SINODO MEDIO ORIENTE:
UNA CHIESA SCHIACCIATA TRA ISLAM E ISRAELE E
ORA SI PROFILA ANCHE L'OMBRA DI UNA GUERRA
(a cura di Claudio Prandini)
In Medio Oriente si respira ormai una strana sensazione di oscuri presagi di guerra. Rapporti sempre più circostanziati parlano di paesi come la Siria, Hezbollah in Libano e lo stesso Iran alle prese con i preparativi per una feroce difesa militare in caso di attacco. Per contro Israele e Usa stanno ultimando a loro volta i preparativi per un attacco su vasta scala verso il Libano meridionale, la Siria e soprattutto l'Iran. Con la sostanziale vittoria dei repubblicani nelle ultime elezioni americane di medio termine il partito della guerra ha vinto e il confronto con l'Iran sarà perciò ancora più duro. A questo riguardo un articolo di un giornale israeliano (Haaretz del 6 novembre 2010) mette in guardia Israele e USA: bombardare l'iran sarà il punto di non ritorno per molti in Medio Oriente e non solo in Medio Oriente e renderà l'Iran più forte. Fin'ora, conclude l'articolo, Israele non ha saputo imparare dalla storia... Lo farà ora? Altro fattore importante in questo scacchiere è la posizione sempre più netta della Turchia che recentemente ha classificato Israele come paese "destabilizzatore" dell'area mediorientale. Non era mai successo dal dopoguerra. L'America, nel frattempo, sta vendendo ai paesi del Golfo suoi alleati, come l'Arabia Saudita, grossi quantitativi di armi ad alta tecnologia come mai era successo prima. In vista di che cosa? In occidente invece si assiste ad una raffica di allarmi per pacchi bomba spediti dallo Yemen. False flags per preparare l'opinione pubblica occidentale a ciò che sembra ormai inevitabile? Se è così, come sembra, allora preparatevi perché quel conflitto, voluto da Israele con il supporto americano e con l'uso di armi nucleari, farà crollare la già traballante economia globale con conseguenze epocali per l'intero pianeta! È questo che quello vogliono? Muoia Sansone con tutti i filistei?!? |
SINODO MEDIO ORIENTE: MONS. ETEROVIĆ,
“È STATA UN’ESPERIENZA DI PENTECOSTE”
“È stata un’esperienza di Pentecoste”. Così mons. Nikola Eterović, segretario generale del Sinodo dei vescovi, giudica – in un’intervista al SIR (clicca qui) – i lavori dell’assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi (Vaticano, 10-24 ottobre 2010). “Siamo grati alla Divina provvidenza – afferma il vescovo, ripercorrendo alcuni momenti dell’assemblea – per la felice conclusione dell’assise sinodale sul tema della comunione e della testimonianza della Chiesa cattolica nel Medio Oriente. Sotto l’ispirazione dello Spirito Santo e sotto l’illuminata guida del Santo Padre Benedetto XVI, i 185 padri sinodali hanno approfondito il tema della comunione ecclesiale strettamente legato alla testimonianza”. In effetti, aggiunge mons. Eterović, “si può affermare che senza la comunione non esiste la testimonianza cristiana. Si tratta di comunione a vari livelli”. In primo luogo, “essa riguarda la comunione all’interno di ognuna delle 6 Chiese orientali cattoliche sui iuris”. In secondo luogo, “la comunione si riferisce ai rapporti tra le Chiese di diversa tradizione in Medio Oriente. Una maggiore comunione tra la Chiesa di tradizione latina e le 6 Chiese orientali cattoliche è la migliore condizione per intensificare il dialogo ecumenico e approfondire l’unione con le Chiese e comunità cristiane che non sono ancora in piena unità con la Chiesa cattolica”.
“I pastori, rappresentanti della Chiesa di tradizione latina come pure di 6 Chiese orientali cattoliche sui iuris (copta, siriaca, melchita, maronita, caldea, armena) – ricorda mons. Eterović, facendo il punto sui lavori sinodali – hanno riferito sulle gioie e sulle speranze, sulle difficoltà e sulle sfide dei fedeli affidati alle loro cure pastorali nei rispettivi Paesi”. Tra le difficoltà, afferma mons. Eterović, “i padri sinodali hanno lamentato la mancanza della libertà religiosa, l’attività di gruppi fondamentalisti, l’instabilità, la violenza e la guerra in alcuni Paesi della regione, che sono la causa principale dell’emigrazione dei loro fedeli”. Inoltre, “i padri hanno riflettuto sul modo di assicurare per loro un’adeguata cura pastorale nei Paesi dove si trovano attualmente. È stato assai presente il tema dell’immigrazione di numerosi cristiani in alcuni Paesi del Medio Oriente dove, in genere, non sono riconosciuti sufficientemente i loro diritti”. I lavori sinodali, conclude mons. Eterović, sono stati caratterizzati dalla “speranza cristiana” che “non si fonda su progetti e sforzi umani bensì sulla divina Provvidenza che guida la storia e gli uomini, in particolare nel Medio Oriente, regione dove hanno avuto luogo i grandi eventi della storia della salvezza. I cristiani ne sono testimoni vivi, pietre vive di una Chiesa viva” e “vogliono essere sempre più lievito di una società pacifica”.
Cristiani nel Medio Oriente.
Schiacciati tra l'islam e Israele
Il dramma della Chiesa nelle sue terre d'origine analizzato da un sinodo a Roma. I punti critici. Le proposte di cambiamento. Ma c'è chi vede nello stato ebraico la causa di tutti i mali.
ROMA,
19 ottobre 2010 – Il sinodo speciale per il Medio Oriente (....) getta luce su
una porzione di cristianità in drammatico movimento, in più direzioni e dal
futuro incerto.
L'esodo dei cristiani da quelle terre è una parte importante di questo
movimento. Ma non è un fenomeno nuovo. Nella prima metà del Novecento lo
sterminio e la cacciata degli armeni, e poi dei greci, dalla Turchia furono di
colossali proporzioni. Oggi l'esodo continua da più luoghi e in varia misura.
Sta di fatto che a fronte dei dodici milioni di fedeli delle antiche Chiese
d'Oriente che oggi vivono tra l'Egitto e l'Iran, circa sette milioni vivono
ormai fuori.
Gli armeni sono da molti decenni più numerosi nella diaspora che nella terra
d'origine. I maroniti libanesi hanno diocesi di loro emigrati negli Stati Uniti,
in Canada, Messico, Brasile, Argentina, Australia. I siro ortodossi hanno una
eparchia in Svezia. Gli iracheni hanno creato una "Chaldean Town" nell'area
metropolitana di Detroit. I cristiani di Betlemme emigrano per la gran parte in
Cile.
Contemporaneamente, però, è in atto nel Medio Oriente anche un movimento
inverso. Nella sola penisola arabica – stando a quanto hanno detto in sinodo i
due vicari apostolici della regione, Paul Hinder e Camillo Ballin – i cattolici
venuti da fuori in cerca di lavoro sono già tre milioni, per la maggior parte
dalle Filippine e dall'India.
