SCUOLA ITALIANA: VERSO
UN MODELLO AZIENDALE?
IL MODELLO YANKEE TOGLIE PERÒ SOLDI
ANCHE ALLE SCUOLE PARITARIE CATTOLICHE
(a cura di Claudio Prandini)
INTRODUZIONE
di Claudio Prandini
Cosa sta accadendo alla scuola italiana? La scuola è un po' lo specchio della nostra società, se essa è in crisi è perché la società stessa è in crisi, e non penso che il prendere come esempio modelli che sono al di fuori della nostra tradizione e della nostra cultura faccia bene sia al paese come alla scuola. Tutti hanno il diritto di andare a scuola, ricchi e poveri, sani e disabili, tanto che i padri della nostra Costituzione hanno scritto nero su bianco che "La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso" (Art. 34).
Ora però con i tagli previsti e il relativo modello culturale che ci sta dietro il diritto allo studio dei disabili, tanto per fare un esempio, sarà messo fortemente a rischio. Senza maestra d'appoggio dovranno riaprire gli istituti con le loro scuole speciali? Ritorneremo all'apartheid sociale di alcuni decenni fa?
Se ci sono problemi finanziari si convochi il mondo della scuola, dei partiti, della società civile e si cerchi delle soluzioni il più eque e giuste possibili. Ok al taglio dei rami secchi, agli sprechi, al ritorno della serietà nella scuola, ma tenendo sempre la barra dritta su ciò che la nostra Costituzione dice in proposito. Purtroppo c'è un cancro che sta divorando l'Italia ed è l'ideologismo settario, per cui ad ogni maggioranza c'è la sua riforma che, puntualmente, sarà in senso contrario alla precedente riforma della precedente maggioranza. Ma si può andare avanti così? Qui stiamo parlando di scuola non di noccioline! La scuola è di tutti e non della maggioranza di turno. E non c'è solo la scuola pubblica ma anche quella paritaria e cattolica che svolge un ruolo non piccolo nel nostro paese. La vogliamo affossare con la scusa che non ci sono i soldi?
L'altro giorno negli ambienti parlamentari dei cattolici del centrodestra, secondo fonti di stampa, girava la voce di un complotto laico-socialista-massonico per colpire la scuola e in particolare la paritaria cattolica. Ora è impossibile dire su quali basi fattuali sia fondata questa voce, però non bisogna dimenticare un fatto accaduto proprio in questi giorni, ovvero ciò che ha detto il venerabile massone Licio Gelli in una Tv privata. In pratica il noto massone e piduista Licio Gelli, implicato nella nota vicenda della P2, ha appoggiato in pieno il governo e la Gelmini e li ha incoraggiati ad andare avanti. Ora, tutti sanno che la Massoneria ha sempre avversato la Chiesa e il messaggio che essa porta, compreso le scuole cattoliche. Le dichiarazioni di Gelli sono solo un fatto isolato oppure espressione di un appoggio ben più ampio della massoneria italiana verso certi "tagli"?
Del resto, come bisogna interpretare le parole del Gran Maestro Raffi (Goi) nel luglio di quest'anno (2008), quando afferma: "...Una scuola cattolica, così come una scuola ebrea o musulmana finirebbero per minare le fondamenta del tessuto sociale, frustrando la funzione primaria dell'organizzazione scolastica che è quella di riunire in un unico patto di fratellanza persone nate e vissute in ambiti familiari provenienti da terre e da tradizioni differenti" (vedere qui).
Il Vangelo dal canto suo insegna: "dai frutti li riconoscerete...".
***
COMUNICATO STAMPA A.GE.S.C.
Per la libertà di educazione Legge Finanziaria nuova, scenario vecchio. Sembra impossibile ma accade ancora. Nelle tabelle della Finanziaria 2009, presentate dal Governo alla Camera, risultano per il 2009 tagli per 133,4 milioni di euro alla scuola paritaria. Poco importa che deputati della maggioranza in commissione abbiano posto come “condizione” per dare un parere favorevole alla finanziaria il “reintegro” di questi 133,4 milioni di euro. Il segnale dato è chiaro e preciso: da una parte i tagli, dall’altra impegni al reintegro.
La Legge 62/2000, approvata con il governo D’Alema, aveva promesso alle scuole non statali prima la parità giuridica poi quella economica. Così non è stato. La parità giuridica, che implica doveri, è stata realizzata. Ma ancora nulla da fare per la parità economica: mancano le risorse per consentire la libera scelta educativa dei genitori.
Questa Finanziaria può rendere drammatica la situazione: invece di incrementare le risorse destinate al sistema paritario, ferme ai livelli del 2000, ipotizza addirittura un taglio delle risorse, mentre le scuole paritarie vanno sempre più verso la chiusura, causa le gravi difficoltà economiche in cui si trovano sia le scuole, sia le famiglie. Con il risultato di riversare nella scuola statale molti allievi, aggravando così la situazione finanziaria dello Stato, considerato che il costo sostenuto dallo Stato nella scuola statale è pressoché il doppio per alunno.
