisteremo su censure o divieti, ma prenderemo misure perché il nostro popolo, con disprezzo, respinga i valori sospetti".

I valori sospetti, i simboli strani! Sono una delle più belle memorie che conservo dalla mia infanzia.

Era un venerdì. Sono sicura perché, da piccole, mamma ci lavava ogni venerdì sera. Prima della cena la stanza si riscaldava con la stufa sovraccaricata di legna. La stufa si gonfiava, diventava rossa, sbuffava, protestava. Pareva che da un momento all'altro avrebbe buttato fuori tutto.

Noi, sei sorelle, spogliate, aspettavamo il nostro turno. Corpicini nudi o semi nudi, color rosa, brillavano rispecchiando il rosso della stufa. Scherzavamo stizzendo quelle più piccole; si lamentavano, in anticipo, perché il sapone gli sarebbe entrato negli occhi, mentre quelle già lavate si vestivano senza fretta, e qualcuna canticchiava. Tutto era avvolto nel vapore, aria calda e profumo di pulito. Fuori nevicava e il vento, arrabbiato, assediava la casa; cercava le crepe nei muri per poter entrare. Noi ci sentivamo al sicuro, ci piaceva stare insieme, accudite, e protette. Tutto assomigliava a un'esagerata scena idillica.

Inaspettato, dal di fuori, all'improvviso si sentì il suono cristallino di un campanello, come quello delle troike russe. Poi, qualcuno bussò alla porta. In un attimo la scena bucolica si trasformò in panico. Prese dallo spavento cercavamo di coprirci, ci spingevamo, volevamo nasconderci una dietro l’altra.

In quella confusione Jasna, la sorella più grandicella, si appiccicò alla stufa. Sulla sua pelle apparve una sottile linea di scottatura. Lei si lamentava, e noi ridevamo, solo perché la parte ustionata era sul suo sedere.

Alla porta c'era Babbo Natale.

Molto più tardi abbiamo capito che la nostra vicina, la Finka, si era travestita da San Nicola (Babbo Natale), e che l'altra vicina, la Zeina, pure lei mascherata, portava il sacco con i regali.

Il ricordo di quella sera è tra i più cari che ho della mia infanzia. C'era tutto in quella scena: stare insieme, felici, puliti, protetti, con gli amici che ci portavano i regali.

Dopo San Nicola sparì, e i regali ce li portava Babbo Natale che era diventato "un ufficiale dello Stato", perché l'Associazione Socialista (Socijalistićki Savez) e i sindacati si erano impossessati di questa festa.

Più cresceva il benessere comune del Paese, più si festeggiava. Oltre alle feste ufficiali celebravamo pure quelle religiose, a modo nostro. Non erano proibite. Non ci partecipavano i membri del partito comunista, si presupponeva che fossero atei. Ma pure tanti di loro trovavano il modo o la scusa per farlo. Se non si festeggiava a casa propria, lo si faceva dai vicini, non comunisti, dalla nonna vecchia o dalla zia che diceva “meglio che spariscano gli uomini che le tradizioni”. Anche quelli duri, come mio papà, si congratulavano almeno con una stretta di mano con la "compagna" o il "compagno" per il Bajram, il Natale, o il Santo della famiglia. A quelli che proprio non ce la facevano ad essere presenti si mandava un ricco vassoio pieno di dolci e altre pietanze. Si mangiava e beveva senza badare alla convinzione ideologica o alla fede.

Talvolta si esagerava con i festeggiamenti, specialmente in dicembre. Capitava, come quest’anno, che la festa musulmana, il Bajram, cadesse proprio negli stessi giorni di una festa cristiana. Allora si partiva con San Nicola, o con il Bajram, si procedeva con le feste dei Santi dei serbi ortodossi, perché ogni famiglia serbo-ortodossa ha il proprio Santo; alla vigilia di Natale tutti in cattedrale, per finire poi la notte in una discoteca e arrivare al Capodanno, la festa nazionale; poi il 7 gennaio il Natale degli ortodossi, il 13 gennaio il Capodanno ortodosso… Infine una fila di Santi ortodossi e finivamo, o sfinivamo, nella seconda metà di gennaio.

