TELECOM SVENDUTA:

ITALIA SEMPRE PIÙ VICINA ALLA GRECIA.

STANNO COMPRANDO A SALDO IL PAESE, MENTRE

LA POLITICA DEGENERA NEL CAOS

 

(a cura di Claudio Prandini)

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Saldi Telecom

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Le parole dell’amministratore delegato di Telecom Italia (“Italia” per poco)  Franco Bernabè, il giorno dopo la svendita di Telecom agli spagnoli di Telefonica, sono inquietanti e indicative allo stesso tempo. Prima il sofisma: «Telecom non è diventata spagnola». Ma il punto più importante è quando l’ad si scaglia contro chi si indigna solo adesso, a cose fatte: «Per arrivare a scelte differenti dovevamo tutti quanti pensarci prima – ha attaccato durante l’audizione al Senato -. Se il sistema Italia fosse stato davvero così preoccupato del futuro di Telecom, come si è dimostrato in questi ultimi due giorni, forse sarebbe stato possibile un intervento più strutturato. Questo straordinario interesse per Telecom non mi sembra il sentimento che ha ispirato finora il sistema Italia. Se si parla di sistema sarebbe stato necessario un consenso più unanime e organico sugli obiettivi di Telecom».

Parole che – al di là della responsabilità di chi dirige un asset del genere – indicano il livello di sciatteria diffusa e i responsabili a tutti i livelli nella gestione del destino industriale italiano. Non è un caso, a proposito, che Enrico Letta, in “missione” negli States proprio per proporre affari per l’Italia, solo martedì prossimo riferirà in Aula sull’accaduto. Il premier, insomma, non ha reputato di dover rientrare prima in Italia per affrontare le legittime richieste di spiegazione. Anzi, proprio ieri Letta ha alzato le mani sulla questione così: «Bisogna considerare che Telecom è una società privata», “dimenticando” a quanto pare il principio dellagolden share – il potere di uno Stato anche rispetto un’azienda privatizzata quando arriva un acquirente straniero.

Anche a livello politico non mancano responsabilità, incongruenze e ricostruzioni storiche parziali. Protagonista, in questo caso, il Pd che si straccia le vesti sul caso Telecom – «svendita del nostro patrimonio nazionale inaccettabile» hanno tuonato capigruppo ed esponenti democratici – dimenticando forse come proprio quel patrimonio fu privatizzato e poi tolto dal controllo del Tesoro rispettivamente da Romano Prodi e da Massimo D’Alema: due massimi esponenti del centrosinistra di governo e del Pd in particolare.

Ovviamente la parte del leone (in negativo) la fa la classe dirigente dell’imprenditoria italiana – tra “famiglie” e “capitani coraggiosi” - che ha dimostrato di non saper né voler gestire tanto Telecom quanto altre importanti aziende, utilizzando i soldi delle banche per acquisire per poi vendere dopo aver scaricato sull’azienda stessa i debiti. Un circolo vizioso – questo tra privatizzazioni, cattiva impresa e mancato ruolo della politica – che ha portato anche il settore delle telecomunicazioni (dove l’Italia era leader) fuori dalla nostra giurisdizione. «Telefono casa…»? Non più.

 

 

Sergio Rizzo -- l'affare Telecom 24 settembre 2013

 

 

Telecom svenduta

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"Ora Telecom è saldamente in mano agli spagnoli di Telefonica. Una grande iattura, perché il Paese ha perso un asset strategico. L'Italia può dire addio alla banda larga, perché Madrid non metterà una lira per gli investimenti nella rete di nuova generazione".

L'economista Giulio Sapelli (nella foto), intervistato da Affaritaliani.it sull'accordo fra Generali, Intesa, Mediobanca e Telefonica sul cambio dei pesi azionari in Telco, commenta così la vicenda Telecom. Un pasaggio delle leve di controllo che "in Germania o in Francia, i rispettivi governi non avrebbero mai permesso". "La colpa più grande - sottolinea infatti l'economista - è dell'esecutivo Letta. Avrebbe dovuto usare la Golden Share e intervenire nell'economia come ha fatto Obama negli States".

