FELICITÀ:
TUTTI LA CERCANO MA POCHI LA TROVANO.
(a cura di Claudio Prandini)
INTRODUZIONE
Che cos'è la Felicità?
Non è un'emozione, è un'energia interiore
che tutti abbiamo ma non lo sappiamo
Cominciamo a
distinguere la Felicità dalla Gioia, la prima dipende da un nostro atteggiamento
mentale, da una nostra condizione interiore, ed è presente in ognuno di noi.
Mentre la gioia e l’allegria sono manifestazioni emotive che dipendono
dall’esterno. Esse possono essere conseguenze della felicità ma non causa.
Infatti possiamo fingere d’essere allegri e gioiosi ma è molto più difficile
fingere d’essere felici.
Ma se la felicità è dentro ognuno di noi perché sembra così rara?? Il nostro
cervello è pronto a generare felicità in ogni istante ma spesso prevalgono in
noi ricordi e pensieri negativi. Quindi per essere felici è necessario aiutare
il cervello con un atteggiamento giusto, positivo, che agevoli la Felicità. La
Felicità è presente in noi sempre, essa si può celare anche nel dolore. Ogni
stato d’animo emotivo come piacere, dolore, tristezza e gioia contiene in sé la
possibilità della Felicità. Il pianto, se accettato, ci apre ad una
considerazione più larga della vita.
Ma quale potrebbe essere un atteggiamento giusto??? Spesso siamo noi a porre
condizioni alla Felicità, a renderci dipendenti e infelici, sempre alla ricerca
di qualcosa che arriverà domani o meglio solo quando qualcos’altro si sarà
realizzato. Allora cominciamo ad accogliere le emozioni come tristezza, sfiducia
e incertezza senza giudicarle e così aiutarle a sfumare, con un atteggiamento
mentale diverso e positivo. Potremmo approfondire l’argomento con dei vostri
casi specifici. Per ora vi posso dire che la nostra Felicità dipende non da
quanto abbiamo, ma da quello che siamo?
La ricerca della felicità - Film completo
Il coraggio della felicità
Tolstoj, Balzac, Fitzgerald: i grandi insegnano a crederci
Una
ricetta per uscire indenne da un truce pomeriggio estivo in città è pensare agli
amici. Immaginarli in sovraffollate spiagge alle prese con bambini pestiferi e
mogli assetate di sangue. La spaventosità della loro condizione è un ottimo
diversivo.
Ma alla lunga anche certi malevoli pensieri si rivelano insufficienti. L’altro
giorno ci ha pensato Italia Uno a salvarmi la vita. Regalandomi l’insperata
epifania di tre film, ciascuno in modo diverso un classico anni Ottanta: Sapore
di mare dei fratelli Vanzina, Il segreto del mio successo con Michael J. Fox. E
a chiudere, Guerre stellari.
Guardarli uno di seguito all’altro mi ha donato l’entusiasmo peloso - venato di
commozione e autoironia - da cui ti senti invaso quando ti trovi faccia a faccia
con una parte di te scomparsa per sempre: una felicità andata in fumo.
Bisognerebbe scrivere sul frontespizio
dello scatolone della felicità il titolo che Scott Fitzgerald diede a uno dei
suoi famosi saggi autobiografici: Attenzione, fragile. Non è forse quel tipo di
felicità lì - delicata e intermittente - che chi scrive e chi legge non smette
mai di inseguire? O almeno questo capitava una volta, agli albori, diciamo così,
della narrativa, fino a quando, a un certo punto, la felicità ha smesso di
godere di ottima stampa. Quando un pregiudizio moralistico ha iniziato a
demonizzarla. Quando i letterati hanno spostato la loro austera attenzione su
sediziosità sociologiche, miserabili constatazioni strutturali, facinorose
dispute politiche.
Questo fu il trauma che patii quando all’inizio degli anni Novanta iniziai a
studiare letteratura all’università. Erano tutti così seriosi e risentiti.
Leggere per il gusto di identificarsi era una pratica disdicevole, da sradicare
dalle teste e dai cuori delle poche riottose matricole.
Che cosa diavolo stava succedendo?
«Alle quattro, col batticuore, Lévin scese dalla vettura al giardino zoologico e
si avviò per una stradina verso le montagne russe e il campo da pattinaggio,
dove sapeva con certezza che l’avrebbe trovata, perché aveva visto la carrozza
degli Scerbàckij all’ingresso».