Tutti diventavamo tondi, sovraccarichi, come la stufa della mia infanzia. Si faticava a rinunciare ai dolci, a una baklava, a una hurmašica o a un cucchiaio di žito, (il tipico dolce per la slava, fatto di grano e nocciole) o a quegli slavski kolaći, dolcetti mignon, ma che mangiati in gran quantità diventavano un peso sullo stomaco e qualche etto in più sulle cosce.

Dopo uno o due mesi di festeggiamenti continui, e di mangiate esagerate, facevamo promesse a noi stessi e agli altri che mai più, ma era tutto inutile perché l’anno successivo si ricominciava da capo.

In tutto questo, per la maggior parte di noi, la religione c'entrava poco. La nostra devozione fu quella di stare insieme, di divertirci, di volersi bene, il rispetto per gli altri e diversi. Non ci sentivamo né oppressi né stupidi, ancora meno ingannati. Anzi, stando insieme prendevamo gli uni dagli altri le usanze, le regole, le tradizioni, aggiustavamo, cambiavamo, per produrre quello che la scrittrice norvegese Tone Bringa ("Being Muslim in Bosnian way") descriveva come l'identità bosniaca: "Né serba, né croata, né musulmana, ma tutto questo insieme".

La guerra ci ha spogliato di tanto, ad alcuni di tutto, ma quello che non potevano rubarci era la memoria.

Profughi in Italia, privi di quello che era la nostra vita precedente, abbiamo tirato fuori una delle poche cose preziose che erano rimaste intatte: quel ricordo di quando Babbo Natale, cioè la vicina Finka, ci aveva portato i regali.

La festa l'abbiamo preparata per i bambini con i regali che ci avevano donato altri. Ci divertiva mascherarci da Babbo Natale, ridevamo, e gioivamo per la felicità dei bambini.

Noi soli, in un appartamento che non era il nostro, in un Paese strano, ci sentivamo come una volta, felici. Quel giorno, la miseria che ci era capitata non dominava le nostre anime.

 

 

La storia dell'ex repubblica jugoslava di Macedonia è stata interpretata come la storia del successo multietnico dei Balcani. Oggi viene valutata con più attenzione in virtù di quanto accaduto in Kosovo e in vista del summit Nato di aprile.

 

 

L'amico americano

Da Trieste, scrive Azra Nuhefendić

Mio padre, Tito e gli americani. La costruzione di una nuova, enorme Ambasciata americana a Sarajevo conduce l'autrice in un lungo viaggio a ritroso, dal periodo socialista fino ad una notte del 1995, a Grbavica. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

La prima pietra della futura Ambasciata americana a Sarajevo è stata posata. Il palazzone sarà costruito nel posto più bello e più centrale della città. Subito accanto al monumento del presidente Tito.

Sono sicura che Tito, se fosse vivo, non avrebbe niente in contrario sui nuovi inquilini. Con gli americani lui aveva fatto pace già all'inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, subito dopo la rottura con l’Unione Sovietica avvenuta nel 1948. Tito ha rifiutato di sottomettere la Jugoslavia al potere del Komintern, un ente internazionale che riuniva i partiti comunisti.

Il niet di Tito a Mosca provocò un terremoto nel blocco dei Paesi comunisti, applausi in Occidente e una bufera in Jugoslavia. I comunisti jugoslavi, educati ad ammirare e ad accettare senza dubbio alcuno tutto quello che proveniva dall’Unione Sovietica, di punto in bianco si trovarono davanti al dilemma: la madre Russia o la Jugoslavia.

Quelli che non furono abbastanza veloci a cambiare il concetto vigente finirono a Goli Otok, l’Isola Nuda o Calva – una prigione, un gulag jugoslavo.

