(a cura di Claudio Prandini)
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Un manifesto di sostegno al presidente siriano Bashar al-Asad.
INTRODUZIONE
Damasco, personalità cristiana: cambiamento,
ma non al prezzo di una guerra civile
Assad ha denunciato un complotto contro la Siria e promette emendamenti alla Costituzione. L’opposizione manifesta contro le aperture del presidente, bollate come “non sufficienti” anche dall’omologo turco Gul. Fonti di AsiaNews: il futuro è incerto, il Paese subisce una “pressione internazionale premeditata”; serve maggiore equilibrio di Occidente e media.
Damasco (AsiaNews) – “Vogliamo
il cambiamento, ma non al prezzo del sangue e di una guerra civile”. È quanto
dichiara ad AsiaNews una fonte cristiana a Damasco, che chiede
l’anonimato per motivi di sicurezza. Il popolo invoca “riforme e lotta contro la
corruzione”, ma vi è anche il timore che la situazione possa degenerare. Ieri
intanto Bashar al-Assad ha tenuto un discorso alla nazione, il terzo dopo due
mesi di silenzio. L’opposizione interna ha criticato con forza le parole del
presidente siriano, che sono state giudicate “non sufficienti” anche
dall’omologo turco Gul e dal blocco occidentale.
Bashar al-Assad ha parlato dall’aula magna dell’università di Damasco, in un
discorso durato circa 70 minuti e trasmesso in diretta dalla tv di Stato. Tre i
punti salienti del discorso del presidente: in primis egli ha ammesso che la
Siria vive “giorni difficili” a causa di un complotto ordito da “intellettuali
blasfemi” e “stranieri, che minacciano l’unità nazionale e rischiano di far
crollare l’economia". Poi annuncia la creazione di un comitato di 100 saggi,
chiamati a studiare alcuni emendamenti alla Costituzione. Infine promette
“cambiamenti graduali”, in un processo che di dovrebbe concludere entro
settembre o, al massimo, la fine dell’anno.
Le parole di Assad sono respinte al mittente dall’opposizione interna, che a
pochi minuti dalla fine del discorso è scesa in piazza a manifestare in diverse
città: nelle vie di Aleppo, Homs, Hama, Lattakia i dimostranti hanno intonato
slogan contro il regime, rivendicando maggiore “dignità e libertà”. Critiche al
presidente siriano giungono anche dall’omologo turco Abdullah Gul, che bolla
come “non sufficiente” l’impegno promesso da Assad, concedendo “una settimana di
tempo per attuare le riforme”. Intanto l’Unione europea prepara un nuovo giro di
sanzioni contro Damasco, mentre continua l’emergenza profughi (quasi 9mila)
lungo i confini con la Turchia.
Commentando le parole del presidente, la fonte di AsiaNews parla di
“situazione non facile”, perché Assad “vuole realizzare le riforme, ma
l’opposizione non intende aspettare, chiede subito cambiamenti”. Quello che ha
proposto, spiega, “non si può realizzare dall’oggi al domani” e al momento “non
è possibile ipotizzare gli sviluppi futuri”, perché “tutto dipende da come la
situazione evolverà”. La personalità cristiana denuncia una “pressione
internazionale premeditata”, ovvero “critica a prescindere” perché “qualunque
apertura non sarebbe sufficiente” ai loro occhi.
Per la fonte, a Damasco emerge “la sensazione che i mezzi di comunicazione
gonfino le notizie, la realtà, perché vogliono cambiare” il regime. Dal fronte
interno si intravede “la volontà di ricomporre un nuovo Medio oriente” che viene
rimodellato “su una base di natura religiosa”, come è avvenuto in Iraq dove “i
cristiani sono fuggiti per la paura” e sono fra gli obiettivi di attacchi.