Confido che i fanatici di Tolstoj abbiano riconosciuto uno dei passi più
emozionanti di Anna Karenina. Quando Kostantin Lévin va al campo di pattinaggio
per incontrare Kitty. Nessuno ha saputo descrivere con tanta vivida potenza
l’emozione di un giovane uomo innamorato che sta per rivedere l’oggetto della
sua passione. Non c’è dettaglio (le quattro del pomeriggio, il cielo terso
dell’inverno, tutto quel bianco sfavillante, il cik-ciak della neve sotto le
scarpe e lo stridio dei pattini sul ghiaccio) che non partecipi con fervore
quasi religioso all’imbarazzante felicità da cui Lévin si sente invaso.
Ed ecco invece come Balzac, in Papà Goriot, dà conto dell’emozione che anima il
giovane Rastignac a un passo del primo grande trionfo sessuale: «Ci sono
emozioni che non si incontrano due volte nella vita dei giovani. La prima donna
veramente tale di cui si innamora un uomo, quella cioè che gli si mostra nello
splendore degli attributi che la società parigina richiede, non ha mai rivali.
L’amore com’è a Parigi, è del tutto diverso dagli altri amori».
Anche
qui, proprio come nella scena tolstoiana, c’è un’identificazione perfetta tra un
ragazzo e il luogo di sogno in cui si è ritrovato. Se là c’era una pista di
ghiaccio alle quattro di pomeriggio, qui c’è Parigi: la Parigi del faubourg
Saint-Germain, la Parigi di Balzac.
Certo, non ha quasi senso paragonare Lévin a Rastignac. A ben vedere i due non
si somigliano in niente. Il secondo se la sogna la magnanimità del primo, per
non dire del suo conto in banca. Si potrebbe persino ipotizzare una relazione
tra gli alti sentimenti di Lévin e la sua solidità patrimoniale, relazione non
meno profonda di quella che intercorre tra la meschinità di Rastignac e la sua
indigenza. Eppure ciò che li accomuna è l’aspirazione alla felicità. E il fatto
che i loro sommi creatori non provino alcun ritegno nel raccontarla. A costo di
essere pacchiani. A costo di esporsi al ridicolo.
E tuttavia mi piace notare come le felicità così splendidamente pregustate da
Lévin e Rastignac stiano per essere negate ad entrambi da un concatenarsi di
circostanze sfavorevoli. Sia Lévin che Rastignac dovranno aspettare un sacco di
tempo per tornare a godere quel tipo di felicità. E quando essa tornerà non avrà
più un sapore immacolato e primigenio. D’ora in poi per i nostri eroi solo
felicità di seconda mano.
Il dato beffardo della felicità è che essa non è mai in diretta ma, in un certo
senso, sempre in differita. Ed ecco perché di fronte a certe grandi felicità
romanzesche assistiamo alla realizzazione di una specie di discrasia temporale.
L’ineffabilità della felicità è sancita dal rapporto che si stabilisce tra
l’eroe del romanzo e il lettore. L’eroe del romanzo - Lévin o Rastignac - è lì
tutto preso dalla voluttà che sta per assaggiare. E dall’altra parte della
barricata c’è il lettore che sa che si tratta di una voluttà trascorsa: qualcosa
che, sebbene sulla carta debba ancora avvenire, altrove e in altro tempo è già
avvenuta. Questo produce nel lettore una specie di nostalgia: una nostalgia per
ciò che deve ancora capitare e che, in uno strano paradosso, è già capitato. La
nostalgia che conosce chiunque sia stato felice almeno una volta nella vita. Non
è proprio questo il dato assurdo della felicità? La sua incapacità di essere
contemporanea - esiliata com’è nel passato e nell’avvenire -, che produce,
persino in chi la assapora, la preventiva delusione per qualcosa che si va
sbriciolando?
Ed ecco perché la letteratura, molto più della vita, è il luogo deputato alla
felicità. Se la felicità per sua stessa natura è anacronistica allora nessuno
meglio del lettore (un essere condannato a vivere nel passato o proteso nel
futuro) è più adatto a goderne i frutti troppo acerbi o già avvizziti. Tanto più
perché la felicità, in presa diretta, è insostenibile, invivibile.