Resta un mistero famigliare il perché mio papà non fosse finito su quell’isola. Lui fu un accanito russofilo. In più, pare che avesse difficoltà ad amare gli uni senza odiare gli altri. Non sopportava proprio niente che provenisse dal mondo capitalista, America in testa. Tutto, compresa la lingua inglese, per lui era pericoloso, una mera propaganda e in quanto tale andava evitato.

Parlava francese e tedesco, mentre a noi proibiva di guardare la TV, figurarsi poi i film in lingua inglese. Alle prime battute urlava e immediatamente ordinava: ”Spegni!”.

Già negli anni Sessanta da noi erano apparsi i primi film e altri programmi TV americani. Molto popolare era il serial TV “Bonanza”. Una specie di “cowboy-soap opera”, che per noi fu una vera scoperta, dopo la lagna dei film sugli invincibili partigiani.

Ricordo ancora quel programma, certo non per la sua bellezza, ma per i due schiaffi guadagnati grazie a “Bonanza”. Protestai perché il papà non mi permetteva di guardarlo. In dispetto gli avevo girato le spalle piangendo disperatamente. Lui si sentì offeso e “zum” mi stampò due ceffoni.

La sua convinzione ideologica ci costò molto denaro. A scuola studiavo, ovviamente, la lingua russa. Ma presto ci siamo accorti che senza l’inglese non si va lontano, a prescindere dalla professione. Cosi dapprima i miei genitori, ma dopo anch’io, pagavamo di tasca propria le lezioni private d’inglese. Tutto in silenzio e senza che mai, da parte di mio papà, ufficialmente venisse riabilitata la lingua inglese.

Con gli anni la sua avversione nei confronti della lingua inglese e, in genere, del mondo occidentale andò scemando, ma la Russia, con tutti gli annessi e connessi non perse mai il primato. O quasi!

Durante l'ultima guerra mio papà rimase a Grbavica, un quartiere di Sarajevo occupato dai paramilitari nazionalisti serbi. Sia il papà che i suoi vecchi compagni, indifferentemente se serbi, croati o bosniaci, si sentivano offesi, traditi e umiliati dal comportamento dei nazionalisti che, come usava dire, "puntavano le armi contro i propri fratelli".

Poco prima che Sarajevo fosse riunificata, a Grbavica arrivarono i soldati russi inquadrati nelle forze internazionali. Il mio papà li aspettava come liberatori, come i giusti che avrebbero finalmente messo tutto in ordine.

Ma i batjuška, i "compagni", erano arrivati tenendo le tre dita in alto, il segno che facevano i paramilitari serbi o qualsiasi altro criminale venuto a rubare, a molestare o a uccidere. I soldati russi manifestavano apertamente la loro simpatia esclusivamente per i serbi!

A parte l’inizio della guerra, per la gente rimasta a Grbavica i momenti più drammatici furono i due mesi precedenti la riunificazione di Sarajevo. Tutto quello che non avevano rubato o distrutto durante i quattro anni precedenti, i paramilitari serbi si affrettarono a farlo in quei due mesi.

Sotto pericolo si trovarono tutti, compresi i serbi che rifiutavano di andarsene da Grbavica. La propaganda serba li incoraggiava a lasciare e a distruggere tutto quanto, perché non cadesse nelle mani dei balije, il termine dispregiativo che indicava i bosniaci musulmani. Alcuni di loro, quelli che decisero di lasciare Grbavica, aprirono addirittura le tombe per portare con se i resti dei propri cari.

In quei giorni il quartiere di Grbavica assomigliava a un posto da tragedia biblica: ovunque scene di panico, gli ultimi crimini compiuti in fretta, camion e carri a trazione animale pieni di roba rubata, gente che piangeva i propri morti seppelliti da lungo tempo. Furono proprio come recita un detto bosniaco: "Bei tempi per la gente cattiva".