I paesi arabi del Golfo "hanno grande bisogno di manodopera", ha spiegato il
vescovo indiano di rito siro-malabarese Bosco Puthur, dalla cui regione sono
partiti in 430 mila. Ma l'avventura di questi emigranti è molto amara, se
misurata sulle libertà religiose e civili. L'arcivescovo di Addis Abeba,
Berhaneyesus Demerew Souraphiel, ha detto che le migliaia di donne che partono
ogni anno dall'Etiopia per il Medio Oriente, come lavoratrici domestiche, per
ottenere i visti d'ingresso "cambiano i loro nomi cristiani in nomi musulmani e
si vestono come musulmane, così indirettamente forzate a rinnegare le loro
radici", e in ogni caso vanno incontro a una vita di "sfruttamento e abusi".
Nel descrivere la condizione in cui vivono i cristiani nei paesi musulmani del
Medio Oriente i vescovi hanno usato parole comprensibilmente prudenti. Con poche
eccezioni.
Uno dei più crudi è stato il rappresentante in Giordania del patriarcato dei
caldei iracheni. Ha detto che c'è "una deliberata campagna per cacciare i
cristiani. Ci sono piani satanici dei gruppi fondamentalisti estremisti contro i
cristiani non solo in Iraq ma in tutto il Medio Oriente".
L'iraniano Thomas Meram, arcivescovo di Urmya del Caldei, non ha esitato a
citare il salmo di Davide: "Per te ogni giorno veniamo massacrati". E ha
proseguito: "Ogni giorno i cristiani si sentono dire, dagli altoparlanti, dalla
televisione, dai giornali, che sono infedeli e per questo vengono trattati come
cittadini di seconda categoria".
Tutto l'opposto di quanto ha asserito in aula lo stesso giorno, giovedì 14
ottobre, l'ayatollah iraniano Seyed Mostafa Mohaghegh Ahmadabadi, ospite del
sinodo, secondo il quale "in molti paesi islamici, soprattutto in Iran, i
cristiani vivono fianco a fianco in pace con i loro fratelli musulmani. Essi
godono di tutti i diritti legali come ogni altro cittadino ed esercitano
liberamente le proprie pratiche religiose".
Ma il sinodo è più che una semplice ricognizione sullo stato di vita dei
cristiani nel Medio Oriente.
Dal dibattito sono emersi giudizi critici sulla Chiesa cattolica in quei paesi e
proposte di cambiamento.
CRISTIANI DIVISI
Un primo giudizio critico riguarda la disunione della Chiesa cattolica nel Medio
Oriente.
Le cinque grandi tradizioni a cui essa si richiama – alessandrina, antiochena,
armena, caldea, bizantina – e gli ancor più numerosi riti in cui si articola
producono spesso divisione, incomprensioni e chiusure, invece che arricchimento
reciproco.
"Una Chiesa etnica e nazionalistica si oppone all'opera dello Spirito Santo", ha
ammonito l'arcivescovo iraniano di Teheran dei caldei, Ramzi Garmou.
E ne aveva i motivi. Il vescovo egiziano di Assiut dei copti, Kyrillos William,
si è scagliato in aula contro i confratelli di rito latino poiché, celebrando
anch'essi in arabo le loro liturgie, "attirano i nostri fedeli e li distaccano
dalla nostra Chiesa".
Anche il vescovo dei greco-melchiti d'Australia, Issam John Darwich, ha
lamentato la "crescente intolleranza fra le Chiese cattoliche orientali". E ha
portato ad esempio "la triste situazione del Libano, dove ogni Chiesa sembra
essere interessata a ottenere benefici politici per se stessa e più delle altre
Chiese".
In effetti il Libano è sì un paese nel quale i cristiani godono di libertà
maggiori che in altri paesi del Medio Oriente, ma è anche quello così descritto
in sinodo da un suo vescovo greco-melchita, Georges Nicolas Haddad:
"La libertà di religione e di coscienza resta appannaggio delle 18 comunità
storicamente riconosciute (12 cristiane, 4 musulmane, una drusa e una ebrea).
Chiunque non ne faccia parte è escluso da ogni diritto all'esercizio delle sue
libertà. Ogni tentativo caratterizzato da un proselitismo da parte dell'una o
dell'altra comunità può provocare reazioni estreme e talvolta violente. Ogni
conversione è percepita come un colpo profondo inferto alla comunità d'origine
del convertito e costituisce una rottura sociale".
Muhammad Al-Sammak, consigliere del Gran Mufti del Libano e altra personalità
musulmana invitata a parlare nel sinodo, non ha detto molto di diverso quando ha
dichiarato – in aula – che "la presenza cristiana in Oriente è una necessità sia
cristiana che islamica" e – fuori dall'aula, in una conferenza stampa – che "il
credere è materia di coscienza ma quando il cambiare religione è anche cambiare
'parte' diventa un atto di tradimento dello stato e così deve essere trattato".
Su questo sfondo, numerose voci si sono levate nel sinodo per raccomandare più
unità tra le Chiese cattoliche della regione, e tra queste e le Chiese ortodosse
e le confessioni protestanti.
In particolare, si è proposto di concordare al più presto una data comune per la
celebrazione della Pasqua.
Alcuni hanno esortato al dialogo con i musulmani "illuminati", disposti a una
"lettura critica del Corano" e a una "interpretazione delle leggi musulmane nel
loro contesto storico".
PIÙ POTERI AI PATRIARCHI
Una seconda serie di proposte ha riguardato la cura pastorale dei fedeli delle
Chiese cattoliche del Medio Oriente emigrati all'estero, il ruolo dei
patriarcati e il loro rapporto con la sede di Roma.
Di norma, i patriarchi e i vescovi hanno giurisdizione sui rispettivi territori,
non sui fedeli emigrati in paesi lontani. Ma in alcuni casi questi ultimi sono
ormai più numerosi dei fedeli rimasti in patria. E se lasciati senza cura,
tendono ad abbandonare le tradizioni delle loro Chiese d'origine. Parecchie
voci, nel sinodo, hanno quindi chiesto di dare autorità ai patriarchi e ai
vescovi sull'intero gregge dei loro fedeli, dovunque essi siano, in patria e
all'estero.
Assieme a questa richiesta, alcuni hanno anche rivendicato la libertà di inviare
dei sacerdoti sposati per la cura pastorale dei fedeli orientali in diaspora. In
Occidente, infatti, dove il clero è celibe, non è consentita la presenza con
incarichi pastorali di sacerdoti orientali sposati. Ma aumentando il numero
degli emigrati ed essendo il basso clero delle Chiese orientali quasi tutto
sposato, è sempre più difficile per i patriarchi e i vescovi orientali trovare
dei sacerdoti celibi da inviare all'estero per la cura dei loro fedeli. Da cui
la richiesta di far cadere il divieto.
Quanto al ruolo dei patriarcati, è affiorata più volte nel sinodo la richiesta
di "restituire" loro l'autorità che avevano nei primi secoli della Chiesa, in
rapporto al papa. In particolare dando loro più autonomia nel nominare i vescovi
del luogo. E anche associandoli "ipso facto" al collegio che elegge il sommo
pontefice, "senza la necessità di ricevere il titolo latino di cardinali".