In un racconto di Mishima dedicato al sodalizio omoerotico tra Cocteau e
Radiguet troviamo scritto: «Era una vita che precipitava a una velocità
spaventosa verso la catastrofe. Era una vita spaventosa. Eppure non potevamo
viverla in un altro modo».
Sì,
c’è sempre qualcosa di catastrofico nella felicità. Scott Fitzgerald (campione
olimpico nella specialità «felicità perdute»), in uno scritto degli anni Trenta,
nel ricordare con struggimento l’euforia da lui vissuta un decennio prima,
scrive: «New York aveva tutta l’iridescenza del principio del mondo. (…) La
nostra era una grande nazione e c’era ovunque aria di gala». Notate come lo
spirito edenico con cui Fitzgerald parla di New York non è troppo diverso da
quello con cui Balzac parla di Parigi. E notate anche come, nel sentirli parlare
delle loro rispettive città elettive, il nostro cuore sia appesantito dal
sospetto di essere al cospetto di qualcosa di irripetibile e di
irrimediabilmente compromesso. Ruderi pieni di vita.
Occorre notare, infine, che gli scrittori capaci di realizzare felicità così
paradisiache sono di solito gli stessi in grado di fornirci gli scenari più
mostruosi e apocalittici: Tolstoj, Balzac, Proust, Fitzgerald, Nabokov… E questo
di certo non è un caso. Solo chi ha una così vivace familiarità con il Paradiso
può essere così terrorizzato dall’Inferno.
Ma allora perché, se tutto questo è vero, la letteratura ha rotto il suo
sodalizio millenario con la felicità? Cosa è successo? George Steiner, parlando
del cattivo carattere di Thomas Bernhard commenta: «Il guaio dell’odio è che ha
il fiato corto. Là dove l’odio produce un’ispirazione autenticamente classica -
in Dante, in Swift, in Rimbaud -, lo fa con delle folate su breve distanza.
Quando si protrae, diventa una sega monotona e mal affilata che ronza e stride
senza fine. L’ossessiva, indiscriminata misantropia di Bernhard, le filippiche
contro l’Austria ventiquattr’ore su ventiquattro minacciano di vanificare i loro
stessi scopi».
Che non sia Steiner, al solito, a mettere il dito sulla piaga? Non si vive di
solo odio. Lo sdegno perpetuo alla fine diventa un vezzo. Se la vita, nella
migliore delle ipotesi, è un’alternanza tra euforia e disperazione, allora anche
la letteratura deve esserlo. La letteratura deve dare conto delle intermittenze
del cuore. Solo così riesce a essere grande. Per questo ho sempre trovato
intollerabile, quasi illeggibile, 1984 di Orwell. Un libro tetro, privo di
gioia. Persino Dostoevskij, persino Kafka sono capaci di fervide seppur
momentanee felicità. Orwell ne è completamente incapace. L’ideologo uccide a
ogni riga il romanziere.
Insomma la ricetta è nella felicità. È grazie ad essa che - in un ipotetico
campionato mondiale tra pesi massimi - Catullo e Orazio vinceranno sempre su
Giovenale, Proust non smetterà mai di sbaragliare Céline e Tolstoj non avrà mai
rivali. Proprio perché anche l’odio, la disperazione, l’indignazione ogni tanto
hanno bisogno di un po’ di relax.
La ricerca della felicità
GIACOMO LEOPARDI
La ricerca della felicità
A scuola, quando si presenta la figura di Leopardi nelle classi, bisogna fin da subito sfrondare i pregiudizi a cui i ragazzi sembrano essere affezionati quando si parla dello scrittore, pregiudizi preconfezionati da tanta letteratura, da tanti «intellettuali che sanno», da molti professori che si accontentano del giudizio altrui su un autore, senza cercare di incontrarlo con il proprio cuore, come si incontra qualcuno che si aspetta da gran tempo. Ecco allora che dopo alcune lezioni incentrate sulla natura della domanda di felicità espressa in maniera geniale dal poeta, i ragazzi iniziano a riscontrare una corrispondenza tra il desiderio espresso nelle pagine del recanatese e il proprio cuore e ad avvertire una dissonanza tra quanto hanno sentito o letto e la parola che più incombe in maniera immeritata su tutta la produzione leopardiana: la parola “pessimismo”.