In una di queste notti di buio pesto, non solo per la mancanza di luce ma anche per quello che succedeva dal punto di vista umano, i paramilitari serbi parcheggiarono un camion davanti a un palazzo semivuoto. Entrarono nell’appartamento, chiusero il papà nel bagno, e con tutta calma per l’intera notte trafugarono quello che era rimasto: caloriferi, lampadari, quadri, finestre, pentole, letti, divani, tappeti biancheria, oggetti personali come le medaglie con le quali il papà e la mamma furono decorati per la partecipazione alla Seconda guerra mondiale. Gli elettrodomestici bianchi, il televisore, la radio, i videoregistratori e quant’altro, erano già stati rubati all’inizio della guerra.

Ogni tanto uno dei criminali entrava nel bagno, il papà spaventato si alzava e quello gli ordinava di star seduto "perché se stai in piedi, vecchio, non posso tagliarti la gola". Cercavano i soldi che lui non aveva.

Infine, all’alba, appiccarono il fuoco all’appartamento, con il papà chiuso nel bagno. Fu salvato dagli amici e dai vicini. Una famiglia serba lo prese e lo tenne nascosto nel proprio alloggio per circa un mese. Correvano il rischio di essere uccisi tutti se fossero stati scoperti.

Tutto ciò lo abbiamo saputo dopo. Ma prima abbiamo trascorso cinque giorni senza sapere la sorte del papà. Cinque giorni di angoscia, di panico, di frenetica ricerca del cosa e come fare. Ci era giunta la notizia che "non c'è", nulla di più.

Mi ricordai che un americano, tale Daniel, un collega giornalista, si trovava a Sarajevo, ma dall’altra parte, quella sotto il controllo del governo centrale. Con grande difficoltà riuscii a contattarlo tramite un telefono satellitare, cosa rara e costosa all’epoca. Un’altra americana, tale Laura, fu coinvolta in questa ricerca disperata. Supplicai loro di fare "qualcosa" per il mio papà.

Daniel, rischiando lui stesso la vita nel caos che in quei giorni regnava a Grbavica, andò a cercarlo con un mezzo corazzato dell'Alto Commissariato per i Profughi. Una prima volta senza risultato. La seconda volta, invece, Daniel riuscì a scoprire che il papà era vivo e a sapere dove si nascondeva. Per aiutarlo gli lasciò 500 dollari! Una ricchezza che ti poteva salvare la vita.

Questa storia mi è venuta in mente leggendo la notizia che gli americani stanno per costruire l’ambasciata a Sarajevo.

Oggi i sarajevesi sperano che gli americani costruiscano il prima possibile questo palazzone; uno di quelli soliti con cinque piani sotterranei e altri dieci in alto, magari anche con diversi bunker, corridoi segreti, con le nuovissime attrezzature di spionaggio, pure con le armi, insomma, tutto quello che pare a loro.

Perché il messaggio più prezioso che ci fornisce questa notizia è che gli americani hanno intenzione di restarci. Ciò vuol dire che c'è speranza per la Bosnia Erzegovina. Lo ha confermato pure l’ambasciatore americano in Bosnia, English, dicendo: "Noi americani crediamo nel futuro della Bosnia Erzegovina, un futuro di un Paese indipendente, stabile e multietnico, capace di conquistarsi una sua collocazione in Europa".

E per quanto riguarda il mio papà? Non credo che avrebbe qualcosa in contrario alla presenza americana. Anzi! È sopravvissuto alla guerra, ha visto Sarajevo riunita e anche la famiglia ricongiunta dopo cinque anni di separazioni in cinque Paesi su tre continenti.

Io invece l’ho visto bere una grappa con l’amico americano, Daniel. Il papà gli dava pacche sulle spalle dicendo qualcosa che in inglese dovrebbe significare "Amici, amici". Poi lasciava a me fargli da interprete: il papà parlava in bosniaco e dopo, pazientemente e a lungo, ascoltava la mia traduzione in inglese confermando le parole con un cenno del capo.
 


 

APPROFONDIMENTO

 

LE Guerre jugoslave

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