 L'INTERVISTA

Generali, Intesa e Mediobanca e gli spagnoli di Telefonica per il cambio del controllo di Telco e, a valle, di Telecom Italia?
"In maniera molto negativa. Ora Telecom è saldamente in mano a Telefonica. I soci italiani avevano le mani legate e avevano annunciato che non avrebbero rinnovato il patto che li lega in Telco.  Con poco più di 300 milioni di euro, quindi, gli spagnoli controlleranno tutta Telecom Italia".
 

Una fortuna o una iattura per il Paese visto che a prendere il controllo sarà finalmente un socio di tipo industriale e non finanziario?
"Una grande iattura. Così, l'Italia perde un asset strategico. Dopo aver minacciato lo scorporo della rete e di fatto avviandola, il governo l'ha indebolita e ha fatto la politica più dissennata che poteva fare".

Perché? Anche il management avrà delle responsabilità...
"La responsabilità principale non è dei manager, ma dell'esecutivo che doveva usare la Golden Share, fermare gli spagnoli e rinegoziare i termini del contratto. In questo modo perdiamo una rete strategica. Possiamo forse pensare che in Francia o in Germania sarebbe potuta capitare una cosa simile? Io credo di no. Ora, Telecom va in contro allo smembramento. La prima cosa che faranno gli spagnoli, che in Brasile possiedono già Vivo, sarà vendere Tim Brasil e tutte le altre attività in America Latina. In Italia, poi, dove i margini cadono, ci sarà bisogno di miliardi di investimenti, ma gli spagnoli si guarderanno bene dal farli. Rimarremo senza rete telefonica".

Quindi, possiamo dire addio alla banda larga?
"Certo, perché Telefonica non ci metterà una lira".

Allora, forse, per l'Italia era meglio lo scioglimento di Telco e un liberi tutti per la contendibilità di Telecom?
"Certo, era meglio sciogliere Telco, promuovere la contendibilità dell'ex monopolista e mettere in fila grandi investitori in grado di mobilitare ingenti risorse per promuovere l'innovazione tecnologica".

Faccia qualche nome, visto che gli imprenditori italiani sembrano senza capitali e le banche, dopo la crisi e con Basilea 3, devono concentrarsi sul core business. Chi può entrare in Telecom?
"Lo Stato".

E il debito pubblico?
"Cambia forse qualcosa per l'Italia che passerebbe così da 2000 miliardi a 2040 miliardi di debito pubblico? Credo di no. Prima della vendita agli spagnoli, bisognava che lo Stato ci mettesse i soldi tramite la Cassa Depositi e Prestiti. Istituto che già impiega tutti i suoi soldi nella maniera più disparata".

D'accordo, ma bisognava prima cambiare lo statuto di Cdp che non è come la  tedesca Kwb...
"Certo, ma ripeto che una vicenda come quella di Telecom non sarebbe capitata in Germania. Negli anni '80 addirittura in Gran Bretagna, il primo ministro inglese Margaret Thatcher fece scendere al 15% di British Petroleum il fondo del Kuwait, quando compro il 25% del capitale".

Il governo Letta potrebbe fare qualcosa in Zona Cesarini?
"Ora può fare ben poco. Di solito, in Zona Cesarini si possono soltanto perdere le partite. Non si fanno solo i gol".

Telecom agli spagnoli di Telefonica, Alitalia ai francesi di Air France, Ansaldo Energia, Sts e Breda divisa fra i coreanio di Doosan, gli americani di General Electric e i giapponesi di Hitachi e Monte dei Paschi sul giro d'aria Come fermare la svendita del made in Italy?
"Un intervento dello Stato nell'economia alla Barack Obama. Non con una nuova Iri, ma con una rete di imprese pubbliche. Un intervento tampone, momentaneo a cui affiancare in maniera parallela una politica industriale efficiente per far sviluppare le imprese".  

 

 

SENZA TELECOM, SENZA AEREI, SENZA UN ....