Questa parola è come una frana che cade dal monte sul bel paesino che è a valle, portando distruzione e rovina in tutto ciò che incontra, non lasciando altro che devastazione cosicché della bellezza che c’era prima in quel luogo nulla più rimane. Lo stesso accade per qualsiasi autore che venga bollato di “pessimista”, nel gergo dei ragazzi “lo sfigato”: l’espressione all’istante incenerisce la bontà delle intuizioni e del pensiero e cancella la bellezza della poesia. Le semplificazioni riducono la complessità dell’animo, le domande del cuore.
Si tratterà,
allora, di scoprire se non sia più adeguato il termine realismo per
gran parte dell’esplorazione umana compiuta da Leopardi sul cuore dell’uomo. Se
di fronte a tante pagine dello Zibaldone, i ragazzi sentono
una vicinanza, una sintonia, un calore, la percezione che quanto loro avevano
nel cuore è stato espresso in maniera più lucida, chiara (perché il genio
esprime meglio di noi ciò che noi sentiamo vero, ma non riusciremmo a tradurre
in immagini, parole, musica), sarà il segno che sul piano della descrizione e
rappresentazione dell’animo umano Leopardi ha raggiunto un livello di semplicità
(nel senso di non doppiezza e falsità) e, nel contempo, profondità rari, se non
unici. Se, poi, molte sue conclusioni, come vedremo, sono similari a quelle di
un libro veterotestamentario come il Qoelet o a quelle di un
autore cattolico come il Manzoni significherà pure che c’è grande sintonia tra
la visione antropologica giudaico-cristiana e quella leopardiana, almeno nelle
premesse e nell’impostazione del problema.
Anche nell’ultima fatica di Pietro Citati intitolata Leopardi
edita da Mondadori si legge che nel cuore della giovinezza del Genio recanatese
«un sistema di malattie si impadronisce del suo organismo […]; il sentimento,
l’entusiasmo si dileguano; l’infelicità umana è irrimediabile. Non gli resta che
sopportare». La tradizione critica vuole che Leopardi, in maniera scettica e
titanica, abbia combattuto contro la natura, mai arrendendosi, ma si sia arreso
al desiderio di felicità.
Centinaia di lettere indirizzate agli amici, ai familiari, alle donne da lui amate, agli intellettuali costituiscono il romanzo autobiografico di Leopardi e rivelano un cuore che palpita, che prova grandi affetti, che desidera in maniera instancabile la felicità. La lettura delle epistole scagionerebbe l’autore una volta per tutte dalle malevole accuse di misantropia da cui dovette difendersi in vita e che gli furono mosse anche dopo morte. Il cuore del corpus epistolare è il desiderio di vivo affetto, l’entusiasmo per le persone che si accompagna alla ricerca di rapporti che siano di totale condivisione dell’anima, la perenne ricerca di una felicità che non sia banale, ma completa.
Particolarmente significativa è una lettera che Leopardi indirizza all’amico belga A. Jacopssen il 23 giugno 1823. Ne riportiamo, qui, una buona parte. Essa ben testimonia il cuore di Leopardi e il nucleo delle domande vive che lo animano:
«[…] Senza
dubbio, mio caro amico, bisognerebbe o non vivere proprio o sempre sentire,
sempre amare, sempre sperare. La sensibilità sarebbe il più prezioso di tutti i
doni, se lo si potesse far valere, o se ci fosse a questo mondo qualche oggetto
a cui applicarlo. Vi ho detto che l’arte di non soffrire è di questi tempi la
sola che mi sforzo di imparare. Questo accade precisamente perché ho rinunciato
alla speranza di vivere. Se dalle prime esperienze non fossi stato convinto che
quest’arte era assolutamente vana e frivola per me, io non vorrei, non
conoscerei altra via che quella dell’entusiasmo. Per un certo periodo ho sentito
il vuoto dell’esistenza come se si trattasse di una cosa concreta che pesasse
gravemente sulla mia anima. Il nulla era la sola cosa che esistesse. Mi era
sempre davanti come un fantasma terribile; io non vedevo altro che un deserto
intorno a me, non concepivo come ci si potesse assoggettare alle cure che la
vita quotidianamente esige, pur essendo del tutto certi che non sarebbero
approdate mai a niente. Questo pensiero mi occupava tanto che io credevo per