La cosa è per certi versi incomprensibile. Il dossier Agesc in vista della Finanziaria dello scorso anno ha trovato ampi ed autorevolissimi consensi anche nell’attuale maggioranza. Nei fatti però i segnali sono ancora negativi. E’ come se il sistema dei partiti avesse assunto a regola di comportamento l’incoerenza palese con gli impegni assunti. Gran brutto segno.
Il vero nodo è la mancanza di una cultura di promozione della famiglia e della sussidiarietà. Per cui i provvedimenti non seguono la logica della sussidiarietà, il sostegno e la promozione delle istanze che nascono dalla società civile, ma appaiono ancora come una gentile concessione. Una "sussidiarietà alla rovescia" per cui le famiglie e le scuole paritarie continuano ogni anno a finanziare lo Stato, e non viceversa, per il non indifferente ammontare di 6.245 milioni di euro.
Il rischio concreto è che venga a mancare al sistema nazionale di istruzione il contributo fondamentale della scuola paritaria, espressione di una tradizione secolare. Se venisse meno questo contributo, sarebbe un impoverimento per tutti, proprio quando l’attuale grave emergenza educativa richiede l’impegno ed il coinvolgimento di ogni realtà educativa significativa.
Il Parlamento e la maggioranza di Governo non possono sottrarsi ad una loro precisa responsabilità: limitazione della libertà di scelta delle famiglie si riflette negativamente sulle famiglie meno abbienti.
Il ministro Gelmini
Legge Gelmini: Arrivano le
proteste del Vaticano
Berlusconi si concentra sull’economia che va male. E’ la settimana in cui il premier gradirebbe poter prendere l’iniziativa, annunciando decisioni a sostegno di imprese e famiglie. Qualcosa tipo la detassazione delle tredicesime gli era sfuggito già dopo la manifestazione del Pd al Circo Massimo, salvo rimangiarselo di corsa per la grande freddezza di Tremonti. Il titolare dell’Economia oggi e domani sarà impegnato all’estero nelle riunioni con i suoi colleghi europei: del tutto escluso che in sua assenza possa maturare qualche provvedimento. Si capirà meglio martedì, al pre-consiglio dei ministri, che cosa bolle concretamente in pentola.
A giudizio di ambienti governativi
responsabili, l’ipotesi più realistica è che arrivi rapidamente in porto il solo
decreto legge sulle banche. Consisterebbe in un provvedimento di
ricapitalizzazione «leggera», volto a non far mancare credito alle industrie di
casa nostra stressate dalla recessione e dalla crisi finanziaria. Ma il nodo
politico vero riguarda gli interventi per imprese e famiglie. Il Cavaliere è
giunto alla conclusione che un segnale va dato, il governo non può starsene a
girare i pollici. Poi, certo, i soldi scarseggiano: si tratterà di riforme che
non costano, oppure pesano molto poco sulle casse dello Stato. La fantasia dei
tecnici si è sbizzarrita nel suggerire proposte. Sul tavolo di Tremonti ce n’è
una pila: si va da forme di controllo su prezzi e tariffe, specie nella grande
distribuzione, a ipotesi di dilazione per l’Iva che verrebbe pagata (come stava
scritto nel programma elettorale del Pdl) al momento dell’incasso. Berlusconi
vorrebbe profittarne per correggere certi aspetti controversi della Finanziaria
triennale, varata a luglio: capitoli di spesa marginali, sul piano dei numeri,
ma grane politiche grosse così.
Un grattacapo del Cavaliere certamente riguarda la scuola privata. Rimbalza
notizia da Oltretevere di una viva irritazione ecclesiastica per i tagli, di
recente scoperti nelle pieghe della manovra estiva, agli istituti paritari. Sono
133 milioni di euro su 535 precedentemente stanziati, in pratica un quarto del
totale. Nel giro cattolico di centrodestra qualcuno già sparge la voce
(impossibile dire su che basi fattuali) di un complotto
laico-socialista-massonico per colpire la scuola cattolica. A calmare le
acque non è bastata finora la promessa berlusconiana di intervenire
personalmante.
Berlusconi è stato chiamato in causa da «Repubblica» sulla riforma
universitaria. Avrebbe deciso di rinviarla per un bel po’, non volendo prestare
il fianco a nuove proteste. Bonaiuti, portavoce del premier, è stato tartassato
dall’alba di domenica, tutti volevano sapere cosa c’era di vero. Interpellato il
Capo, Bonaiuti ha negato ufficialmente lo stop, anzi «il presidente Berlusconi è
convinto che l’università abbia bisogno di una seria e profonda riforma, cui sta
lavorando il governo». «Repubblica» conferma la sua versione, sfidando
Berlusconi a varare la riforma entro questa settimana, come la Gelmini aveva
promesso nei giorni scorsi. Facile scommessa, poiché è noto che giovedì il
Cavaliere volerà a Mosca in visita di Stato, e venerdì (quando solitamente si
riunisce il Consiglio dei ministri) dovrà trovarsi a Bruxelles per il Consiglio
europeo.