La fonte di AsiaNews lancia infine un appello ai mezzi di comunicazione
e all’Occidente perché “riflettano di più prima di intervenire”. “Tutti vogliamo
riforme e lotta contro la corruzione – chiarisce – vogliamo il cambiamento, ma
non attraverso il sangue e la guerra civile”. Perché se è vero che vi sono
scontri, manifestazioni e morti, conclude, è altrettanto vero che questi episodi
sembrano “fomentati” dall’esterno.(DS)
Monsignor Jean Clément Jeanbart
IN SIRIA I CRISTIANI STANNO CON ASSAD
Secondo il vescovo caldeo di Aleppo, mons. Antoine Audo, la comunità internazionale esagera la crisi in atto in Siria. Il gesuita, alla guida della diocesi dal 1992, nei giorni scorsi ha espresso a Terrasanta.net le sue preoccupazioni in merito alle proteste, ma ha voluto sottolineare che la Siria non è l’Iraq e che il presidente Bashar al-Assad resta popolare, anche tra i cristiani. Stando alle stime dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, nelle prime sei settimane di dimostrazioni sono stati uccisi oltre 450 civili.
Eccellenza, qual è la situazione ad Aleppo, e quali sono le sue riflessioni su
quanto sta accadendo in Siria?
Al momento la situazione ad Aleppo è
calma e del tutto normale. In città la popolazione ha dimostrato grande
saggezza. Non vuole la distruzione del Paese. Crediamo che le riforme siano
possibili e che il presidente e il governo stiano lavorando in tal senso. Ci
sorprende scoprire come i media internazionali esagerino la situazione. Questa
non è informazione obiettiva, bensì manipolazione dell’informazione. In generale
il popolo siriano è molto calmo. Comprende ciò che sta accadendo ed è in grado
analizzare la situazione. Non vuole lo sconquasso del Paese, come è accaduto in
Iraq o altrove.
Dunque
secondo lei non possiamo paragonare quella siriana alla rivolta in Egitto?
No. La Siria è un Paese molto diverso.
Le differenze sono parecchie. Qui c’è cultura, la gente è ben informata, anche
se, certo, non mancano i problemi. Tutto finirà nel giro di pochi giorni, o
almeno così speriamo.
Pensa
che il presidente Assad resterà in sella?
Credo di sì. È un uomo molto amato,
giovane e istruito, che lavora nell’interesse della Siria. Il nostro non è un
Paese perfetto e come tutti gli altri siamo stati messi in difficoltà dalla
situazione economica internazionale. Ma penso che lui stia facendo molto bene e
difenda il nostro Paese con grande dignità.
Alcuni
paragonano la Siria alla Libia e ritengono che potrebbe essere il prossimo
teatro di un intervento militare internazionale. Le sembra plausibile?
Non penso proprio. Il paragone è
difficile in termini di istruzione e apertura (mentale). Non conoscono bene la
Siria. Come ho già detto, qui c’è una grande diversità etnica e religiosa. E poi
è spiccato il senso di patriottismo. I siriani amano il proprio Paese. Noi non
siamo una società basata sui clan tribali, come la Libia. Là, per esempio, non
c’è praticamente una presenza cristiana (numericamente significativa). Qui i
cristiani sono il 10 per cento della popolazione e stanno tutti dalla parte del
presidente Assad. Quelli che manifestano vengono da fuori. Sono prezzolati e
asserviti a interessi stranieri.
Le
istanze islamiste rappresentano un rischio per il Paese?
Forse sì. È molto facile che altri
gruppi manipolino i movimenti estremisti. Ma, come dicevo, il 90 per cento della
popolazione ama il nostro presidente e sta con il governo, come ha sempre fatto
negli ultimi 20-40 anni. In definitiva il giudizio sulla Siria può essere
positivo: abbiamo università e un buon sistema di istruzione. Certo, il gran
numero di giovani laureati in cerca di un’occupazione è un problema reale, ma di
ordine economico. Credo che nei prossimi mesi ci lasceremo questo momento di
crisi alle spalle.
Come la
mettiamo con le notizie sulla repressione dei manifestanti da parte degli
apparati di sicurezza?