causa sua quasi di perdere la ragione. […]
In verità, mio caro amico, la gente non conosce affatto il proprio
reale interesse. Io converrò, se si vuole, che la virtù, come tutto ciò che è
bello e tutto ciò che è grande, non sia che un’illusione. Ma se questa illusione
fosse comune, se tutti gli uomini credessero di potere e volessero essere
virtuosi, se fossero compassionevoli, caritatevoli, generosi, magnanimi, pieni
d’entusiasmo; in una parola, se tutti fossero sensibili (giacché io non faccio
alcuna differenza tra la sensibilità e quello che si chiama virtù), non si
sarebbe forse più felici?[…]
Nell’amore, tutte le gioie che provano le animi volgari, non
valgono il piacere che dà un solo istante di rapimento e d’emozione profonda. Ma
come far sì che questo sentimento sia duraturo, o che si rinnovi spesso nella
vita? dove trovare un cuore che gli corrisponda? In più d’una occasione io ho
espressamente evitato per qualche giorno di incontrare l’oggetto che mi aveva
affascinato in un sogno delizioso. Io sapevo che quel fascino sarebbe svanito
accostandosi alla realtà. Tuttavia io pensavo sempre a quell’oggetto, ma non lo
consideravo per quel che era; lo contemplavo nella mia immaginazione, tale quale
mi era apparso nel sogno. Era una follia? Son io romantico? Voi giudicherete.
[…]
Che cos’è dunque la felicità, mio caro amico? e se la felicità non
esiste, che cos’è dunque la vita? Io non ne so nulla; vi amo, vi amerò sempre
così teneramente, così fortemente come ho altre volte amato quei dolci oggetti
che la mia immaginazione si compiaceva di creare, quei sogni nei quali voi fate
consistere una parte della felicità. In effetti non spetta che all’immaginazione
di procurare all’uomo la sola specie di felicità positiva di cui egli sia
capace. È vera saggezza cercare questa felicità nell’ideale, come voi fate.
Quanto a me, io rimpiango il tempo in cui mi era concesso ricercarla, e vedo,
con una sorta di sgomento, che la mia immaginazione sta diventando sterile, e mi
rifiuta tutto quel soccorso che mi offriva in passato.[…]»
Colpisce il tono affettuoso che anima il testo, caratteristico delle lettere in cui Leopardi si rivolge ad amici con cui condivide profondamente pensieri, esperienze di vita, aspettative e domande sull’esistenza. Jacopssen è ripetutamente apostrofato proprio con il termine «amico», colui che ha «confidenza» con l’altro e conosce «i segreti di un cuore», che è oggetto di «devozione» e del «più vivo attaccamento». Appare interessante il fatto che l’amicizia è così richiamata proprio in una lettera in cui Leopardi mette a tema la domanda di felicità che alberga nel cuore dell’uomo. Il poeta descrive la grandezza dell’attesa dell’animo umano e, nel contempo, l’esperienza del deserto, dell’inutilità e dell’inanità del tutto, del vuoto dell’esistenza, della vanitas vanitatum di cui parla il libro di Qoelet. Le cose appaiono sempre insufficienti e inadeguate alla capacità dell’animo. La consapevolezza del proprio desiderio, della precarietà del proprio essere e della finitudine dei beni non si traduce, però, in cinismo o in scetticismo, ma in domanda. Così Leopardi chiede all’amico Jacopssen: «Che cos’è, dunque, la felicità? E se la felicità non esiste che cos’è dunque la vita?». Non è finta modestia o falsa umiltà, presente spesso in molti intellettuali o in tanti uomini di cultura, ma desiderio autentico di attingere una possibile risposta dall’esperienza di un amico. La domanda più vera e connaturata al cuore dell’uomo riguarda la felicità, ma l’uomo può sostituirla con l’ambizione e la pretesa di essere buono o di essere sempre migliore in un titanismo che non dà sollievo all’umana arsura oppure la rimpiazza con altre domande che riducono la statura della domanda di felicità o con risposte preconfezionate, in un atteggiamento da «bruto» dantesco o da «gregge» leopardiano. Nessuno sforzo umano può riuscire a colmare quel desiderio di infinito che sentiamo nel cuore né tanto meno può giungere a cogliere da solo la natura di quell’infinito a cui l’uomo anela.