 

 

Come nel '99: il déjà-vu del manager

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La Telecom gli è stata fatale per due volte. La prima nel '99, quando la «razza padana» che già aveva acquisito il controllo di Olivetti aveva sferrato un'Opa a debito su Telecom con il sostegno delle grandi banche d'affari Usa e del governo D'Alema. Franco Bernabè era stato nominato amministratore delegato del gruppo telefonico da appena qualche mese, proveniente dall'Eni, di cui aveva retto le sorti nel periodo di Tangentopoli.

All'Eni aveva lavorato bene, aveva ridato credibilità al gruppo, lo aveva riorganizzato su scala internazionale, promuovendo una nuova generazione di dirigenti, e lo aveva collocato in Borsa in varie tranche, aprendone il capitale ai piccoli risparmiatori e ai fondi pensione di tutto il mondo e contribuendo ad attuare il piano di privatizzazioni del Tesoro che in quel momento si rendeva indispensabile per l'ingresso dell'Italia nell'euro.

Aveva già passato quasi sette anni alla guida dell'Eni quando i rappresentanti del "nocciolo duro" lo chiamarono in Telecom. La compagnia telefonica era stata privatizzata nell'autunno del '97, ma non aveva trovato un proprio assetto manageriale. Il primo presidente, Guido Rossi, che aveva gestito la fase preparatoria dell'Offerta pubblica di vendita, si era dimesso subito dopo l'insediamento degli azionisti privati ed il suo successore, Gian Mario Rossignolo, molto vicino ad Umberto Agnelli, si era rivelato inadeguato a gestire una società dagli equilibri così complessi in cui lo Stato aveva mantenuto una piccola quota accanto alla golden share.

Bernabè, che era uno dei top manager più apprezzati dai mercati finanziari proprio per il lavoro svolto all'Eni, avrebbe dovuto ridare smalto a Telecom, ma, mentre veniva cooptato alla guida operativa della società dal ghota dell'industria e delle banche, gli scalatori erano all'opera da tempo e stavano per negoziare i placet politici per l'Opa ostile.

Fu una battaglia persa, quella di Bernabè. L'unica mossa che avrebbe potuto sbarrare la strada ai Colaninno e agli Gnutti sarebbe stata la fusione Telecom-Tim nei giorni immediatamente successivi all'annuncio dell'Opa, quando la Consob aveva obbligato la Olivetti a riformulare l'intera operazione e non era ancora entrata in vigore la passivity rule. Ma Bernabè fece altre scelte e non vi fu nulla da fare. Da quel momento in poi l'uomo sembrava uscito di scena, aveva financo intrapreso delle sue attività imprenditoriali, quand'ecco che un bel giorno del 2007 viene ricooptato al vertice di Telecom grazie a un accordo tra Bazoli e Geronzi, i banchieri di "sistema" che si proponevano di salvare la società dalle grinfie di Telefonica.

Decisivo fu in questa occasione anche il via libera degli azionisti francesi di Mediobanca (Bollorè e Ben Ammar) anch'essa imbarcata nella Telco insieme a Generali e a Intesa Sanpaolo per assicurare la difesa dell'italianità di Telecom. Per Bernabè sembrava arrivato il momento della rivincita. S'è invece avverata a distanza di anni la profezia contenuta nel suo discorso a tutti i dipendenti di Telecom pronunciato nel '99 nel pieno della battaglia contro Colaninno: "Cari politici, state lasciando che la società sia appesantita da una montagna di debiti da cui non si riavrà più". Sembra sia stata la lettura di queste pagine appassionate a convincere Bolloré e Ben Ammar a sciogliere le loro riserve su Bernabè al momento della sua nomina ad amministratore delegato.

Telco, che aveva ereditato gli ulteriori debiti contratti da Olimpia, avrebbe dovuto ripatrimonializzare Telecom per permetterne il rilancio degli investimenti, per consentirle di realizzare una moderna infrastruttura in fibra ottica al servizio del paese e dell'economia. Ed è nell'attesa vana di una ricapitalizzazione solo adombrata ma mai attuata che la società è scivolata nelle mani di Telefonica. Già nel '97 le banche azioniste del "nocciolo duro" avevano dimostrato di non essere all'altezza della sfida delle telecomunicazioni, un settore a rendimento molto differito nel tempo. A Bernabè non è rimasto che prenderne atto e trattare la resa.