Uno slittamento dunque è scontato. Resta da chiarire se il ritardo sarà breve,
nel qual caso poco cambia per professori e studenti, oppure la riforma finirà
nel cassetto. Ambienti vicinissimi alla Gelmini giurano che la prima risposta è
quella buona. La sovraesposizione, anche mediatica, del ministro è stata tale da
suggerirle una pausa di 10-15 giorni al massimo, quanto basta «per far
dimenticare aggressioni polemiche e critiche gratuite». Ne hanno ragionato
insieme Berlusconi e Bossi nella loro ultima chiacchierata, che risale a
mercoledì. Però poi qualcosa il ministro dovrà fare per forza. La Finanziaria di
Tremonti ha già deciso in anticipo economie (63 milioni di euro) e risparmi sul
personale (218 milioni) che dal 1 gennaio 2009 scatteranno comunque. Senza la
riforma, i tagli colpirebbero alla cieca. E finirebbero per fare ancora più
male.
Casini 1: no ai tagli della scuola
Casini 2: no ai tagli della scuola paritaria
In morte della scuola
Fonte web - di Luigi Copertino
Quel che avviene in Italia è sempre
caratterizzato da una buona dose di ridicolo.
Siamo alle prese con una riforma della scuola, quella della Gelmini, contestata,
come al solito, da studenti e professori.
Ma il pensiero dicotomico, il dualismo monista destra/sinistra, la cui
peculiarità è separare e contrapporre ciò che invece dovrebbe avere carattere
unitario in ordine alle scelte politiche, la fa ancora una volta da padrone.
La Gelmini, e con lei tutto il centrodestra, si dichiara portatrice della
filosofia del ripristino, nelle scuole e nelle università, del principio di
Autorità cui è legato quello del merito.
Ma, ed ecco il punto dolente, dietro tale giusta filosofia ed imprescindibile
necessità si nasconde invece la vera ideologia che guida l’attuale governo:
quella della privatizzazione di funzioni essenziali dello Stato come è, appunto,
il sistema educativo e l’affidamento di tali funzioni, in nome di una malintesa
sussidiarietà, a privati nell’illusione che capitali privati possano migliorare
l’istruzione laddove invece riusciranno soltanto a sviarla verso fini
particolaristici.
D’altro canto i contestatori difendono il carattere pubblico del sistema
scolastico ma non vogliono sentir parlare di Autorità e merito, principi
abdicando ai quali, dal sessantotto in giù, si è ridotta la scuola nell’attuale
stato comatoso ed anarchico ben rappresentato dal video che è circolato su
Youtube della professoressa che si faceva palpare il deretano dagli alunni in
classe o da quell’altra professoressa che docente di giorno faceva poi la «bella
di notte» o, ancora, da quel professore che fumava spinelli insieme agli alunni.
Il ridicolo o, se volete, il tragico sta anche nel fatto che mentre il ministro
della pubblica istruzione si sbraccia per riaffermare autorità e merito nella
scuola, le TV di Stato e quelle del «Salame», che attualmente governa ed al
quale deve rispondere la Gelmini, trasmettono in continuazione film e fiction,
sul tipo «Provaci ancora Prof», per supportare massmediaticamente la tipologia
politicamente corretta del professore «amico» degli alunni, che fa da pendant a
quella del padre o della madre «amici» e mai genitori ed educatori.
Metteteci, poi, programmi Mediaset come «Amici» di Maria De Filippi o il
Maurizio Costanzo Show e potete toccare con mano la contraddizione tra le
pubbliche enunciazioni di «restaurazione» del governo ed il clima epocale,
riflesso e ad un tempo alimentato dai massmedia, del tutto contrario ad ogni
ipotesi di società nella quale principi come quelli di Autorità, genitorialità,
merito, possano avere corso.
Assistiamo ad una tragica, e falsa, contrapposizione tra due anime del medesimo
progetto politico liberale: l’anima (liberal)conservatrice e l’anima (liberal)progressista.
Da un lato conservatori che invocano il ripristino dell’Autorità dello Stato,
chiamato a vigilare severamente sull’ordine pubblico e sull’educazione dei
giovani, senza però mettere in discussione il liberismo economico, quello
responsabile dell’attuale catastrofe finanziaria mondiale, e dall’altro lato
progressisti che negano, secondo l’utopia anarco-marxiana della società
auto-gestita, utopia speculare a quella liberale del libero mercato, il
principio di Autorità, essenziale al primato del pubblico sul privato, ma poi
pretendono la conservazione di essenziali servizi pubblici.
Una evidente contraddizione in termini, frutto del pensiero dicotomico di cui
sopra che separa ed oppone ciò che dovrebbe stare assieme.
.