Per questo l’atteggiamento del cuore che emerge in questa lettera potrebbe preludere alla conversione. Leopardi, infatti, si rende conto che è vera saggezza cercare la felicità nell’Ideale e ha nostalgia dell’epoca in cui ancora perseguiva ciò. Il Recanatese riconosce che l’amico affronta la questione con «ragionevolezza e profondità».
Che cos’è questo Ideale a cui fa riferimento il poeta? Una risposta plausibile potrebbe già comparire nella lettera. Leopardi, infatti, dice chiaramente che la vita non può essere veramente tale senza l’esperienza di un grande amore. Quando uno ha sperimentato un grande amore, tutto il resto appare piccino. Dirà al riguardo il filosofo Romano Guardini: «Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito». Per questo, a detta di Leopardi, nella vita non bisogna perdersi in amori volgari, ma occorre ricercare l’amore vero, l’emozione profonda, quella che tocca il cuore. Perché la vita possa definirsi davvero tale deve essere caratterizzata dal «sempre amare, sempre sperare». L’uomo deve, perciò, trovare o imbattersi in qualcosa o qualcuno su cui riversare il proprio amore, che diventi così oggetto della propria sensibilità. In questo caso l’uomo vivrebbe con entusiasmo. Se l’uomo si abbandonasse all’entusiasmo, alla virtù, alla generosità, sarebbe più felice. Questa lettera che è la prova più incontestabile che la domanda di felicità non è venuta meno in Leopardi anche nei momenti di maggiore sconforto.
POESIE SULLA FELICITÀ
Felicità
C’è un’ape che si posa
su un bocciolo di rosa:
lo succhia e se ne va…
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.
Trilussa
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La Felicità
Quando, all'alba, dall'ombra s'affaccia,
discende le lucide scale
e svanisce; ecco dietro la traccia
d'un fievole sibilo d'ale,
io la inseguo per monti, per piani,
nel mare, nel cielo: già in cuore
io la vedo, già tendo le mani,
già tengo la gloria e l'amore.
Ahi! ma solo al tramonto m'appare,
su l'orlo dell'ombra lontano,
e mi sembra in silenzio accennare
lontano, lontano, lontano.
La via fatta, il trascorso dolore,
m'accenna col tacito dito:
improvvisa, con lieve stridore,
discende al silenzio infinito.
Giovanni Pascoli
****************
Sono Felice Perché
Sono felice perché...
nella vita ho sempre cercato istintivamente la mia felicità.
Sono felice perché...
ci sono,
perché posso vedere,
perché mi emoziono,
perché amo;
Sono felice perché...
sei quello che scegli d'essere
e mi accetti per quello che sono;
Sono felice perché...
tu riesci a sentirmi da lontano,
anche se non ascolti la mia voce;
Sono felice perché...
ho ricevuto un regalo prezioso,
cioè la tua vera e sincera amicizia.
Jean-Paul Malfatti
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Ode Al Giorno Felice
Questa volta lasciate che sia felice,
non è successo nulla a nessuno,
non sono da nessuna parte,
succede solo che sono felice
fino all’ultimo profondo angolino del cuore.
Camminando, dormendo o scrivendo,
che posso farci, sono felice.
Sono più sterminato dell’erba nelle praterie,
sento la pelle come un albero raggrinzito,
e l’acqua sotto, gli uccelli in cima,
il mare come un anello intorno alla mia vita,
fatta di pane e pietra la terra
l’aria canta come una chitarra.
Tu al mio fianco sulla sabbia, sei sabbia,
tu canti e sei canto.
Il mondo è oggi la mia anima
canto e sabbia, il mondo oggi è la tua bocca,
lasciatemi sulla tua bocca e sulla sabbia
essere felice,
essere felice perché sì,
perché respiro e perché respiri,
essere felice perché tocco il tuo ginocchio
ed è come se toccassi la pelle azzurra del cielo
e la sua freschezza.
Oggi lasciate che sia felice, io e basta,
con o senza tutti, essere felice con l’erba
e la sabbia essere felice con l’aria e la terra,
essere felice con te, con la tua bocca,
essere felice.