 

 

MAURIZIO CROZZA l'Italia in vendita 24/09/2013

 

 

OLTRE TELECOM: LA CRISI EPOCALE

DA CUI L’ITALIA NON SA USCIRE

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Il caso Telecom Italia è in queste ore balzato all’onore delle cronache, ricordando all’opinione pubblica come il nostro paese stia drammaticamente perdendo i suoi cespiti più importanti. L’informazione moderna è frenetica e la memoria del pubblico corta: probabilmente la notizia, e il dibattito attorno ad essa, saranno già dimenticati nel giro d’un paio di giorni. Lo dimostra il fatto che il clamore suscitato oggi dal passaggio della compagnia telefonica nazionale in mani spagnole sia in realtà ingiustificato, trattandosi solo dell’ultimo episodio d’un processo di privatizzazione, parcellizzazione e vendita all’estero dei cespiti italiani che prosegue da oltre un ventennio. Processo che va di pari passo con la collocazione del debito pubblico all’estero, l’incremento della pressione fiscale per pagare i sempre più onerosi interessi, la cessione della politica monetaria a un’entità esterna, la rinuncia ad un ruolo statale nell’economia, ed altro ancora.

Tutti fenomeni interrelati tra loro, che rispondono ad una carenza strategica dell’Italia e hanno il loro esito nella retrocessione del paese a un ruolo completamento subalterno. Ma andiamo per ordine.

Nel 1963 la nazionalizzazione del comparto elettrico, varata da Amintore Fanfani, conferì il monopolio nel settore all’ENEL. La SIP, una società elettrica rilevata negli anni ’30 dall’IRI e che fin dagli anni ’20 aveva investito nel settore telefonico, sfruttò le entrate derivanti dalla vendita dei cespiti all’ENEL per dedicarsi interamente a quest’ultimo settore, in cui già era da alcuni anni monopolista di fatto controllando tutti gli operatori. La storia della SIP è di successo, d’un operatore all’avanguardia mondiale. Ad esempio, è italiana l’introduzione della prima scheda telefonica al mondo (1976), una tecnologia protagonista per alcuni decenni della telefonia nonché antesignana della scheda ricaricabile. Anche questa seconda tecnologia, decisiva per lo sviluppo della telefonia mobile, fu un’invenzione italiana: la prima scheda ricaricabile al mondo fu emessa dalla TIM, nel 1996. Nel 1973 la SIP creò invece RTMI, la prima rete italiana radiomobile integrata nel sistema telefonico nazionale: è lo stesso anno in cui negli USA la Motorola lanciava il primo telefono mobile. Nel 1979 l’azienda statale italiana pose i primi 16 km di fibra ottica a Roma: si tenga presente che tale tecnologia era stata applicata per la prima volta negli USA solo due anni prima. All’inizio degli anni ’90 la SIP era l’azienda europea col maggior numero d’abbonati al servizio radiomobile. La STET, la società tramite cui l’IRI controllava la SIP, aveva più di 135.000 dipendenti e un fatturato di quasi 14.500 miliardi di lire. Tra le controllate di STET erano anche imprese strategiche come Selenia (produzione di radar, avionica, elettronica di bordo, sistemi missilistici) e Sistel (sistemi missilistici).

Nel 1985 cominciò il processo di privatizzazione, con la quota STET in SIP che decrebbe dall’82% al 54%. Nel 1994 dalla fusione di SIP con altre società controllate dalla STET nacque Telecom Italia, che nel 1997 si fuse con la STET stessa mantenendo il proprio nome. Nel 1995 fu invece scorporata TIM (che Telecom Italia avrebbe riacquistato nel 2005, aggravando il proprio indebitamento); SEAT fu invece scorporata e privatizzata a vantaggio d’una cordata guidata da De Agostini. Nel 1997, sotto il governo Prodi e con Guido Rossi a capo della società, il Tesoro cedette quasi tutte le sue azioni (il 35,26% del capitale) ricavando 26.000 miliardi di lire. Quasi 13 miliardi e mezzo di euro, allora decisivi per l’ingresso dell’Italia nell’Euro, ma ben poca cosa di fronte a un debito pubblico che oggi ha superato i 2000 miliardi di euro. All’epoca fallì il progetto di conferire il controllo di Telecom Italia a un “nocciolo duro” costruito attorno agli Agnelli e cominciarono le scalate: prima quella della cordata guidata da Roberto Colaninno e riunita nella società Hopa (1999), poi quella della Olimpia di Marco Tronchetti Provera (2001), infine quella della Telco composta da banche italiane e dalla società spagnolo Telefonica (2007).