Credo che sia una questione di
autodifesa. Fino ad oggi non avevano attaccato nessuno, ma dopo aver sopportato
per un mese l’assassinio di poliziotti e soldati e l’aggressione a istituzioni
ufficiali, credo che la polizia avesse il diritto di entrare in azione e
unicamente come autodifesa, non mossa dall’intento di attaccare o uccidere
persone. Possiamo affermarlo con obiettività.
In ogni
caso non sarebbe meglio rendere la Siria un Paese compiutamente democratico
invece di reprimere con violenza le proteste?
Certo, ma questo richiede tempo. Ogni
Paese ha la propria strada verso la democrazia. Dagli Stati Uniti abbiamo
ascoltato molte parole su democrazia e libertà in Iraq, ma poi abbiamo visto
bene gli esiti della democrazia e delle libertà americane in un Paese distrutto.
E i primi a perderci sono stati i cristiani iracheni. Diciamolo chiaramente: non
vogliamo che si ripeta anche in Siria quello che gli americani hanno combinato
in Iraq.
Intervista a Suor Marita Mantovani
Monastero Nostra Signora Fonte della Pace - Siria
Il patriarca cattolico: da Assad risposte
positive, l’Occidente deponga le armi
«Il presidente Assad ha
risposto nel modo più giusto alle proteste di questi giorni, costringendo il
governo alle dimissioni e promettendo riforme. La Siria è un modello di laicità
e apertura per tutti i Paesi arabi. L’Occidente si illude di risolvere i
problemi intervenendo militarmente in Libia, mentre la stabilità del Medio
Oriente può venire solo da una soluzione pacifica del conflitto in Palestina».
Ad affermarlo è Gregorio III Laham, patriarca cattolico dei Melchiti con sede a
Damasco, nel giorno in cui Bashar al-Assad ha parlato per la prima volta in
pubblico dall’inizio delle proteste. «Non si può dimenticare che Assad ha
parlato della Siria come della “culla del Cristianesimo”», sottolinea Gregorio
III che nel 2001 convinse Giovanni Paolo II a recarsi in Siria e visitare la
moschea di Damasco. Era la prima volta che un Papa compieva un gesto simile, e
per il patriarca gli effetti benefici di quella visita continuano a farsi
sentire ancora oggi.
Patriarca Gregorio, come valuta la situazione di queste ore in Siria?
In modo positivo. Oggi (ieri, ndr) Assad ha parlato in
pubblico e martedì c’è stata una dimostrazione in tutto il Paese a favore del
presidente e per chiedere il ritorno alla calma e un avvenire migliore per
tutti. Le proteste contro il regime ci sono state e ci sono tuttora, ma la Siria
è un Paese laico, credente e aperto. E io sono testimone di molte iniziative
positive intraprese dal regime in questi anni. Il Paese si sta sviluppando, e
chiediamo che lo faccia sempre di più.
Non c’è quindi bisogno di un intervento dell’Occidente in Siria, sul
modello della Libia?
Non è ricorrendo di continuo alle armi e intervenendo militarmente, in
Libia o altrove, che si risolve l’instabilità del Medio Oriente. L’unico
contributo positivo che può portare l’Occidente è esercitare una pressione
morale su Israele e Palestina per costringere le due parti in causa a fare la
pace.
Restiamo alla Siria. Che significato hanno le dimissioni del governo?
Il mio auspicio è che Assad prepari un nuovo progetto politico più
articolato e adatto alla situazione attuale. E’ normale quindi che per andare in
questa direzione si cambi il governo, la ritengo una risposta positiva da parte
del presidente.
E’ ancora possibile il dialogo tra il regime e i manifestanti?
Il coinvolgimento dei cittadini in Siria avviene già a molti livelli,
non incominciamo quindi da zero. Mi auguro perciò che questa crisi possa essere
l’inizio di una nuova era.
Quanto è diffusa la povertà in Siria?
Nel mio Paese la povertà è
piuttosto ridotta, e lo stesso vale anche per l’analfabetismo.
Chi protesta contro Assad lo fa per le stesse ragioni di chi si è
ribellato a Gheddafi?