Sì, perché invocare l’Autorità dello Stato dovrebbe significare anche affermare
il primato del politico sull’economia, e dunque l’anti-liberismo, ed invocare
l’autogestione anarchica della società dovrebbe significare anche affermare l’anti-statualismo
e quindi il primato della società civile, che è poi il luogo mercantile delle
relazioni sinallagmatiche di scambio economico, sullo Stato ridotto a cassa di
risonanza delle voglie e delle pulsioni, anche contro-natura, di questa o quella
lobby od occulto potere indiretto.
Invece il modello perseguito dal governo del «Salame» è nient’altro che il
«liberismo autoritario» alla Reagan, alla Tatcher, alla Pinochet.
Ossia quello dei Chicago boys: i monetaristi di Milton Friedmann consulenti
delle dittature militari sudamericane, imposte dagli Stati Uniti, negli anni
‘80.
Il modello dei contestatori della Gelmini è invece ancora quello, vecchio,
superato e stantio (e non a caso gli studenti sono capeggiati dai loro
professori ex-sessantottini), del marxfreudismo anni ‘60 con il suo slogan
permissivista «vietare vietare».
Quello berlusconiano è nient’altro che l’importazione, anti-europea, dagli Stati
Uniti del modello neoconservatore che come ha osservato Emmanuel Ratier:
«…reagisce contro il ‘New Deal’ e l’assistenzialismo (ma solo per amalgamare)
l’economia capitalista e la politica sociale conservatrice: respinge
l’intervento dello Stato in economia, ma ne mantiene il controllo nel dominio
sociale (scuola, arti, media e pubblicazioni)»
(1).
Ed ecco le università trasformate in Fondazione private allo scopo di incanalare
la didattica e la ricerca esclusivamente verso le esigenze del mercato.
Il modello dei contestatori e di Veltroni è quello delle baronie sessantottine
che, all’epoca, contestando da sinistra i vecchi baroni hanno poi ricreato nuove
e più ferree gerarchie baronali ma culturalmente «vuote», e dunque prive di
legittimità universitaria, organizzate dal clientelismo del PCI, come ben sa
chi, non essendo di sinistra, si è visto negare la docenza universitaria per
mancanza di opportuni appoggi politici.
I vecchi baroni, contro cui si scagliò la contestazione sessantottina, erano
però di un livello culturale ed accademico che l’università oggi si sogna.
Si trattava di veri e propri studiosi destinati a rimanere negli annali e nella
storia dello scibile umano.
Solo qualche nome, culturalmente trasversale, per fare alcuni esempi: Augusto
Del Noce, Noberto Bobbio, Michele Federico Sciacca, Galante Garrone.
A quei vecchi baroni è succeduta una classe docente del tutto approssimativa che
alla cattedra è arrivata, salvo naturalmente le eccezioni alla regola, che pur
ci sono ma sono rarissime, per spinta politica ingessando e bloccando l’intero
sistema, con danno, guarda caso, proprio di quei giovani che per motivi
anagrafici non hanno potuto partecipare alla grande abbuffata accademica del
‘68, ed anni successivi, e che oggi contestano la Gelmini.
Da sponde culturali e politiche opposte, furono Augusto del Noce e Pier Paolo
Pasolini ad osservare che quella del ‘68 è stata una rivoluzione intraborghese,
ossia la rivoluzione generazionale, in nome del sesso libero, fatta non dagli
operai o dalla povera gente (l’operaismo venne dopo e finì nella tragedia del
terrorismo) ma dai figli di papà contro i padri benestanti che facevano fare
loro la bella vita universitaria.
Ed infatti dove sono oggi i capi e capetti del ‘68, i Paolo Mieli, i Gad Lerner,
i Paolo Flores d’Arcais, i Massimo Cacciari, etc., se non tutti seduti sulle
poltrone del potere giornalistico,
universitario, politico e multinazionale, quel potere massonico e liberale,
anticristiano, che, come libertari, contestavano ma solo perché ne volevano
portare a compimento l’essenza più nascosta,
quella «adelphiana», per la liberazione dei costumi, ancora troppo segnati
dall’antico spirito cattolico, e per sgombrare in tal modo da ogni ostacolo, da
ogni residuo Katéchon cristiano che ancora permaneva nella società quarantanni
fa, la strada al globalismo liberistico?
Ed anche quando, come Sofri, quei capi della contestazione stanno dignitosamente
pagando continuano ad essere circondati dalla venerazione massmediale.
I contestatori parigini del Maggio Francese, nel 1968, non hanno mai saputo di
aver fatto un favore agli Stati Uniti, al loro odiato «imperialismo», mettendo
in crisi e facendo cadere il governo del generale De Gaulle e la sua politica
anti-americana.
Affossando De Gaulle l’imbecille sinistra francese spianò, tra l’altro, la
strada anche all’eurocrazia sinarchica monnettiana che oggi ha in pugno l’Europa
nel nome del dogma liberista.