Pablo Neruda
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E Crescendo Impari
E crescendo impari che la felicità non e' quella delle grandi cose.
Non e' quella che si insegue a vent'anni, quando,
come gladiatori si combatte il mondo per uscirne vittoriosi...
La felicità non e' quella che affannosamente si insegue
credendo che l'amore sia tutto o niente,...
non e' quella delle emozioni forti che fanno il "botto"
e che esplodono fuori con tuoni spettacolari...,
la felicità non e' quella di grattacieli da scalare,
di sfide da vincere mettendosi continuamente alla prova.
Crescendo impari che la felicità e' fatta di cose piccole ma preziose....
...e impari che il profumo del caffé al mattino e' un piccolo rituale di
felicità,
che bastano le note di una canzone, le sensazioni di un libro dai colori che
scaldano il cuore,
che bastano gli aromi di una cucina, la poesia dei pittori della felicità,
che basta il muso del tuo gatto o del tuo cane per sentire una felicità lieve.
E impari che la felicità e' fatta di emozioni in punta di piedi,
di piccole esplosioni che in sordina allargano il cuore,
che le stelle ti possono commuovere e il sole far brillare gli occhi,
e impari che un campo di girasoli sa illuminarti il volto,
che il profumo della primavera ti sveglia dall'inverno,
e che sederti a leggere all'ombra di un albero rilassa e libera i pensieri.
E impari che l'amore e' fatto di sensazioni delicate, di piccole scintille allo
stomaco,
di presenze vicine anche se lontane, e impari che il tempo si dilata e che quei
5 minuti sono preziosi
e lunghi più di tante ore,e impari che basta chiudere gli occhi, accendere i
sensi, sfornellare in cucina,
leggere una poesia, scrivere su un libro o guardare una foto per annullare il
tempo
e le distanze ed essere con chi ami.
E impari che sentire una voce al telefono, ricevere un messaggio inaspettato,
sono piccolo attimi felici.
E impari ad avere, nel cassetto e nel cuore, sogni piccoli ma preziosi.
E impari che tenere in braccio un bimbo e' una deliziosa felicità.
E impari che i regali più grandi sono quelli che parlano delle persone che
ami...
E impari che c'e' felicità anche in quella urgenza di scrivere su un foglio i
tuoi pensieri,
che c'e' qualcosa di amaramente felice anche nella malinconia.
E impari che nonostante le tue difese,
nonostante il tuo volere o il tuo destino,
in ogni gabbiano che vola c'e' nel cuore un piccolo-grande
Jonathan Livingston.
E impari quanto sia bella e grandiosa la semplicità.
Anonimo
****************
Ama la vita
Ama la vita così com'è
Amala pienamente,senza pretese;
amala quando ti amano o quando ti odiano,
amala quando nessuno ti capisce,
o quando tutti ti comprendono.
Amala quando tutti ti abbandonano,
o quando ti esaltano come un re.
Amala quando ti rubano tutto,
o quando te lo regalano.
Amala quando ha senso
o quando sembra non averlo nemmeno un po'.
Amala nella piena felicità,
o nella solitudine assoluta.
Amala quando sei forte,
o quando ti senti debole.
Amala quando hai paura,
o quando hai una montagna di coraggio.
Amala non soltanto per i grandi piaceri
e le enormi soddisfazioni;
amala anche per le piccolissime gioie.
Amala seppure non ti dà ciò che potrebbe,
amala anche se non è come la vorresti.
Amala ogni volta che nasci
ed ogni volta che stai per morire.
Ma non amare mai senza amore.
Non vivere mai senza vita!
Madre Teresa di Calcutta
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Felicità
La felicità è un sentimento segreto, esclusivo,
inquisitorio, dolcissimo e supremamente crudele.
Vi si sta arroccati come in un palazzo di ferro e cemento, dalle grandi vetrate;
nello stesso tempo è un riflesso sull'acqua che non solo la brezza,
ma l'ombra di un passante può alterare....La felicità non si narra.
Si può appena, come la pioggia scorrendo a rivoli sui vetri traccia e scancella
delle figurazioni,
annotare i momenti salienti che ci consentono di intravederla.
E un'altra cosa so della felicità: che essa è muta.
Vasco Pratolini
APPROFONDIMENTO
La felicità tra poesia e filosofia