Insomma, assegnando al papa "una nuova forma di esercizio del primato ispirata
alle forme ecclesiali del primo millennio", con il ruolo dei patriarchi
rafforzato. Tutto questo anche al fine di avvicinare le posizioni della Chiesa
cattolica a quelle delle Chiese ortodosse d'Oriente.
IN MISSIONE TRA I MUSULMANI
Un terzo blocco di proposte ha riguardato la "necessità di ricuperare l'aspetto
missionario della Chiesa". Una proposta nuova e coraggiosa in paesi a dominante
musulmana, da parte di Chiese che per ragioni storiche e per motivi di
sopravvivenza si sono in larga misura chiuse su se stesse.
Il vescovo egiziano di Luqsor dei copti, Youhannes Zakaria, ha detto che
nonostante le difficoltà e i pericoli "la nostra Chiesa non deve avere paura né
vergogna, e non deve esitare a obbedire al mandato del Signore, che le chiede di
continuare la predicazione del Vangelo".
E l'arcivescovo iraniano di Teheran dei caldei, Ramzi Garmou, è andato ancora
più al fondo di questa esigenza. Dopo aver detto che "un nuovo soffio
missionario" è vitale "per far cadere le barriere etniche e nazionaliste che
rischiano di asfissiare e rendere sterili le Chiese d'Oriente", ha richiamato
"l'importanza fondamentale della vita monastica per il rinnovamento e il
risveglio delle nostre Chiese".
E così ha proseguito:
"Questa forma di vita, nata in Oriente, è stata all'origine di un'espansione
missionaria straordinaria e di una testimonianza ammirevole delle nostre Chiese
nei primi secoli. La storia ci insegna che i vescovi venivano scelti tra i
monaci, vale a dire tra uomini di preghiera e di vita spirituale profonda, con
una grande esperienza delle 'cose di Dio'. Oggi purtroppo la scelta dei vescovi
non obbedisce agli stessi criteri e ne constatiamo i risultati, che non sempre
sono positivi. L'esperienza bimillenaria della Chiesa ci conferma che la
preghiera è l'anima della missione; è grazie a essa che tutte le attività della
Chiesa sono rese feconde e danno molti frutti. D'altronde, tutti coloro che
hanno partecipato alla riforma della Chiesa e le hanno restituito la sua
bellezza innocente e la sua giovinezza eterna sono stati fondamentalmente uomini
e donne di preghiera. Non per nulla nostro Signore ci invita a pregare
incessantemente. Constatiamo con rammarico e amarezza che i monasteri di vita
contemplativa, fonte di abbondanti grazie per il popolo di Dio, sono quasi
scomparsi dalle nostre Chiese d'Oriente. Che grande perdita! Che peccato!".
È facile ravvisare in queste parole l'eco della tesi di papa Joseph Ratzinger
secondo cui il segreto del buon governo della Chiesa – e della sua riforma – è
il "pensiero illuminato dalla preghiera".
ISRAELE "CORPO ESTRANEO"?
In un sinodo dedicato al Medio Oriente c'era infine da aspettarsi un importante
riferimento a Israele e agli ebrei.
Quasi nessuno, invece, ne ha parlato. L'unico padre sinodale che vi ha dedicato
l'intero intervento è stato, l'11 ottobre, il vicario patriarcale di Gerusalemme
per i cattolici di lingua ebraica, il gesuita David Neuhaus, il quale ha
auspicato più comunione, in Israele, tra i cattolici di lingua araba e quelli
ebreofoni.
Questi ultimi, si sa, sono considerati da molti confratelli arabi un corpo
estraneo. E la Santa Sede non li aiuta, rinunciando a nominare un vescovo che si
dedichi alla loro cura.
Il 13 ottobre ha preso la parola nel sinodo, in qualità di invitato, il rabbino
David Rosen, consigliere del Gran Rabbinato di Israele. Il suo è stato un
intervento di ampio respiro, molto positivo e di grande apprezzamento dell'opera
dell'attuale papa e del suo predecessore.
Ma dopo di lui nessuno, nel sinodo, ha dato seguito alle sue parole di dialogo
tra ebrei e cristiani.
Rimanendo l'aula in quasi totale silenzio sul tema, ha così avuto maggior
risonanza un documento fatto circolare fuori dell'aula sinodale: un documento
intitolato "Kairòs – Un momento di verità"(*)
e sfrenatamente anti-israeliano nei contenuti. In esso l'occupazione da
parte di Israele dei territori è definita "un peccato contro Dio e l'umanità" e
la stessa fondazione dello stato ebraico è fatta risalire a un senso di colpa
dell'Occidente a motivo dell'Olocausto, per sanare il quale si sarebbe occupata
la terra dei palestinesi. Il documento termina con l'invito a boicottare
Israele.
La genesi di "Kairòs" risale a diversi mesi fa. Quando fu reso pubblico per la
prima volta, l'11 dicembre 2009 a Betlemme, il documento recava le firme del
patriarca emerito di Gerusalemme dei latini, Michel Sabbah, dell'arcivescovo
greco-ortodosso Atallah Hanna (acerrimo rivale del patriarca greco-ortodosso di
Gerusalemme Teofilo III), del vescovo luterano di Gerusalemme Munib Younan e di
tredici altri esponenti arabo-cristiani.
Il suo più attivo propagatore era il luterano Younan. Questi coinvolse con
successo il Consiglio Ecumenico delle Chiese, che raggruppa 349 denominazioni
cristiane di tutto il mondo, con sede a Ginevra. E infatti, quando il 15 ottobre
è stato letto nel sinodo un messaggio del segretario generale del CEC, Olav
Fykse Tveit, il documento "Kairòs" vi era citato e raccomandato.
Ma Younan e gli altri autori del documento fecero pressione, nei giorni
successivi alla sua pubblicazione, anche su tutti i leader delle Chiese
cristiane a Gerusalemme, per ottenerne l'appoggio.
Quello che ottennero, il 15 dicembre 2009, fu una dichiarazione di poche righe,
senza alcun riferimento esplicito a "Kairòs", che iniziava con queste parole:
"Noi, i patriarchi e capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme, abbiamo
ascoltato il grido di speranza che i nostri figli hanno lanciato in questi tempi
difficili che stiamo vivendo in questa Terra Santa. Noi li sosteniamo".
Niente di più. Ma da lì in poi il documento "Kairòs" è stato fatto sempre
circolare con in testa questa dichiarazione, come se fosse il suo prologo, e con
le firme di tutti i leader delle Chiese cristiane a Gerusalemme, compreso il
patriarca latino Fouad Twal e il custode di Terra Santa, il francescano
Pierbattista Pizzaballa, come se fossero loro i veri autori dell'intero
documento
Per chi conosce e ha letto gli scritti di padre Pizzaballa, una sua adesione
alle tesi di "Kairòs" e al boicottaggio di Israele è semplicemente impensabile.
Eppure anche la Custodia di Terra Santa, da lui presieduta, ha contribuito
assieme ad altre associazioni cattoliche, come Pax Christi, e al patriarca
emerito di Gerusalemme Sabbah a dare pubblicità al documento, il 19 ottobre, in
un salone di proprietà del Vaticano, a pochi passi dall'aula del sinodo.