Spengler ebbe una volta ad osservare che la sinistra fa sempre il gioco del
grande capitale.
Il governo Berlusconi non riesce a nascondere, dietro il bel richiamo a
sacrosanti principi come quello di Autorità, le sue vere intenzioni: fare un
favore al mercato delegandogli un «monopolio naturale», che è poi anche uno
degli attributi della stessa sovranità statuale, come il sistema educativo e
scolastico.
Ed è esattamente per questo che Berlusconi e la Gelmini non sono credibili: non
si può chiedere ad un imprenditore, ed al suo ministro, di ragionare in termini
di Stato perché essi, e lo dicono apertamente, guardano allo Stato non come alla
Comunità politica di Aristotele e di san Tommaso d’Aquino ma come ad una azienda
che deve ridurre i costi per fare maggiori profitti.
Che i costi debbano essere ridotti, razionalmente, non è dubitabile di fronte a
situazioni, create dall’anti-statualismo della sinistra (chi crede che la
sinistra sia statalista si sbaglia di grosso: essa è solo spendacciona delle
risorse pubbliche), come scuole elementari con cinque alunni e tre maestre
oppure corsi universitari con due soli studenti.
Ma il punto è che Berlusconi non vuole davvero restaurare l’Università (e la
scuola), questa invenzione, insieme all’ospedale, del medioevo cristiano, ma
solo trasformarla in una azienda «bocconiana» per sfornare schiere di Giavazzi e
di Draghi pronti a sostenere, come sostengono, che il mercato, anche quando
crolla su se stesso, ha sempre e comunque ragione.
I ragazzi delle organizzazioni giovanili della destra (che dovrebbe essere)
nazionale, e non liberista, lo hanno, seppur confusamente, percepito e
manifestano pure loro benché, per non scontentare troppo Fini/Kippà o
Alemanno/Pacifici o la Meloni/mini(e)stra, in modo «istituzionale», salvo quelli
extraparlamentari facenti capo ai «centri sociali nazionali», sul tipo della «CasaPound»,
che sono invece in prima fila nelle piazze, a fianco dei loro coetanei di
sinistra e contro Berlusconi e la Gelmini, con il braccio in alto nel saluto
romano.
La verità riguardo al problema della scuola italiana è che, in realtà, dopo la
riforma Gentile il sistema scolastico ed universitario italiano non ha mai più
avuto una vera ed autentica riforma, degna di tal nome.
Insieme alla riforma gentiliana bisogna senza dubbio ricordare anche
l’essenziale integrazione che ad essa apportò il ministro Giuseppe Bottai,
«fascista di sinistra» e uomo di grande cultura, apertissimo al dialogo anche
con gli intellettuali antifascisti, morto dopo essere approdato, come Mussolini,
alla fede cattolica, per consentire anche ai giovani meritevoli delle classi
meno abbienti di poter effettivamente accedere a licei ed università, cosa che
il testo di Gentile riconosceva solo formalmente.
Ma la riforma Gentile/Bottai, sulla quale la scuola italiana si è
sostanzialmente basata fino agli anni ottanta, era ispirata a criteri non
aziendalistici, anche laddove accoglieva le nuove istanze ed esigenze di
modernizzazione socio-economica dell’Italia secondo i criteri di un regime
nient’affatto (liberal)conservatore ma autoritario-modernizzatore.
Si trattava della riforma ideata da un regime che dello Stato, inteso come
Comunità politica, faceva, forse fin troppo, la forma essenziale della nazione.
Un regime che senza dubbio improntava la sua azione al primato del Politico
sull’economia e che proprio per questo riuscì anche a varare l’intervento dello
Stato in economia, mediante l’IRI, per salvare aziende e posti di lavoro durante
la crisi finanziaria mondiale degli anni ‘30 (un intervento statuale, dunque,
ben diverso dai piani di salvataggio delle banche e degli speculatori come
quelli in questi giorni messi in atto in America ed in Europa), ponendo, per
tale via, le basi del successivo decollo dell’economia italiana nonché quelle
dello Stato sociale di mercato, del dirigismo, anche nel nostro Paese.
Quel modello di Stato sociale, all’epoca inaugurato, fu poi travolto dall’uso
che in regime partitocratrico, con le annesse e connesse clientele
partitico-sindacali, se ne fece, soprattutto dagli anni sessanta in poi quando
le giuste spinte ad una maggior partecipazione dal basso, tendenti a maggior
giustizia sociale, hanno poi oltrepassato il limite della giustizia stessa
sfociando nel rivendicazionismo libertario-individualista.
Nella scuola, ad esempio, questo esito nichilista e libertario della
contestazione significò andare oltre la giusta garanzia per i meritevoli senza
mezzi di poter accedere, alla pari con gli abbienti o in modo preminente
rispetto ad essi se non altrettanto meritevoli, anche ai livelli superiori degli
studi, cosa alla quale già, come si è visto, Bottai aveva aperto la strada, per
sprofondare, e proprio il caso di dirlo, nell’università di massa ossia nel
«tutti laureati» che è come dire «nessun laureato», come stanno a dimostrare la
disoccupazione intellettuale e la svalutazione del diploma di laurea con la
conseguenza che ormai si parla apertamente di togliere ad esso ogni valore
legale.