E’ difficile dirlo. Una risposta positiva del regime alle proteste in
Siria può essere però un esempio da seguire anche negli altri Paesi del Medio
Oriente. Ritengo che il regime di Assad possa essere il primo a riuscire in
questo difficile compito, conciliando le esigenza della stabilità con la
necessità di riforme.
Eppure Assad in Occidente è considerato un dittatore alla stregua di
Gheddafi…
Occorre ricordare che la Siria, pur avendo un presidente musulmano, è
uno Stato laico. Inoltre è un Paese credente, dove cristiani e musulmani sono
rispettati e possono gestire i loro luoghi di culto in modo libero. Infine è una
nazione aperta anche per quanto riguarda le leggi che regolano la società. La
Siria rappresenta quindi l’avvenire dei Paesi arabi, tutti hanno bisogno di
seguire questa linea.
Quando sono influenti i fondamentalisti nella società siriana?
Una società è sempre composta da correnti molto diverse tra loro. E
anche qui, come in tutti i Paesi arabi, esiste il fanatismo. Ma nel mio Paese è
meno forte che altrove. Qui c’è più pluralismo, più tolleranza, più cordialità,
più contatti tra cristiani e musulmani che vanno a scuola, lavorano e si
impegnano insieme. Prego sempre perché la Siria diventi un modello di convivenza
per tutti i Paesi arabi.
Quali passi avanti sono stati fatti in questa direzione?
Il 15 dicembre scorso a Damasco il Patriarcato cattolico ha organizzato
un grande congresso per spiegare i risultati del Sinodo del Medio Oriente. Hanno
partecipato 3.500 persone, in maggioranza musulmane, insieme a tutti i
patriarchi della Siria, e abbiamo discusso dell’avvenire comune di islamici e
cristiani.
Nel maggio 2001 lei ha accompagnato Giovanni Paolo II nella moschea di
Damasco…
Tra poco più di un mese festeggeremo il decennale di quella visita
storica, e ai primi di maggio saremo tutti a Roma per la beatificazione di
Wojtyla. Il mio patriarcato sta organizzando una conferenza su Giovanni Paolo II
cui parteciperanno cristiani e musulmani nella sala congressi più grande di
Damasco.
La visita del Papa nel tempo ha portato risultati significativi?
Bashar al Assad in quella
circostanza dichiarò ufficialmente che «la Siria è la culla del Cristianesimo».
Ebbe un coraggio non indifferente, se si pensa che è il presidente di un Paese
dove vivono 22 milioni di musulmani e 2 milioni di cristiani, ma soprattutto fu
un segno di rispetto della realtà storica. E i riflessi si sono visti per
esempio per il fatto che oggi in Siria abbiamo un diritto personale, familiare e
relativo ai rapporti tra le religioni che è tra i più sviluppati di tutto il
Medio Oriente. Per esempio la legge consente l’insegnamento della religione
cattolica nelle scuole pubbliche di tutta la Siria senza nessuna restrizione.
In Siria è ammesso il matrimonio tra persone di religioni diverse?
Le nozze miste sono ancora rare, da questo punto di vista non siamo
preparati a compiere questo passo.
Che cosa ne pensa del fatto che Assad ha appoggiato l’Iran a discapito
di Israele?
In tutto il mondo arabo ci sono interazioni tra Paesi pur indipendenti,
come l’Iran e la Siria. Ma va anche sottolineato che la vera causa del ritardo
nello sviluppo del Medio Oriente è proprio il conflitto in Palestina. Le potenze
che hanno creato lo Stato di Israele, oggi hanno anche il dovere di imporre la
pace a ebrei e palestinesi. Soprattutto per quanto riguarda gli insediamenti dei
coloni israeliani nella West Bank. A che cosa serve una scelta simile, se quel
territorio appartiene di diritto alla Palestina?
Come valuta da questo punto di vista la posizione del governo italiano?
Lo scorso ottobre a Roma mi sono incontrato con il ministro Franco
Frattini, e ho trovato la sua posizione molto positiva. Tutti i suoi sforzi sono
diretti al raggiungimento della pace tra israeliani e palestinesi, perseguendo
questo risultato con la forza morale e con la giustizia.