Non solo. Il 14 ottobre è intervenuto nel sinodo l'arcivescovo maronita Edmond
Farhat, già nunzio apostolico e rappresentante ufficiale della politica
vaticana.
E i giudizi da lui espressi fanno pensare che per la Santa Sede – che pure
accetta l'obiettivo di due stati per ebrei e palestinesi – continua a valere il
presupposto che la causa ultima di tutti i mali del Medio Oriente sia proprio
quel "corpo estraneo" che è Israele.
Ha detto il nunzio Farhat:
"La situazione del Medio Oriente oggi è come un organo vivente che ha subito un
trapianto che non riesce ad assimilare e che non ha avuto specialisti che lo
curassero. Come ultima risorsa l'Oriente arabo musulmano ha guardato alla Chiesa
credendo, come dentro di sé pensa, che sia capace di ottenergli giustizia. Non è
stato così. È deluso, ha paura. La sua fiducia si è trasformata in frustrazione.
È caduto in una crisi profonda. Il corpo estraneo, non assimilato, lo corrode e
gli impedisce di occuparsi del suo stato generale e del suo sviluppo. Il Medio
Oriente musulmano nella sua schiacciante maggioranza è in crisi. Non può farsi
giustizia. Non trova alleati né sul piano umano né sul piano politico, meno
ancora sul piano scientifico. È frustrato. Si rivolta. La sua frustrazione ha
avuto come effetto le rivoluzioni, il radicalismo, le guerre, il terrore e
l'appello (da'wat) al ritorno agli insegnamenti radicali (salafiyyah). Volendo
farsi giustizia da solo il radicalismo ricorre alla violenza. Crede di fare più
scalpore se si attacca ai corpi costituiti. E il più accessibile e il più
fragile è la Chiesa". (....)
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Kairos Palestina: la presentazione di Mons. Sabbah
Tra i numerosi eventi collaterali al Sinodo per il Medio Oriente, si è tenuta a Roma, mercoledì 19 ottobre, nel corso delle serate culturali “Sguardi”, una conferenza di presentazione di “Kairos Palestina”, documento già diffuso un anno fa ed ora pubblicato da Pax Christi in formato libro presso le Edizioni Messaggero Padova ed Edizioni Terra Santa.
Alla presentazione del libro sono intervenuti S.B. Michel Sabbah, Patriarca emerito di Gerusalemme, don Nandino Capovilla, coordinatore nazionale di Pax Christi Italia, e il giornalista Raniero La Valle.
“Kairos Palestina. Un momento di verità” è un documento preparato dai cristiani di Terra Santa in seguito all’operazione israeliana “Piombo fuso” a Gaza, che racconta gli effetti dell’occupazione nei Territori palestinesi, le sofferenze cui sono costretti palestinesi, cristiani e musulmani ed invita alla resistenza pacifica. Pax Christi lo definisce “un grido di sofferenza e una profonda testimonianza di fede dei cristiani di Terra Santa”. Questo grido, accolto e fatto proprio dai Patriarchi e dai capi delle Chiese di Gerusalemme, è un appello rivolto ai fedeli, ai responsabili palestinesi e israeliani, alla comunità internazionale ed alle Chiese del mondo, affinché contribuiscano ad accelerare la realizzazione della giustizia, della pace e della riconciliazione in Terra Santa. Non si propone come un documento ufficiale delle Chiese locali, ma come un documento “ecclesiale”, una testimonianza condivisa, una parola di fede, di speranza, di amore.
S.B. Mons. Michel Sabbah ha desiderato sottolineare, nella sua presentazione, proprio questo aspetto: il testo si propone di essere un contributo alla riconciliazione, uno strumento per rafforzare la comunione, un segno di speranza in una situazione estremamente difficile. “Speriamo che la bontà di Dio finisca di prevalere sul male che viviamo tutti oggi, abitanti della Terra Santa, israeliani e palestinesi. Si ama dunque, non si odia. Facciamo insieme un solo cammino per arrivare alla pace”.
(formato .PDF)
Cristiani, ebrei e Israele: parliamone
Qualche riflessione a freddo sulla frase del Messaggio del
Sinodo che tanto ha fatto discutere in questi giorni
Adesso che - come prevedevamo già a caldo su questo sito - la polemica tra il mondo ebraico e la Chiesa sull'appena concluso Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente è sparita dalle prime pagine dei giornali, è possibile proporre una lettura un po' più approfondita su questo tema?
Credo, infatti, che meriti qualche riflessione la più contestata tra le frasi del «Messaggio al popolo di Dio» scritto dai Padri sinodali: quella sul ricorso a letture esclusiviste della Torah per farne uno strumento a giustificazione delle ingiustizie. Proverò dunque a leggere quella frase dentro al suo contesto e a confrontarla con alcune notizie arrivate da Israele nelle ultime settimane, per vedere se quel pericolo denunciato è fondato oppure no.
Intanto va detta una cosa: nel Messaggio finale del Sinodo quella frase non si trova al paragrafo 3.2, quello dedicato al problema politico dell'irrisolto conflitto israelo-palestinese, ma al paragrafo 8, quello sulla «cooperazione e il dialogo con i nostri concittadini ebrei». Basterebbe già questo a dire molto: quando pronuncia quelle parole il Sinodo non si sta rivolgendo al governo di Israele, ma al mondo religioso ebraico. E il paragrafo comincia con questo passaggio che dice l'atteggiamento di fondo dei vescovi del Medio Oriente nei confronti degli ebrei: «La stessa Scrittura santa ci unisce, l’Antico Testamento che è la Parola di Dio per voi e per noi. Noi crediamo in tutto quanto Dio ha rivelato, da quando ha chiamato Abramo, nostro padre comune nella fede, padre degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani. Crediamo nelle promesse e nell’alleanza che Dio ha affidato a lui. Noi crediamo che la Parola di Dio è eterna» (detto per inciso: questo è un documento votato da 173 vescovi e di fatto già smentisce la sciagurata uscita del singolo vescovo greco-melchita Cyrille Salim Bustros, secondo cui la promessa a Israele sarebbe ormai superata).
Dentro a questo disegno dell'Altissimo che ci accomuna - dunque - il Sinodo chiede a cristiani ed ebrei di «impegnarsi insieme per una pace sincera, giusta e definitiva», agendo anche presso i responsabili «per mettere fine al conflitto politico che non cessa di separarci e perturbare la vita dei nostri Paesi». Ed è in questo sforzo che ai religiosi - lo sottolineiamo ancora - viene detto che «non è permesso di ricorrere a posizioni teologiche bibliche per farne uno strumento a giustificazione delle ingiustizie. Al contrario, il ricorso alla religione deve portare ogni persona a vedere il volto di Dio nell’altro e a trattarlo secondo gli attributi di Dio e i suoi comandamenti, vale a dire secondo la bontà di Dio, la sua giustizia, la sua misericordia e il suo amore per noi».