Ma voler ora riformare, come vogliono Berlusconi e la Gelmini, la scuola su un
modello aziendale, se è coerente con il liberismo berlusconiano, è del tutto
anti-politico ossia del tutto al di fuori di una tradizionale concezione
statuale ispirata al principio, per l’appunto tradizionale, di Autorità politica
temperata dal Bene comune.
I contestatori, nipoti della cultura a-statuale ed autogestionaria, non hanno
però alcun efficace argomento contrario alla concezione berlusconiana della
scuola proprio perché l’aziendalizzazione del sistema educativo, cui mira
l’attuale governo, è la logica conseguenza dell’anti-stuatualismo sessantottino.
Si tratta di dinamiche particolari all’interno della più generale ed epocale
«morte dello Stato», della dissoluzione nichilista dello Stato nel mercato
globale, del franamento, già preparato, appunto, dalla contestazione
anti-autoritaria del ‘68, della verticalità, a suo modo trascendente, dello
Stato nell’orizzontalità del mercato o della società civile.
Ai raduni libertari e pacifisti della generazione dei «figli dei fiori», alla
quale appartenevano i professori degli attuali contestatori che li portano i
piazza, sono succeduti i «drive in» e «le iene» berlusconiane ossia la stanca
generazione degli «amici» della De Filippi: dissacrazione in apparente
universale fraternità in un caso, dissacrazione nell’euforia permissiva della
simulazione mediatica dell’idealismo giovanile nell’altro.
Non si può, infatti, dire «principio di Autorità» senza dire «primato dello
Stato», del Politico, della Comunità Politica, ossia senza contestare
radicalmente il liberalismo sia nella sua versione conservatrice, quella del
centrodestra, che nella sua versione progressista, quella del centrosinistra.
Anche i mali della Pubblica Amministrazione sono il frutto di quel franamento
dello Stato, sopra accennato, verso il mercato, verso il modello aziendale e,
quindi, verso la contrattualizzazione e la sindacalizzazione del pubblico
impiego che dello Stato è oggi la controparte contrattuale e non si identifica
più, per immedesimazione organica, con lo Stato stesso, e dunque non ne coltiva
più il senso etico come facevano i maestri unici di un tempo, dalla giacca lisa
sempre uguale ma dignitosi, quelli della generazione di Blondet ma anche quelli
della generazione di chi scrive più giovane di quella del direttore.
I vecchi maestri unici, come tutti i pubblici dipendenti di un tempo ormai
lontano, avevano un senso alto, e socialmente riconosciuto, del proprio «onore
sociale», del proprio ruolo, e si sentivano «servitori dello Stato» più che
dipendenti del medesimo.
Essi concepivano la propria funzione come «servizio», e servizio cavalleresco,
fedele, ma non al cittadino(degradato ad)/utente, come «personalisticamente» si
dice oggi (mettere al centro l’individuo), bensì a qualcosa che trascendeva loro
stessi e persino la società e che poteva essere lo Stato, il re, la nazione o la
patria.
Il servizio pubblico un tempo aveva qualcosa di sacerdotale e di sacramentale:
non a caso, ad esempio, esso constava anche di veri e propri riti giuridici,
dalle dichiarazioni giurate o asseverate da testimoni per l’accertamento notorio
di fatti o notizie, alla consacrazione notarile di documenti a garanzia della
«fede pubblica», fino ai giuramenti, ormai non più in uso, nei processi civili e
penali.
La forma e la formula, la consacrazione giurata, il rituale persino gestuale
(«alzi oppure metta la mano destra sulla Bibbia e giuri di dire la verità e
tutta la verità») evidenziavano il carattere in qualche modo sacrale degli atti
pubblici e di coloro che li ponevano in essere o di fronte ai quali li si poneva
in essere.
Il pubblico funzionario si sentiva un po’ sacerdote ed un po’ militare, ad
imitazione della Chiesa e dell’esercito, e sentiva su di sé, pena il disonore
sociale e l’additamento al ludibrio dell’intera comunità, il peso del giuramento
pubblicamente prestato all’atto dell’incardinazione nel proprio ufficio (sì!, si
diceva proprio così, «incardinazione», ad imitazione del termine canonico con
cui si indica l’assunzione di qualcuno alla dignità cardinalizia: ed anche il
termine «ufficio», oggi sostituito con quello più aziendale di unità
organizzativa, era mutuato dal santo «officio» sacerdotale.
Del resto il termine «ministro» non deriva forse da quello ecclesiale di
«ministro del culto»?).
Il funzionario pubblico dunque un tempo rispondeva ad una «vocazione» mentre
oggi egli risponde tutt’alpiù solo all’esigenza occupazionale, pur legittima, di
avere un posto ed uno stipendio.