L’OPA lanciata dalla cordata guidata dal Colaninno nel 1999 ebbe dimensioni imponenti: un affare da 100.000 miliardi di lire, il più grande (ancora oggi) nel suo genere in Italia e tra i maggiori al mondo. Eppure, tanto Colaninno quanto i suoi soci misero direttamente sul piatto poco denaro, facendosi invece forti del credito ottenuto da varie banche, con in testa la statunitense Chase Manhattan che garantì da sola metà dell’importo. Anche quello della Olimpia fu un acquisto a debito, e questa particolare modalità di scalata si è ripercossa sullo stato di salute della Telecom Italia. Sebbene i protagonisti abbiano sempre respinto l’accusa di aver scaricato sulla società i debiti maturati per acquistarla, è un fatto che dalla privatizzazione a oggi la Telecom abbia sostanzialmente bloccato gl’investimenti sulla rete, dimezzato i dipendenti (da 120.000 a 55.000), ceduto il proprio patrimonio immobiliare (con ingenti ricavi ma acquisendo l’onere d’affitti che ogni anno costano alla società varie centinaia di milioni di euro), passato di mano investimenti e controllate (Italtel, Digitel, Tim Hellas, Alice France e altre ancora). Malgrado questo ingente piano di dismissioni e ridimensionamento, il debito della società è esploso, dagli 8,1 miliardi di euro del 1998 ai 36 miliardi di euro di oggi. Ma, mentre la Telecom Italia accumulava questi ulteriori 28 miliardi di debiti, la società ha continuato a distribuire generosi dividendi ai suoi azionisti: ben più di 20 miliardi di euro.

Oggi politica e opinione pubblica fanno mostra d’indignazione per l’acquisizione della Telecom Italia da parte di Telefonica. La società spagnola con un investimento di poco più di 800 milioni di euro acquisisce il controllo di una che sul mercato vale 11 miliardi; i giornali hanno poi ben descritto come Telefonica, già indebitata di suo (54 miliardi di euro di debito netto), difficilmente investirà sulla rete italiana, ma anzi il suo principale interesse è sbarazzarsi della concorrenza che le sussidiarie Telecom Italia in Sudamerica fanno alla compagnia spagnola. Eppure, il disastro della Telecom Italia – da multinazionale dello Stato italiano all’avanguardia nel mondo a indebitato carrozzone svenduto a una compagnia straniera – si è consumato, lentamente e inesorabilmente, nel giro di un quarto di secolo, ed epitoma una sorte simile toccata a tante altre eccellenze italiane coinvolte nel processo di privatizzazione – un mantra che, sempre per un quarto di secolo e più, è stato ripetuto e presentato come taumaturgico dalla politica e dell’intellighenzia italiana. Alitalia e Cirio sono esempi di compagnie che, dopo l’uscita dall’IRI, non hanno certo brillato. Finmeccanica, rimasta in mano pubblica, ha mantenuto e consolidato il suo ruolo nel mercato globale, ma oggi è nel mirino della prossima tornata di privatizzazioni.