Ora, la vera domanda da porsi sarebbe: da dove nasce questa frase? C'è oggi nel mondo ebraico un problema di alcuni ambienti religiosi che utilizzano il riferimento alla Parola di Dio per giustificare la violazione di diritti altrui, oppure questa è un'invenzione dei vescovi? Leggendo gli attacchi polemici piovuti in queste ore sul Vaticano mi viene da chiedere se chi li ha scritti legga i giornali israeliani. Cito solo - e allego qui sotto - tre notizie delle ultime settimane. La prima la traggo da Arutz Sheva, l'agenzia più vicina alla destra religiosa, che non può certo essere accusata di aver travisato le parole: è una dichiarazione di un gruppo di rabbini guidati dal solito rav Shmuel Elyahu. Con quella che non ha niente di diverso da una fatwa, scrivono che in Galilea un ebreo deve sentirsi moralmente obbligato a non vendere terre agli arabi (e questo nella regione in cui gli arabi con cittadinanza israeliana sono la maggioranza della popolazione). La seconda è una presa di posizione di un'altra celebrità nel mondo dei coloni, rav Yitzhak Shapira: in aperto contrasto con una sentenza della Corte suprema israeliana e utilizzando riferimenti religiosi, dice ai soldati israeliani che - durante le loro azioni - devono ignorare il divieto di utilizzare persone palestinesi come scudi umani per proteggere la propria incolumità. Terza citazione: proprio nelle ore in cui (soprattutto in Italia) divampava la polemica sul Sinodo, Yediot Ahronot dedicava un commento allarmato all'escalation che quest'anno sta avendo la cosiddetta «operazione price tag», cioè le violenze dei coloni nei Territori palestinesi. Violenze particolari: sono contro le regole (minimali) imposte dall'amministrazione israeliana, ma vanno a devastare campi, moschee o cimiteri che sono palestinesi. Per dire una cosa sola: che «la Giudea e la Samaria sono nostre».
Allora io dico: cari amici ebrei, non è esattamente ciò di cui si parla in quella frase contestata? E, proprio per il bene di Israele, non è importante riconoscere che questo è un problema? Non è un pericolo prima di tutto per la società israeliana, sempre più in difficoltà a gestire anche al proprio interno questo tipo di atteggiamenti? Oppure è meglio buttarla sui toni di sempre: tutti ce l'hanno con noi e sono annebbiati da un pregiudizio anti-ebraico?
Aggiungo un'ultima postilla: il vice-ministro degli esteri è certamente una carica importante in ogni Paese. Però - a mio modesto avviso - in questo caso bisognerebbe almeno spiegare anche chi è Danny Ayalon, l'uomo politico intervenuto con il giudizio più critico sul Sinodo, e quale sia lo stile oggi del ministero degli Esteri in Israele. Bisognerebbe dunque ricordare che il «Manuale Cencelli» israeliano è un po' diverso da quello italiano: quando un ministero è assegnato a un partito non è che gli altri si spartiscono i sottosegretari. A Gerusalemme oggi il ministero degli Esteri è tutto in mano al partito Yisrael Beitenu, quello del ministro Avigdor Lieberman. E l'ex ambasciatore Danny Ayalon è l'ideologo: è lui ad aver scritto le pagine sulla politica internazionale del programma di Yisrael Beitenu. Compreso il contestato rilancio dell'idea del transfer, cioè del trasferimento all'ipotetico Stato palestinese dei territori del Nord di Israele dove vivono gli arabi israeliani in cambio delle colonie ebraiche nei Territori. Una tesi - come si ricorderà - sostenuta solo poche settimana fa «a titolo personale» da Lieberman all'Assemblea generale dell'Onu.
Ora: che il vice-ministro degli Esteri di un Paese intervenga in una polemica che vede al centro il Vaticano è un fatto naturale. Bisognerebbe, però, fargli notare che è un po' beffardo che sia proprio lui a citare i dati secondo cui Israele sarebbe l'unico Paese del Medio Oriente dove i cittadini cristiani aumentano. Bisognerebbe infatti guardare dentro anche a quel dato: dove crescono i cristiani in Israele? Non certo a Gerusalemme, dove oggi sono appena 10 mila, il minimo storico. La crescita si deve al Nord, alla Galilea, dove anche i cristiani (come peraltro i musulmani e gli ebrei nel resto del Paese) crescono seguendo le normali dinamiche di una popolazione giovane. Dunque oggi scopriamo che Ayalon è orgoglioso della crescita dei cristiani. Ma allora perché sarebbe ben felice di sbarazzarsene cacciandoli via da Israele (come il resto della popolazione araba della Galilea) in nome dell'identità ebraica dello Stato? È un'altra domanda che giriamo ai nostri amici ebrei.
Sinodo per il Medio Oriente: “A ciascuno sia
garantita la libertà di professare la sua
religione e dialogo con tutti
BENEDETTO XVI – La pace è urgente
Le parole al termine del Sinodo dei vescovi del Medio Oriente
“Il pensiero va a tanti fratelli e sorelle che vivono nella regione mediorientale e che si trovano in situazioni difficili, a volte molto pesanti, sia per i disagi materiali, sia per lo scoraggiamento, lo stato di tensione e talvolta di paura”. Così Benedetto XVI, stamattina, nell’omelia della messa da lui presieduta nella basilica di San Pietro per la conclusione del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente.
Piena comunione. Commentando le letture odierne, il Papa ha sottolineato il “legame tra preghiera e giustizia”, che “ci fa pensare a tante situazioni nel mondo, in particolare nel Medio Oriente. Il grido del povero e dell’oppresso trova un’eco immediata in Dio, che vuole intervenire per aprire una via di uscita, per restituire un futuro di libertà, un orizzonte di speranza”. Durante l’Assemblea sinodale, ha proseguito il Santo Padre, “abbiamo condiviso le gioie e i dolori, le preoccupazioni e le speranze dei cristiani del Medio Oriente. Abbiamo vissuto l’unità della Chiesa nella varietà delle Chiese presenti in quella Regione”. Di qui l’auspicio che sia favorita “la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche degli altri Riti cattolici” per “aprirsi alle dimensioni della Chiesa universale”. “La preghiera comune ci ha aiutato anche ad affrontare le sfide della Chiesa cattolica nel Medio Oriente – ha chiarito il Pontefice -. Una di esse è la comunione all’interno di ogni Chiesa sui iuris, come pure nei rapporti tra le varie Chiese cattoliche di diverse tradizioni”. Infatti, “una più piena comunione all’interno della Chiesa cattolica favorisce anche il dialogo ecumenico con le altre Chiese e Comunità ecclesiali. La Chiesa cattolica ha ribadito anche in quest’Assise sinodale la sua profonda convinzione di proseguire tale dialogo”.