Ecco perché tutte le chiacchiere del ministro Brunetta sono destinate a
risolversi in un bel nulla: perché anche Brunetta agisce in un’ottica di
aziendalizzazione, e federalizzazione, dello Stato e concepisce ciò che è
pubblico non come Comunità politica ma come mero erogatore aziendale di servizi.
Un erogatore certo inefficiente se privo, come è privo, di senso dello Stato in
chi quello Stato dovrebbe rappresentare.
Anzi in chi con quello Stato dovrebbe identificarsi: ad iniziare, più che dai
dipendenti pubblici, che seguono a ruota, come alunni, l’esempio cattivo dei
cattivi maestri, dai presidenti della repubblica che accusati di aver intascato
cento milioni di lire al mese dai servizi segreti non solo non si dimettono ma
hanno anche il coraggio di urlare in TV, edizione straordinaria del TG, «Io non
ci sto!» o che costano all’erario più della regina d’Inghilterra, dai presidenti
delle aule parlamentari che fanno pesca subacquea dove non si può, dagli
onorevoli con l’amante e l’amante del figlio a carico del bilancio pubblico, dai
parlamentari, cosiddetti «pianisti», che, mentre Brunetta si inventa norme per i
dipendenti pubblici assenteisti, votano anche per i colleghi assenti falsando,
tra l’altro, la tanto retoricamente sacralizzata «volontà popolare».
Brunetta sta riducendo l’area della contrattualizzazione del rapporto di lavoro
pubblico allo scopo di ridurre l’interferenza sindacale nella gestione
amministrativa, ma in realtà lo sta facendo in quell’ottica aziendale, di
liberismo autoritario, specularmente contraria, in un gioco dialettico degli
specchi, al permissivismo libertario della sinistra e che non va affatto nella
direzione della restaurazione del senso dello Stato, innanzitutto in interiore
hominis, ossia nelle coscienze di chi allo Stato da «vita».
Brunetta fallirà ontologicamente anche laddove riuscisse, come è riuscito
nell’arginare l’assenteismo, ad ottenere risultati di maggiore efficienza,
perché senza un sentire più alto, senza adesione della coscienza ad un Bene
comune che travalica l’egoismo del singolo, non ci sarà mai davvero Comunità ma
soltanto relazioni contrattuali per la regolazione simmetrica dello scambio
economico finalizzato al perseguimento concorrenziale, che il liberismo presume
sempre benefico per la collettività, dei propri interessi individuali.
La scuola, l’università, in genere i servizi pubblici, non sono, non possono
essere né essere concepiti come un’azienda.
Lo Stato, la Comunità Politica, non è una azienda.
Lo Stato è (dovrebbe essere) «regalità».
Concepire lo Stato come un’azienda equivale a concepirlo come un esercito di
(s)ventura e non come un esercito, magari di professionisti, ma pubblico e di
militari fedeli solo alla Patria.
Non a caso i capitani di ventura del XVI secolo, i Gattamelata, i Braccio da
Montone, furono figure in auge prima della istituzione di stabili eserciti
statuali ed altro non erano che imprenditori, professionisti dell’arte della
guerra, che mettevano a disposizione del miglior offerente i loro mercenari.
Ma, a differenza dei militari statali, i mercenari o tradivano perché era loro
offerto un contratto più vantaggioso oppure fuggivano non appena le cose sul
campo di battaglia si mettevano male o ancora «scioperavano» quando non
ricevevano la paga nella misura promessa (e spesso il committente per sopperire
alle sue mancanze lasciava loro mano libera nel saccheggio del territorio
nemico: non vigeva ancora lo Jus Publicum Europaeum).
Le guerre si perdono sicuramente, senza neanche la dignità che di solito è
propria della nobiltà della sconfitta, quando si fanno per contratto.
Gli Stati Uniti, che mandano in Iraq ed in Afghanistan i mercenari reclutati
dalla Dina Corps ad affrontare gente che sarà pure fanatica ma è sicuramente
idealmente motivata, e che, pertanto, stanno perdendo la guerra, ne sanno
qualcosa.
Così anche lo Stato è perdente se viene concepito nichilisticamente come
un’azienda.
I giapponesi, figli di un’antica cultura samurai ossia forgiata da precisi e
tradizionali codici cavallereschi, lo avevano a tal punto capito che, prima
dell’ultimo ventennio di devastante globalismo che ha distrutto anche il tessuto
tradizionale nipponico, avevano addirittura «militarizzato», dunque «statualizzato»,
le aziende che essi organizzavano come moderni «feudi» con il posto fisso a vita
per i lavoratori al modo degli antichi contadini che non potevano essere
cacciati dalle loro terre per il capriccio dello shogun.
Come i mercenari non intendevano affatto morire per il loro committente al quale
erano legati solo contrattualisticamente, così i cittadini, non solo i pubblici
dipendenti, non fanno affatto «sacrifici» per un’azienda.