Ha la stessa opinione anche di Obama?
No. Prego sempre affinché Dio doni più coraggio al presidente Obama, e
due mesi fa gli ho scritto anche una lettera ufficiale sperando di riuscire a
sensibilizzarlo. La sua posizione sulla questione palestinese non è infatti
sufficientemente equilibrata. Gli Stati Uniti sono un Paese amico di Israele,
hanno quindi l’autorità morale per esercitare pressioni affinché termini
l’ingiusta occupazione dei coloni ebrei nella West Bank. Le assicuro per
esperienza diretta che questo sarebbe l’inizio della liberazione di tutto il
Medio Oriente e della fine del fondamentalismo islamico.
Manifestazioni in Siria
In Siria un milione di cristiani
rischia un nuovo Iraq
Mentre le rivolte contro il regime di Bashar al Assad non sembrano farsi intimidire dalla violenta repressione con cui l’esercito è stato chiamato a rispondere, c’è una singolare voce all’interno della società siriana che negli ultimi giorni ha cercato quanta più possibile visibilità. È la voce dei cristiani di Siria, la cui posizione a favore del governo di Assad e del piano di riforme annunciate non ha eguali in quanto a perentorietà e chiarezza.
In un’intervista pubblicata
su queste pagine, il Patriarca dei cristiani melchiti Gregorio III Laham ha
definito la Siria un paese “laico, credente e aperto” e ha elogiato l’apertura
che in questi ultimi anni il regime avrebbe adottato nel riformare il paese. Al
di là dell’evidente difficoltà di accogliere un giudizio così positivo nei
confronti di uno dei regimi più autoritari del mondo arabo, le parole di
Gregorio III, non differenti da quelle espresse da tutte le autorità
ecclesiastiche del paese, sono in realtà la spia del timore che la rivoluzione
siriana possa rappresentare l’ultima pagina di quella “questione dei cristiani
d’Oriente” che negli ultimi anni è stata così drammaticamente rinvigorita da un
crescendo di persecuzioni contro le minoranze cristiane nei vari paesi arabi.
È stata soprattutto la caduta del regime di Saddam Hussein ad innescare
quest’ondata di violenze: basti pensare che in Iraq i cristiani erano circa
800mila prima del 2003 e adesso non sono più di 400mila. Il montare di queste
repressioni, in un momento di anti-occidentalismo galoppante in tutto il mondo
arabo, è stato probabilmente nutrito sul piano ideologico da un’associazione -
per quanto antistorica - tra cristianesimo e Occidente; quest’ultima ignora
palesemente il fatto che le comunità cristiane esistono sui territori orientali
sin dai tempi di Gesù e che, dunque, la loro storia poco si incrocia con quella
occidentale. Infatti la sua strumentalizzazione ideologica nella jihad
anti-imperialistica sembra stia diventando sempre più consistente, come ci hanno
mostrato, oltre al dramma iracheno, i recenti atti di violenza in Nigeria,
l’esplosione dell’autobomba nella chiesa copta di Alessandria d’Egitto nella
notte dello scorso capodanno e il moltiplicarsi delle violenze contro i
cristiani nell’Egitto post-Mubarak.
Perché dunque il discorso dei cristiani siriani è così ferventemente a favore del regime? C’è sicuramente una tradizione storica che fa della Siria un baluardo della tolleranza nei confronti dei cristiani. È anzi proprio in questo paese che le comuni radici lontane di islam e cristianesimo sembrano trovare la loro glorificazione: nella moschea degli Ommayadi di Damasco è sepolto - si dice - Giovanni Battista e qui si trovano i più importanti centri di pellegrinaggio cristiano della regione. I vecchi emiri di questo paese, inoltre, hanno sempre accolto i cristiani provenienti dal resto del mondo arabo: gli armeni che sfuggivano al genocidio turco, per esempio, si diressero in larga parte in questa terra; Fakkredine II strinse poi un’alleanza così forte con i maroniti da aiutarli a porre le basi, sui monti tra Damasco e la valle della Bekka, a quello che poi diventò il Libano moderno, lo stato decisamente più cristiano del mondo arabo.