Il dono della pace. Anche se i cristiani sono “poco numerosi”, essi, ha evidenziato Benedetto XVI, “sono portatori della Buona Notizia dell’amore di Dio per l’uomo, amore che si è rivelato proprio in Terra Santa nella persona di Gesù Cristo. Questa Parola di salvezza, rafforzata con la grazia dei Sacramenti, risuona con particolare efficacia nei luoghi in cui, per divina Provvidenza, è stata scritta, ed è l’unica Parola in grado di rompere il circolo vizioso della vendetta, dell’odio, della violenza. Da un cuore purificato, in pace con Dio e con il prossimo, possono nascere propositi e iniziative di pace a livello locale, nazionale e internazionale”. “In tale opera, alla cui realizzazione è chiamata tutta la comunità internazionale – ha aggiunto il Papa -, i cristiani, cittadini a pieno titolo, possono e debbono dare il loro contributo con lo spirito delle beatitudini, diventando costruttori di pace e apostoli di riconciliazione a beneficio di tutta la società”. Da troppo tempo nel Medio Oriente, ha osservato il Santo Padre, “perdurano i conflitti, le guerre, la violenza, il terrorismo. La pace, che è dono di Dio, è anche il risultato degli sforzi degli uomini di buona volontà, delle istituzioni nazionali e internazionali, in particolare degli Stati più coinvolti nella ricerca della soluzione dei conflitti”. Dunque, “non bisogna mai rassegnarsi alla mancanza della pace. La pace è possibile. La pace è urgente. La pace è la condizione indispensabile per una vita degna della persona umana e della società. La pace è anche il miglior rimedio per evitare l’emigrazione dal Medio Oriente”. Di qui l’invito: “Preghiamo per la pace in Terra Santa. Preghiamo per la pace nel Medio Oriente, impegnandoci affinché tale dono di Dio offerto agli uomini di buona volontà si diffonda nel mondo intero”.
Promuovere la libertà religiosa. Un altro contributo che i cristiani possono apportare alla società, ha sostenuto il Pontefice, “è la promozione di un’autentica libertà religiosa e di coscienza, uno dei diritti fondamentali della persona umana che ogni Stato dovrebbe sempre rispettare. In numerosi Paesi del Medio Oriente esiste la libertà di culto, mentre lo spazio della libertà religiosa non poche volte è assai limitato. Allargare questo spazio di libertà diventa un’esigenza per garantire a tutti gli appartenenti alle varie comunità religiose la vera libertà di vivere e professare la propria fede”. Tale argomento potrebbe diventare “oggetto di dialogo tra i cristiani e i musulmani, dialogo la cui urgenza e utilità è stata ribadita dai Padri sinodali”.
La nuova evangelizzazione. Durante i lavori dell’Assemblea, ha affermato Benedetto XVI, “è stata spesso sottolineata la necessità di riproporre il Vangelo alle persone che lo conoscono poco, o che addirittura si sono allontanate dalla Chiesa. Spesso è stato evocato l’urgente bisogno di una nuova evangelizzazione anche per il Medio Oriente”. Si tratta di “un tema assai diffuso, soprattutto nei Paesi di antica cristianizzazione. Anche la recente creazione del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione risponde a questa profonda esigenza”. Per questo, dopo aver consultato l’episcopato del mondo intero e dopo aver sentito il Consiglio Ordinario della Segreteria Generale del Sinodo dei vescovi, il Papa ha deciso di dedicare la prossima Assemblea Generale Ordinaria, nel 2012, al seguente tema: “Nova evangelizatio ad christianam fidem tradendam – La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”.
Il compito missionario. Prima di guidare la recita dell’Angelus da piazza San Pietro, il Santo Padre ha ricordato che i temi del Sinodo dei vescovi del Medio Oriente, conclusosi oggi, e la Giornata missionaria mondiale, che si celebra questa domenica, richiamando l’importanza della comunione, “invitano a guardare alla Chiesa come mistero di comunione che, per sua natura, è destinato a tutto l’uomo e a tutti gli uomini”. “In ogni tempo e in ogni luogo – anche oggi nel Medio Oriente – la Chiesa è presente e opera per accogliere ogni uomo e offrirgli in Cristo la pienezza della vita”, ha dichiarato. “Il compito missionario – ha chiarito il Pontefice – non è rivoluzionare il mondo, ma trasfigurarlo, attingendo la forza da Gesù Cristo”. Benedetto XVI ha, quindi, affidato alla Vergine Maria “le comunità cristiane del Medio Oriente e tutti i missionari del Vangelo”. Infine, ha ricordato che ieri, a Vercelli, è stata proclamata beata Suor Alfonsa Clerici, della Congregazione del Preziosissimo Sangue di Monza.
Durante il Sinodo di ottobre delle chiese mediorientali in Vaticano
APPENDICE
Vita in parrocchia nella babele del Golfo
Al venerdì, giorno di festa, nel cortile di Saint Joseph c’è tutto il mondo: si prega in urdu, arabo, tagalog. Mentre il resto del Medio Oriente assiste all’esodo dei cristiani, qui arrivano a milioni. Ma con pochi diritti
Donne avvolte in sgargianti sari indiani salgono i gradini della cattedrale di Saint Joseph facendosi largo in un via vai di centinaia di parrocchiani. A pochi metri, gruppi di giovani filippini appena usciti dalla celebrazione precedente chiacchierano davanti allo spaccio di snack e bibite fresche, mentre migliaia di bimbi riempiono le aule della scuola delle carmelitane per il catechismo settimanale e fedeli di ogni etnia sostano in preghiera di fronte alla grotta della Madonna decorata con fiori e luminarie.
È venerdì nella parrocchia di Abu Dhabi. E, anche se qui le campane non suonano, basta varcare l'ingresso del compound sulla Diciassettesima strada per avvertire che oggi è un giorno di festa. Perché negli Emirati Arabi, come in tutto il Golfo Persico, la domenica si adatta ai ritmi dell'islam, ma non per questo si celebra in tono minore. Le Messe elencate sulla bacheca della cattedrale sono dieci: si comincia alle 6 e mezza di mattina mentre l'ultima celebrazione della giornata, quella in arabo, è alle 20.15. In mezzo, Messe in inglese, tagalog, malayalam, urdu, seguite spesso da gruppi di preghiera carismatici che si tengono contemporaneamente nei vari saloni dello stabile. Per farsi un'idea di che cosa sia la vita in una grande parrocchia del Golfo, basta scorrere lo schema usato da padre Muthu per calcolare il «numero di ostie da preparare per le celebrazioni»: la media è di trentamila particole alla settimana!
PADRE MUTHU,
cappuccino (nella foto), è il parroco di Saint Joseph. «La nostra è una comunità
emblematica della Chiesa in questa terra, a cominciare proprio dalla
concentrazione dei parrocchiani, che sono circa centomila, e dall'incredibile
mix di nazionalità: in cima all'elenco i numerosissimi filippini e indiani»,
spiega il sacerdote, lui stesso originario dell'India. «Negli ultimi due decenni
il numero dei fedeli non ha smesso di aumentare, parallelamente alla crescita di
questa regione che continua ad importare dall'estero sia le "braccia", sia i
"cervelli" indispensabili per il suo fulmineo sviluppo: la nostra Chiesa è fatta
di immigrati». C'è chi resta solo per un breve periodo e chi è già qui da venti
o trent'anni. «Questa Chiesa non può essere definita "temporanea", visto che il
Vicariato esiste ufficialmente già da oltre 120 anni, né però è "permanente",
perché è costituita da persone che cambiano in continuazione».