Si fanno sacrifici, ed all’occorrenza si può anche morire o rischiare la pelle,
per una patria, giusta, non per lo Stato/azienda.
Il venerabile (massone) Licio Gelli
IL MASSONE Licio Gelli in tv
Appoggia il governo e la Gelmini
"L'unico che puo' andare avanti e' Silvio Berlusconi". Lo ha detto - riferendosi al 'piano di rinascita democratica' - l'ex gran maestro della loggia P2, Licio Gelli, nel corso della trasmissione 'Venerabile Italia', presentata oggi a Firenze e che andra' in onda su Odeon Tv a partire da lunedi' prossimo.
Berlusconi, secondo Gelli, puo' portare avanti questo progetto "non perché era iscritto alla P2, ma perché ha la tempra del grande uomo, che ha saputo fare, anche se ora dimostra un po' di debolezza, perché non si avvale della maggioranza parlamentare che ha. Non condivido il Governo Berlusconi - ha poi proseguito l'ex gran maestro - perché se uno ha la maggioranza deve usarla, senza interessarsi della minoranza. Ci sono provvedimenti che non vengono presi perché sono impopolari e invece andrebbero presi. Bisogna affondare il bisturi o non si puo' guarire il malato".
Se dovesse morire Berlusconi, cosa che non gli
auguro perché la morte non si augura a nessuno, Forza Italia non potrebbe
andare avanti perché non ha una struttura partitica". Non c'è stato nessun
commento da parte del governo
D'accordo con la Gelmini
"In linea di massima sono d'accordo con la riforma Gelmini perché ripristina un po' di ordine". Spiega Gelli, "il maestro unico e' molto importante perché, quando c'era, conosceva l'alunno" e poi "il tema dell'abbigliamento e' importante perché l'ombelico di fuori non dovrebbe essere consentito".
Quanto alle manifestazioni studentesche, "non ci dovrebbero essere: gli studenti dovrebbero essere in aula a studiare, bisognerebbe proteggere chi vuole studiare - sostiene Gelli - Nelle piazze non si studia: se viene garantita la liberta' di scioperare, dovrebbe essere tutelato anche chi vuole studiare, e molti in piazza non ne hanno voglia" e "dovrebbe essere proibito portare i bambini in piazza perché cosi' non crescono educati".
Riferendosi poi a quale forza politica, secondo lui, abbia messo in pratica il piano di rilancio democratico, Gelli ha aggiunto: "tutti si sono abbeverati, tutti ne hanno preso spunto. Ma i partiti veri non esistono piu', non c'e' piu' destra o sinistra. A sinistra ci sono quindici frange e la destra non esiste. Se dovesse morire Berlusconi, cosa che non gli auguro perché la morte non si augura a nessuno, Forza Italia non potrebbe andare avanti perché non ha una struttura partitica".
Rispondendo ancora ad una domanda dei giornalisti sul 'lodo Alfano', Gelli ha poi aggiunto che "l'immunita' ai grandi dovrebbe essere esclusa, perché al Governo dovrebbero andare persone senza macchia e che non si macchiano mai". Infine, sull'eventuale figura in grado di succedere a Berlusconi, Gelli ha detto: "avevo molta fiducia in Fini, perché aveva avuto un grande maestro come Giorgio Almirante. Oggi non sono piu' dello stesso avviso, perché ha cambiato".
APPROFONDIMENTO
Prima di esprimere una nostra valutazione sulle manifestazioni di piazza e sul dibattito parlamentare di questi ultimi giorni, vogliamo richiamare alcune espressioni che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha recentemente pronunciato in due distinte occasioni: il discorso di apertura dell’anno scolastico 2008-09 nel Palazzo del Quirinale; la risposta ad una lettera pervenutagli da parte di una rappresentanza degli studenti dell’Università “La Sapienza” di Roma: (....)
MANNAIA SUI FONDI DELLE SCUOLE PARITARIE
da Avvenire - 29 ottobre 2008
La scure dei tagli colpisce anche la scuola paritaria. L`amara notizia arriva con il testo della ma- novra finanziaria per il 2009: ben 133 milioni di euro in meno in un capitolo di bilancio che ne conta complessivamente 534. Un taglio secco del 24,9% dell`intera somma destinata a quasi I I mila istituti, tra scuole dell`infanzia e scuola primaria paritaria. (....)
L’ASSOCIAZIONISMO CATTOLICO CONTESTA LA GELMINI
A partire da Famiglia Cristiana, ormai da diversi mesi assai critica nei confronti dell’esecutivo, che sul numero del 26 ottobre titola con nettezza: “Non chiamiamo riforma un semplice taglio di spesa”. E spiega: “Studenti e professori hanno seri motivi per protestare. E non per il voto in condotta o il grembiulino (che possono anche andar bene), ma per i tagli indiscriminati che ‘colpiscono il cuore pulsante di una nazione’....