Il passaggio in mano straniera di determinate compagnie non è una questione di prestigio nazionale. Pecunia non olet. Il problema è altresì strategico e di tenuta del sistema Italia. La rete telefonica (ivi inclusa Internet) del nostro paese è passata in mano spagnola. Il sistema agroalimentare italiano è stato in larga parte acquisito dai francesi. Nell’informatica sono lontani i tempi in cui la Olivetti gareggiava con i marchi statunitensi nell’introduzione dei primi PC. L’industria degli armamenti, economicamente ancora sana, a causa della pressione della politica e di quella dell’opinione pubblica dopo il disvelamento d’alcuni scandali di corruzione, ha avviato la cessione di cespiti all’estero. L’Italia sta perdendo non solo il controllo di elementi strategici della sua economia e capacità produttiva, ma il processo di privatizzazione – a prescindere che sia avvenuto a vantaggio di compagnie stranieri o di “capitani coraggiosi” di casa nostra – si è accompagnato generalmente al radicale calo degl’investimenti nell’ammodernamento delle strutture e nella ricerca scientifica, nonché alla delocalizzazione d’impianti e produzioni all’estero. Vi è inoltre il problema fiscale: l’acquisizione da parte di grosse multinazionali favorisce quei processi di elusione in virtù del quale corporation dai fatturati miliardari versano in tasse cifre irrisorie (vedi il caso Apple, capace di pagare nel 2011 dieci milioni di tasse pur avendo entrate da 22 miliardi).

La perdita di controllo su strutture strategiche, il calo dell’occupazione, l’uscita da settori ad alta tecnologia (la progressiva sparizione della grande industria in Italia è all’origine di quell’incapacità del sistema d’assorbire i laureati italiani, con conseguente “fuga dei cervelli” istruiti a caro prezzo), sono problemi che l’Italia patisce non da oggi, ma da decenni, e che sono indipendenti dalla nazionalità dell’acquirente del cespite privatizzato. Gioielli dell’industria italiana, oggi finiti in mano straniera o in procinto di farlo, vi sono giunti dopo che il capitalismo nazionale li ha demoliti con una gestione poco lungimirante, e certo incosciente, mirante solo a massimizzare i profitti a breve termine. Uno Stato debole e guidato da funzionari poco coscienziosi, che si sono fatti scudo strumentalmente del tema del debito pubblico (le privatizzazioni hanno inciso e incideranno minimamente a vantaggio delle casse statali), ha svenduto beni così faticosamente creati e accumulati dall’Italia in sforzi pluridecennali. Inutile oggi stracciarsi le vesti perché Telecom Italia diventa spagnola, e il giorno dopo svendere ENI o Finmeccanica. Inutile anche recuperare la rete per decreto – e un nuovo sacrificio finanziario, dal momento che non si può espropriarla senza indennizzo – salvo poi perseverare nel non investirvi per ammodernarla, cosa più che probabile visto che nessuno più in Italia, né lo Stato né le banche né gl’industriali, hanno i soldi necessari e la volontà di spenderli.

Il problema è a monte. È in un’adesione ideologica e dottrinaria al neoliberalismo, coi suoi mantra del laissez-faire, della non ingerenza dello Stato nell’economia, del privatizzare, del lasciar fare al mercato. È nell’assenza di una pianificazione strategica da parte dello Stato e di una riflessione strategica da parte della società civile. È nell’incapacità della società italiana di mantenere una coesione morale e un minimo di patriottismo necessari a salvarla dagli ovvi assalti di competitori stranieri giustamente decisi a massimizzare i propri profitti. Sono questi gl’ingredienti della crisi del nostro paese, ch’è non solo la crisi del debito che l’attanaglia ormai da alcuni anni, ma è una più generale retrocessione dell’Italia dal suo rango di paese tra i più avanzati al mondo. Senza affrontare questi macro-problemi il declino proseguirà inarrestabile. E Telecom Italia che passa a Telefonica, nel libro di questo declino, è paragonabile a non più di un breve paragrafo.

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* Daniele Scalea è direttore generale dell'IsAG e condirettore di "Geopolitica". Di recente è uscito il suo terzo libro, Halford J. Mackinder. Dalla geografia alla geopolitica

 

 

APPROFONDIMENTO

 

Telecom Italia, spremuta, spolpata e venduta

Negli ani tra il 1999 e il 2007 ovvero durante le gestioni di Colaninno e Tronchetti Provera dalla società di telecomunicazioni sono stati drenati 24 miliardi. Il fallimento di un'intera classe dirigente che continua ad occupare i posti chiave della politica, dell'economia e della finanza.