Forse il termine più appropriato sarebbe "precaria", sia perché i cristiani, in
quanto espatriati, possono rimanere nel Paese solo finché lavorano, mentre sono
obbligati ad abbandonarlo allo scadere del contratto e comunque all'età della
pensione, sia perché la libertà di cui godono in tema di pratica religiosa è
limitata agli stretti confini del compound parrocchiale. Niente processioni,
niente simboli religiosi evidenti, niente crocifissi in cima alle chiese, e
l'elenco delle limitazioni sarebbe lungo per questo angolo della Chiesa globale,
tanto remoto e sconosciuto quanto cruciale per la cristianità. Mentre tutto il
Medio Oriente, infatti, assiste a un più o meno drammatico esodo dei cristiani,
proprio nella Penisola arabica, che secondo la Sunna è tutta terra sacra
all'islam, il numero dei fedeli di Gesù cresce senza sosta. Nel Vicariato
d'Arabia, che con i suoi tre milioni di km quadrati è il più esteso al mondo
(oltre agli Emirati Arabi comprende il Qatar, il Bahrein, l'Arabia Saudita,
l'Oman e lo Yemen, mentre il Kuwait è un Vicariato a sé), i cristiani sono
milioni: secondo le stime ufficiali rappresentano, nei diversi Paesi, tra il
sette e il dieci per cento della popolazione, ma semplici calcoli empirici
suggeriscono che negli Emirati essi superano addirittura il 30 per cento degli
abitanti. E la loro presenza, sebbene discreta, è viva ed entusiasta.
«LA NOSTRA
FEDE è più forte qui che in patria!». A pronunciare la frase forse più
ricorrente nelle parrocchie di tutto il Golfo Persico è Nila Sanchez Bandigan,
immigrata filippina che vive ad Abu Dhabi da 28 anni - «prima ancora che questa
chiesa fosse eretta!», precisa -. All'età di 25 anni la selezionarono per
lavorare come infermiera in un ospedale governativo negli Emirati. Decise di
partire e da allora la sua vita è legata a doppio filo a queste terre: qui ha
conosciuto quello che poi è diventato suo marito, qui ha avuto i suoi due figli,
un maschio e una ragazza di 16 e 17 anni. «Nelle Filippine frequentavo la Chiesa
frettolosamente, dandola in un certo senso per scontata. Qui, invece, come tanti
miei connazionali, ho riscoperto la gioia di essere parte attiva della comunità.
Quasi tutti i giorni, dopo il lavoro, vengo alla Messa e poi mi fermo per
qualche impegno legato alla parrocchia». Nila, che fa parte della Legione di
Maria e frequenta un gruppo di preghiera carismatico, è lettrice in chiesa,
canta in uno dei vari cori di Saint Joseph ed è stata per anni ministro laico
dell'Eucarestia, oltre che tesoriera del consiglio pastorale. Ma il suo impegno
non dimentica i bisogni specifici della Chiesa locale: «Io e mio figlio diamo
una mano anche nella gestione dello spaccio parrocchiale, nato grazie a una
coppia di giovani filippini proprietari di un forno, che ci offrono dolci e
snack: il ricavato delle vendite va ai poveri e ai tanti parrocchiani che vivono
in condizione di disagio e precarietà».
Ad Abu Dhabi, Nila si sente a casa. Proprio quest'anno si è aggiudicata il
premio "Woman of Substance" consegnato dal mensile locale Illustrado a donne
distintesi per il loro attivismo in diversi campi della società. «Per noi
immigrati cristiani questo è il posto migliore nel Medio Oriente», afferma. E
racconta di quando, nel 1983, «gli sceicchi parteciparono alla cerimonia per
l'inaugurazione della nuova chiesa». Proprio per questo clima di apertura, sul
futuro si sente «ottimista».
NON TUTTI
CONDIVIDONO questo stato d'animo. Theresa è una catechista. Viene dal
Pakistan e ha seguito qui il marito Joseph che lavorava come taxista. In seguito
alla recessione, però, Joseph è rimasto disoccupato e, anche se Theresa ha un
buon lavoro come assicuratrice, ora la preoccupazione è forte, «soprattutto per
la casa». Theresa e Joseph vivono nella cucina di un appartamento: «Qui è
normale per moltissime persone: visto che gli affitti sono alle stelle, c'è chi
subaffitta locali ad altre famiglie». E così, è necessario trovare ogni giorno i
modi per arrangiarsi. Theresa ci mostra il negozietto della vicina parrocchia
anglicana, dove è solita procurarsi abiti di seconda mano, perché - spiega -
«per il mio lavoro devo fare attenzione a come mi presento, ma qui tutto costa
così tanto!». Eppure, nonostante la fatica quotidiana, la catechista del
Pakistan che sogna un viaggio in Italia «per visitare "il mio Vaticano"»,
sorride sempre ed è disponibile per tutte le necessità della parrocchia.
Per tante persone che affrontano l'angoscia della precarietà, la Chiesa
rappresenta in molti casi anche l'unica fonte di aiuto materiale. «Dividiamo i
fondi a disposizione per venire incontro a chi ha bisogno», racconta ancora
padre Muthu. «Spesso le compagnie non pagano puntualmente gli stipendi, quindi
molti dei nostri parrocchiani vivono una condizione di forte vulnerabilità.
Allora capita che paghiamo il biglietto aereo per chi si trova costretto a
rientrare in patria, o sosteniamo le cure mediche per i fedeli il cui stipendio
è troppo basso per far fronte a un'emergenza sanitaria». Ma la comunità
cattolica è soprattutto un punto di riferimento spirituale e umano
indispensabile per tanti uomini e donne persi nella "Babele" del Golfo.
«Trovarci a pregare e poter condividere i nostri problemi è un grande sollievo
per noi che siamo qui soli, lontani dalla famiglia», racconta Danny Jose, che ha
solo 26 anni e da tre ha lasciato il Kerala, nel sud dell'India, per venire
negli Emirati come impiegato della compagnia di distillazione dell'acqua Al
Ghadeer. Danny è uno dei leader della sezione locale di Jesus Youth, un gruppo
carismatico giovanile internazionale che ad Abu Dhabi conta centinaia di membri.
Sono ragazzi che spesso devono lavorare duro per mantenersi e mandare a casa
ogni centesimo che riescono a risparmiare, ma che non rinunciano a sentirsi
parte di qualcosa di più grande, che offra un senso - e anche un angolo di
allegria - alle loro giornate: «Oltre a pregare, organizziamo varie attività:
teatro, musica, feste», racconta Danny. «Entrare a far parte di questo movimento
è stata un'opportunità che ha cambiato la mia vita qui».