Ma veniamo al regime siriano
attuale. Esso è - come dice il patriarca Gregorio III - un paese fortemente
basato sulla laicità, principio che, d’altra parte, è inscritto nell’ideologia
del partito Baath, il cui fondatore, Michel Aflaq era, tra l’altro, un siriano
di confessione cattolica. In Siria, come nell’Iraq di Saddam Hussein, come
nell’Egitto di Mubarak, i cristiani sono sempre stati protetti dal potere anche
in funzione di bilanciamento delle forze islamiste che hanno sempre
rappresentato la più forte minaccia per i regimi militari arabi nazionalisti e
socialisti.
L’autoritarismo di questi paesi ha, dunque, usato le comunità cristiane per
accrescere la sua base di legittimità contestata dalle forze islamiche
rivendicatrici di uno stato a carattere religioso. Non dimentichiamo che il
primo attore a esprimersi pubblicamente a favore di Mubarak nel momento
dell’esplosione della rivoluzione egiziana è stato proprio la massima autorità
della chiesa copta, chiarendo subito quale fosse il peso dell’alleanza tra
questa istituzione religiosa e il vecchio regime. E non a caso la caduta del
rais egiziano ha liberato, come sollevando il coperchio del vaso di Pandora, le
fila già latenti di una violenta lotta religiosa. In Siria i Fratelli Musulmani
non sono meno potenti che in Egitto, forse solo meglio “tenuti a freno” se
pensiamo, per esempio, che nel 1982 ad Hama Hafez al Assad, padre di Bashar,
diede ordine di lanciare razzi su un’insurrezione musulmana, provocando la morte
di oltre 20mila persone in un sol giorno.
In Siria, inoltre, l’alleanza
tra autorità e chiese cristiane è declinata sul principio della associazione tra
due minoranze religiose all’interno del paese. Il potere politico siriano è
infatti detenuto dal 1962 dalla setta degli alawiti, distaccatasi dallo sciismo
e mai davvero riconosciuta dalle altre comunità musulmane. Il legame tra i
cristiani e gli alawiti in Siria, è dunque fortemente strategico per un regime
la cui legittimità non è rivendicabile neppure sul piano demografico-religioso.
Non è un caso, infatti, che la Siria si sia offerta dal 2003 come destinazione
privilegiata del grande esodo dei cristiani iracheni, offrendo loro un facile
inserimento sociale.
Se Bahar al Assad dovesse cadere è molto probabile che l’opposizione islamica
possa guadagnare un considerevole peso politico ed è altrettanto probabile che
la vague di odio religioso anti-cristiano possa agganciare anche la Siria,
minacciando gravemente quel milione di cristiani che vive da sempre serenamente
in questo paese. Ed è proprio questo che i cristiani della Siria temono quando
difendono Bashar al Assad.
APPENDICE
Siria, dove cristiani e musulmani
fanno Pasqua insieme
A Deir Mar Musa, in un monastero sperduto tra monti e
deserto. Con la pace che sembra a portata di mano
Le manifestazioni scuotono drammaticamente il cuore della
Siria, il cambiamento sembra non volersi arrestare. Ed è proprio a Damasco,
città che Maometto paragonò al Paradiso, che nel giorno della Resurrezione arabi
copti e cristiani celebrano insieme, quando i calendari religiosi lo permettono,
la Pasqua.
Una settimana dedicata alla cura della fede e alla preghiera che si conclude con
una suggestiva processione poi la funzione e il grande pranzo. Copti, cristiani
ed anche musulmani, che pur non celebrando la Resurrezione si uniscono per
condividere il giorno di festa. Un esempio suggestivo di dialogo e convivenza
tra le religioni in una terra in cui da millenni queste fedi vivono fianco a
fianco nel rispetto delle proprie diversità.
Deir Mar Musa ne è la testimonianza più suggestiva, monastero cristiano immerso
nel deserto e arroccato su di una montagna, rimesso in piedi e gestito da un
monaco gesuita, italiano e arrivato in Siria nel 1982, don Paolo. Quando si
arriva ai piedi della montagna su cui è nato il monastero, ci si addentra lungo
la ripida gola rocciosa che conduce all'edificio, a piedi.
A destra e sinistra volano verso l’alto montagne rocciose circondate dal
deserto, un color rame misto a terra domina dappertutto. L'ingresso è attraverso
una minuscola porticina che si apre su una terrazza incantata, qui il tempo
sembra essersi fermato 1500 anni fa, quando i deserti e i passaggi spigolosi
dell'entroterra del Mediterraneo offrivano rifugio a centinaia di piccole e
isolate comunità indipendenti dedite al culto.
Questo è uno degli ultimi monasteri del deserto sopravvissuti nella Siria
moderna, dalla sua riconsacrazione agli inizi degli anni '80, è abitato da un
piccolissimo gruppo di monaci, suore e novizi, inoltre ospita sia uomini che
donne, sia cattolici che siriani ortodossi e musulmani. Qui anche i cristiani
pregano in arabo ed è in questa stessa lingua che si svolge la vita sociale e
liturgica della comunità monastica.
Gli ospiti a cui viene dato alloggio in cambio di partecipazione attiva alla
vita del monastero osservano increduli il luogo incantato raggiunto, un'oasi
sperduta. L'antica vita monastica orientale è elemento essenziale dell'anima
cristiana ed anche del mondo culturale, simbolico e mistico dell'Islam. La
comunità di Deir Mar Musa è quindi prima di tutto una comunità di silenzio e di
preghiera, tanto nella vita personale dei monaci e delle monache che nella loro
vita sociale.
Dopo la funzione religiosa si inizia a preparare il pranzo. Riso con le fave, zucchine, carote e piselli cotti nel brodo, formaggio e yogurt di capra, ricotta salata contornata da marmellata di albicocche, miele e spezie tipiche. Durante il pranzo, Don Paolo racconta la storia del monastero e di come sia stato semplice ed ammaliante far convivere siriani cristiani, ortodossi e musulmani. Accanto a noi infatti cena una famiglia musulmana, venuta per condividere il giorno di festa. Colpita dal nostro abbigliamento sportivo certamente poco consono alla più stretta tradizione religiosa, la madre osserva curiosa.
«I musulmani che vivono nei villaggi qui intorno», racconta
Ahmed, «sono meno abituati a confrontarsi con turisti e stranieri, sono molto
legati alla loro cultura e alle regole di comportamento islamiche, vivono qui
nel deserto da sempre e sono molto rispettosi anche della religione cristiana.
Amano conoscere gli occidentali, non temono le nostre differenze».
Accanto al padre, Nour sorride, avrà 5 anni. Ha un volto molto bello, zigomi
pronunciati, pelle macchiata dal sole, occhi nocciola dal lieve richiamo
orientale, lunghi capelli castani. Le mani tamburellano impazienti sulla
tovaglia, vorrebbe avvicinarsi, provare a parlarmi. Stuzzicata dal suo sguardo
impaziente la mamma le dice all'orecchio che può alzarsi.
Nour si avvicina, osserva divertita lo strappo che corre sui jeans di un ragazzo
inglese seduto a tavola, ci passa sopra un dito e torna a sedersi divertita. Il
pranzo si avvia alla conclusione, la preghiera in arabo benedice il momento
vissuto. Nour saluta i presenti con timidi sguardi, nel deserto un momento che è
rimasto per me indimenticabile di un'unione tra popoli, culture e religioni.
Possibile e qui reale.
APPROFONDIMENTO
Shadi Hijazi, siriano con un dottorato di ricerca in Business Administration, fa notare come milioni di persone siano scese in strada a favore di al-Asad, in occasione dei cortei organizzati per celebrare il decreto presidenziale che annunciava un'amnistia generale