ANCHE A JEBEL ALI i giovani sono pieni di entusiasmo e contagiano l'intera comunità. La parrocchia di Saint Francis, alla periferia di Dubai, sorge nel "quartiere delle chiese" in un'area residenziale alle porte del deserto: la vicinissima Free zone della metropoli attira nella sua orbita tutte le variegate "risorse umane" straniere: gli schiavi dei labour camp (M.M, giu.-lug., pp. 6-10) così come i manager e i tecnici delle compagnie multinazionali. Arleen D'Souza, 25enne indiana, è un'esponente dell'immigrazione "di alto livello": quella cosmopolita dei rampolli di famiglie benestanti che qui possono ottenere un buon lavoro - Arleen è organizzatrice di eventi per una grande azienda - e la speranza di uno stile di vita sereno. «In parrocchia faccio parte del gruppo Giovani-adulti», racconta la ragazza, arrivata a Dubai quattro anni fa al seguito della sorella maggiore, già sposata con un giovane di famiglia indiana ma nato negli Emirati. «Il nostro gruppo è un frutto della Giornata mondiale della Gioventù di Sydney: un'esperienza stupenda!», ricorda. «Da allora abbiamo coinvolto anche altri giovani nei nostri incontri mensili di preghiera e nelle varie attività che organizziamo: per noi è un modo per sentirci parte di un gruppo di amici che condividono gli stessi valori e ideali», spiega Arleen, che ogni sabato canta nel coro per la Messa delle sette. La sua amica Maryann, che viene dalle Filippine, annuisce convinta e ci mostra un dvd intitolato «Il mio Redentore vive». «È il video del musical che abbiamo organizzato per Pasqua -, racconta -. Un'esperienza entusiasmante: in poche settimane siamo riusciti a coinvolgere tutta la comunità, dai bambini agli anziani, e il risultato è stato sorprendente. Chieda in giro: i parrocchiani ne parlano ancora». Anche se si è lontani da casa, insomma, «qui si sta bene», interviene di nuovo Arleen: «Questa è una parrocchia vivace, c'è un bel mix». Quindi le piacerebbe restare qui? «Nel futuro? Chi lo sa, magari vorrei andare in Canada... Si vedrà».
TUTTO, DA
QUESTE PARTI, è temporaneo e cambia rapidamente. Lo sa bene padre Eugenio
Mattioli, cappuccino e parroco di Saint Francis, un "giovane" di 79 anni, 52
passati in queste terre. «52 anni meravigliosi!», precisa subito. «Quando sono
arrivato, il Bahrain era l'unico Stato della regione ad avere una chiesa
cattolica. Da lì visitavo le piccolissime comunità cristiane che esistevano nel
Golfo: a Dubai i cattolici erano un centinaio, ad Abu Dhabi una decina!»,
racconta padre Mattioli. «Qui era tutto deserto -, continua -. Non avevamo
l'elettricità, non parliamo dell'aria condizionata! Ma nei nostri confronti
c'era grande apertura e massimo rispetto: ricordo una volta che andai in visita
allo sceicco Shakbut, vestito in borghese per non urtarne la sensibilità, e lui
mi disse: "Se sei un uomo di Dio, perché non indossi il tuo abito?».
Il rispetto, assicura padre Eugenio, non è mai venuto meno, anche se tante cose
in questi decenni sono cambiate: «Tutto è iniziato con la scoperta del petrolio,
ma la grande svolta è stata all'inizio degli anni Settanta, con il balzo nel
prezzo dell'oro nero. Allora qui sono arrivati da tutte le parti del mondo e
anche i cristiani sono aumentati sempre più. Un venerdì, a Messa, ho contato 95
nazionalità diverse! È chiaro che oggi la società in cui viviamo è molto più
complessa».
SU OUD METHA
ROAD, nel centro di Dubai, al venerdì mattina il traffico rimane bloccato
per ore: l'imbottigliamento è provocato dai tantissimi taxi che portano i fedeli
alla chiesa di Saint Mary. Dicono che la parrocchia di Dubai, con i suoi 200
mila fedeli, sia tra le più grandi del mondo. Per la catechesi sono oltre 4 mila
i ragazzi che da tutta la città convergono ogni settimana nel complesso
parrocchiale, che ospita anche il convento delle Comboniane e la scuola gestita
dalle suore. La superiora, suor Luciana, insieme alla consorella Josephine, si
occupa in particolare della preparazione degli adulti al battesimo. Ci mostra il
registro su cui sono annotate le generalità delle persone a cui sono stati
impartiti i Sacramenti: provengono da varie nazionalità e altrettante fedi
diverse. «Ogni anno abbiamo una quarantina di persone di altre religioni che
ricevono battesimo e cresima, e un centinaio, provenienti da altre confessioni
cristiane, che ricevono solo la cresima, visto che per loro il battesimo è
valido». Convertirsi al cristianesimo dall'islam, però, è illegale. «Non ci sono
cittadini locali che abbracciano la nostra fede». Alcuni immigrati musulmani,
tuttavia, decidono di diventare cristiani e, poiché qui è vietato, tornano a
battezzarsi nei Paesi d'origine.
Il problema della libertà religiosa, che Benedetto XVI ha inserito anche tra le
questioni-chiave del Sinodo per il Medio Oriente, non è più un tabù assoluto per
i regimi della regione, ma i passi verso una maggiore apertura ai diritti sono
timidi e lenti. Qualche segno di speranza viene anche dalla diplomazia: proprio
lo scorso maggio il Papa ha ricevuto il primo ambasciatore degli Emirati - la
signora Hissa Ahmed Al-Otaiba - presso la Santa Sede. Intanto, dopo lunghe e
faticose trattative, una nuova chiesa è in costruzione nell'emirato di Ras al
Khaima: salirà così a otto il numero dei luoghi di culto cattolici nei sette
Stati della federazione.
A SHARJAH, la parrocchia di Saint Michael esiste già da 39 anni. Questo emirato super conservatore, dove gli acolici non sono in vendita nemmeno nei grandi hotel internazionali, viene scelto come residenza da sempre più lavoratori della middle class, cristiani compresi. «Qui la vita è più tranquilla che a Dubai», racconta, passeggiando lungo la bellissima corniche della capitale, George, un parrocchiano "transfrontaliero": «Siamo in molti a preferire vivere qui e fare ogni giorno quaranta minuti d'auto per andare a lavorare a Dubai», spiega. Originario dell'India, George ha due figli adolescenti, di cui uno nato negli Emirati. Ma non è complicato crescere dei ragazzi in questa società? «Non credo sia più difficile che in qualsiasi altra parte del mondo», risponde sorridendo. «L'importante è come educhiamo i nostri figli, i valori che sappiamo trasmettere loro». L'anno scorso, settecento bambini hanno partecipato al campo estivo organizzato in parrocchia e le iniziative per i giovani, a Saint Michael, sono molto frequentate. Come, d'altra parte, quelle dedicate alle coppie o alle famiglie: i gruppi di preghiera - dalla scuola della Parola in lingua malayalam agli incontri per le comunità africane o tamil - sono quarantuno. «Sa, in mezzo alle difficoltà, le persone si ricordano più facilmente di Dio...».
APPROFONDIMENTO
Sabato 23 Ottobre 2010 17:28
Pubblichiamo il testo italiano del messaggio del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente, approvato durante la tredicesima congregazione generale di venerdì pomeriggio, 22 ottobre. "La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un'anima sola" (At 4, 32)
Assemblea speciale per il Medio Oriente,
I documenti del sinodo nel sito del Vaticano: