COMPLOTTO IRAN IN USA?
BASTA GIOCARE COL FUOCO!!!
(a cura di Claudio Prandini)
INTRODUZIONE
Washington accusa due iraniani, e il governo iraniano con loro, di aver voluto uccidere l'ambasciatore saudita a Washington.
Quello che non si capisce bene, nello scenario ricostruito dai servizi
americani, è a cosa servirebbe una cosa del genere. Che guadagno trarrebbe
l'Iran dall'uccidere l'ambasciatore saudita negli Stati Uniti?
Sauditi e iraniani non si amano, la
famiglia reale saudita ha una vera e propria fobia per l'Iran, ma l'uccisione di
un ambasciatore presso un paese terzo non è mai stata una mossa contemplata da
altri paesi, semplicemente perché è priva di senso, pericolosa ed estremamente
autolesionista.
Non si capisce proprio perché l'Iran avrebbe dovuto imbarcarsi in un'impresa del
genere e cosa avrebbe sperato di guadagnarci, cosa si vince a uccidere un
ambasciatore?
Dall'altra parte c'è l'esistenza di una massiccia e lunga campagna di propaganda
anti-iraniana, che spinge ad accogliere con sospetto e prudenza notizie del
genere, in particolare quando poi sembrano copioni di fantasia con ben poche
possibilità di essere radicati nella realtà.
Anche e soprattutto a dispetto degli
sforzi del Dipartimento di Stato, che evidentemente spara al ventre molle
dell'opinione pubblica americana senza andare tanto per il sottile o
preoccuparsi delle conseguenze.
Nei primi
lanci d'agenzia si parlava anche di "armi di distruzione di massa", ma poi sono
sparite, come al solito. Per ora uno solo dei due è stato detenuto e nella
citazione (qui
l'originale) si spiega come in realtà non sia mai
stato in pericolo nessuno, particolare ribadito dai portavoce che hanno diffuso
o commentato la notizia.
Secondo gli americani l'iraniano voleva commissionare l'assassinio
dell'ambasciatore a un cartello messicano con il quale poi pensava anche di fare
affari rifornendolo d'oppio dall'Iran.
Un discreto delirio, forse troppo per poter essere creduto. Intanto l'Arabia
Saudita ne approfitta e si comporta come se tutto fosse vero e già dimostrato.
Complotto o farsa?
Secondo alcuni esperti le accuse all'Iran di questi giorni contraddicono quasi tutto quello che si sa della politica estera iraniana e delle sue forze speciali
Martedì 11 ottobre, il procuratore generale degli Stati Uniti Eric Holder ha accusato alcuni alti funzionari iraniani di aver diretto un complotto per l’uccisione dell’ambasciatore saudita negli Stati Uniti. L’annuncio ha stupito molto esperti di politica internazionale e commentatori, che hanno trovato i dettagli della questione molto implausibili e molto diversi dal modo in cui è gestita la politica estera iraniana da molti anni. Giovedì 13, Barack Obama ha fatto la prima dichiarazione pubblica sulla vicenda, dicendo che gli Stati Uniti promuoveranno “le sanzioni più dure” contro l’Iran. Ma anche il presidente si è dimostrato cosciente delle critiche alle accuse, dicendo che “non avremmo portato avanti il caso, se non sapessimo esattamente come sostenere tutti gli aspetti dell’accusa”.
L’attentatore implausibile
Due giorni fa il New York Times aveva pubblicato un ritratto di Mansur Arbabsiar, il 56enne iraniano emigrato negli Stati Uniti che secondo il Dipartimento di Giustizia sarebbe stato il tramite tra alti funzionari iraniani e i narcos messicani dei Los Zetas, per organizzare una serie di attentati alle ambasciate di Israele e dell’Arabia Saudita e per uccidere l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti. I vicini di casa e i suoi amici, che lo chiamavano Jack, lo hanno descritto come una persona disordinatissima, che perdeva in continuazione le chiavi o il cellulare, ma che certamente non era un violento né un fondamentalista (beveva e fumava marijuana).
Jack è in carcere dal 29 settembre ed è già comparso una volta davanti a un giudice federale. Durante i suoi oltre trent’anni in Texas (ci era arrivato da ragazzo, e per un po’ dopo il suo arrivo aveva studiato ingegneria meccanica a Kingsville) aveva avviato molte piccole imprese commerciali, dalla vendita di cavalli ai gelati e ai panini, fino alle auto usate. Quasi tutti erano falliti, con un seguito di cause legali e di creditori arrabbiati.
L’uomo accusato di essere il principale organizzatore del complotto, a detta di chi lo conosceva, non ne aveva i mezzi né la capacità. Ma oltre all’inaffidabilità di Jack Arbabsiar, anche chi ha valutato il presunto complotto dal punto di vista delle relazioni internazionali ha fatto osservazioni critiche sulla plausibilità della vicenda.
La politica estera iraniana
Stephen Walt, sul suo blog su Foreign Policy, ha scritto che
a meno che l’amministrazione Obama (e in particolare il procuratore generale Eric Holder) non abbia prove ben più concrete di quelle che ha reso pubbliche finora, rischia di fare una figuraccia diplomatica pari a quella del famoso discorso di Powell al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sulle presunte armi di distruzione di massa dell’Iraq.
Gli Stati Uniti, dice Walt, non si sono mai stati restii a rispondere con la forza ad ogni attacco sul proprio territorio: dall’attacco giapponese a Pearl Harbour, che causò l’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale, all’attacco alle Torri Gemelle, che produsse la War on Terror del presidente Bush. Difficile che i dirigenti iraniani, “che non sono stupidi” (come scrive Walt) si espongano al rischio di organizzare un attentato che sarebbe interpretato dagli Stati Uniti come una dichiarazione di guerra.
L’analista Afshon Ostovar ha detto che il primo obbiettivo delle autorità iraniane, fin dalla rivoluzione del 1979 che ha portato all’istituzione di una repubblica islamica, è quello di assicurare la sopravvivenza del regime e di evitare lo scontro diretto con gli Stati Uniti.
Che cos’è la Quds Force
È vero che i politici e i religiosi iraniani più moderati e realisti hanno spesso faticato a tenere a freno le frange più estremiste, e che la stessa spaccatura si è vista, negli ultimi dieci anni, anche all’interno delle Guardie della Rivoluzione, di cui fa parte la Quds Force. Arbabsiar, secondo le accuse statunitensi, sarebbe stato l’intermediario tra la Quds Force e i cartelli della droga messicani per organizzare l’attentato. Ma il corpo militare iraniano si è costruito negli anni la fama di essere estremamente efficiente e ben organizzata, e difficilmente, dicono gli esperti, avrebbe fatto affidamento su un rivenditore di auto usate inseguito dai creditori a Corpus Christi, Texas.
La Quds Force è un corpo con poche migliaia di membri (le stime dicono tra 5.000 e 15.000) che fa parte della formazione militare iraniana delle Guardie della Rivoluzione, ed è stata creata dopo la fine della guerra tra Iran e Iraq (1980-1988). Il suo capo, il generale Ghassem Suleimani, dipende direttamente dall’ayatollah Ali Khamenei, l’autorità politica e religiosa più alta in Iran.
Simile alle forze per le operazioni speciali statunitensi, si occupa soprattutto del sostegno a gruppi stranieri, a cui fornisce addestramento militare, denaro e materiali. Ha molti mezzi e una grande disponibilità di denaro, ma opera soprattutto attraverso la sua solida rete di contatti in Iraq, Afghanistan e Libano (dove fornisce armi ad Hamas). I suoi collaboratori hanno spesso legami molto stretti con i comandanti delle Guardie della Rivoluzione e i leader iraniani, e raramente la Quds Force lascia tracce del suo passaggio. In linea con questa strategia, fino ad oggi non si conoscevano legami di alcun tipo con i cartelli della droga messicani.
Preparativi di attacco all'Iran come in Iraq?
Nello stesso giorno in cui a Washington tutte le massime cariche statali denunciano un «complotto» (dicono proprio così, e i media clonano la definizione all’infinito), ossia una cospirazione terroristica con base a Teheran perpetrata sul suolo americano, anche a Baghdad le stragi si sono intensificate ad opera di terroristi suicidi. Una giornata simile merita di essere accostata a un fatto accaduto qualche anno fa e passato quasi sotto silenzio. Si tratta di una dichiarazione eclatante resa da Zbignew Brzezinski alla Commissione Esteri del Senato Usa il 1° febbraio 2007, quando paventava un «plausibile scenario per una collisione militare con l’Iran». E cosa prevedeva questo scenario?
Guarda guarda, includeva «il fallimento [del governo] iracheno nell’adempiere ai requisiti [stabiliti dall’amministrazione statunitense], con il seguito di accuse all’Iran di essere responsabile del fallimento, e poi, una qualche provocazione in Iraq o un atto terroristico negli Stati Uniti che sarà attribuito all’Iran, [il tutto] culminante in un’azione militare “difensiva” degli Stati Uniti contro l’Iran». Brzezinski, Segretario alla Sicurezza Nazionale con Jimmy Carter, è uno dei maggiori esperti e consiglieri di politica estera di numerose Amministrazioni americane, e appartiene a un’ala dell’establishment, che – pur conservando una visione imperiale della missione americana – negli ultimi anni ha teso tuttavia a mettere in guardia rispetto alla deriva bellica imposta dall’ala più “avventurista”, chiamiamola così, dell’establishment.
Nel 2007 la critica di Brzezinski puntava molto in alto, lamentando, sull’Iraq, «il fatto che le principali decisioni strategiche vengono prese in un circolo assai ristretto di persone, forse non più delle dita della mia mano. E sono questi individui che hanno preso la decisione iniziale di andare alla guerra». E nel caso dell’atto terroristico ipotizzato, era la prima volta che una voce americana di così straordinaria autorevolezza, considerava “plausibile” che qualcuno, in seno agli apparati di governo statunitensi, potesse organizzare un attacco contro gli Stati Uniti, in modo da attribuire poi il tutto a qualche nemico esterno e provocare una guerra.
Nel decennio post 11/9 sono ormai innumerevoli i casi di “attentati sventati” in cui la manovalanza terrorista era gestita da agenti provocatori dell’Fbi. Il “complotto” dell’ultim’ora non fa eccezione. Intanto, il club ristretto ed esclusivo dei decisori dell’Impero in crisi sta già tirando fuori anche oggi la vecchia macabra formula che recita che «tutte le opzioni sono sul tavolo», accompagnata dal mantra sull’Iran «principale sponsor mondiale del terrorismo». Le autorità iraniane, in risposta, hanno recitato un lungo rosario di nomi, i tanti scienziati nucleari uccisi in attentati da due anni in qua.
L’apertura di un nuovo teatro bellico sarebbe l’incubo di molti generali statunitensi. Non è un caso che fra i più recalcitranti rispetto all’opzione bellica ci sia il Pentagono, che si affretta a precisare, per bocca del portavoce John Kirby, che si tratta solo «di una questione giudiziaria e diplomatica». Ultime resistenze dell’ala realista, che non pensa che la soluzione al logoramento delle forze armate segnate da dieci anni di guerre risieda nell’appiccare l’incendio di una guerra più grande ancora. Il vicepresidente Joe Biden e il segretario di Stato Hillary Clinton invece prefigurano già una nuova escalation di sanzioni e misure militari, spalleggiati oltreoceano dal primo ministro britannico David Cameron e dalla petromonarchia dei piranha sauditi. Brzezinski, se ci sei, batti un colpo.
Ambasciata dell'Arabia Saudita a Washington
ANALISI. La rivelazione di un possibile attentato contro l’ambasciatore di Riad a Washington svela le rivalità tra i Saud e gli Ayatollah, dalla produzione di petrolio al controllo geopolitico regionale.
Quando la Casa
Bianca ha annunciato nei giorni scorsi il complotto contro l’ambasciatore
dell’Arabia Saudita a Washington e contro le ambasciate saudita e israeliana,
molti esperti americani in questioni iraniane non hanno nascosto il loro
scetticismo. Nella storia che il Dipartimento di Stato e lo stesso Obama hanno
raccontato, hanno osservato, ci sono molti elementi che non quadrano, a
cominciare dalla scelta di un semisconosciuto e lontano gruppo di trafficanti di
droga, per di più cattolici, per portare a termine il piano. «L’Iran non ha mai
usato dei surrogati e non ha mai messo di mezzo dei gruppi non musulmani, ma ha
sempre utilizzato dei gruppi ben conosciuti e delle cui operazioni si fida, come
Hetzbollah», ha obbiettato Kenneth Katzman, specialista di affari mediorientali
per il Congressional Research Service di Washington. Lo stesso Katzman e gli
altri esperti, però, hanno riconosciuto che il fallito attentato ha mostrato
come le relazioni tra l’Iran e l’Arabian Saudita siano oggi a un punto
drammatico di crisi.
«Tra i due paesi - dice lo studioso - c’è chiaramente una competizione
strategica. E il fatto che l’Iran voglia danneggiare i sauditi ha un senso per
noi analisti». Nei prossimi mesi, saranno forse i processi al venditore di auto
usate Mansour Arbabsiar e a Gholam Shakuri, sospetto membro della Quds Force
iraniana, a chiarire molti dubbi. La vicenda, però, ha messo sicuramente in luce
l’esistenza di un conflitto che non è solo religioso e strategico, ma ha anche
delle ragioni molto concrete nel controllo del mercato petrolifero. Grosso modo,
ha per esempio fatto notare la rivista Foreign Affairs, l’Arabia Saudita e
l’Iran hanno risorse energetiche comparabili. Da quando la rivoluzione del 1979
ha messo Teheran in rotta di collisione con Washington, gli Stati Uniti hanno
ovviamente fatto tutto il possibile per favorire Riad, anche all’interno
dell’Opec.
E, almeno in apparenza, hanno garantito ai fedeli monarchi sauditi una posizione
di previlegio, tant’è vero che le riserve di Riad ammontano adesso a 358
miliardi di dollari, mentre il reddito interno lordo si avvicina ai seicento
miliardi. L’Iran, che ha una popolazione tre volte superiore, deve accontentarsi
di riserve per 105 miliardi e di un reddito interno lordo di 475. Quando
l’Arabia Saudita decide di diminuire i prezzi e aumentare la produzione, l’Iran,
che non ha la stessa elasticità produttiva, è costretto a subire una perdita.
Malgrado le apparenze, però, anche Teheran ha le sue armi. La fame energetica
dei paesi emergenti, infatti, è servita negli ultimi anni a sostenere i prezzi e
né la Cina né la Russia hanno abbandonato i loro progetti nel Paese malgrado le
pressioni di Washington e Riad.
In Iraq, per di più, il potere è passato dai sunniti agli sciiti, con il
risultato di riavvicinare Bagdad al regime degli Ayatollah e di favorire la
nascita di diversi progetti di trivellazione comuni. l’Iran, infine, controlla
lo stretto di Hormuz, da cui passa in 40% del trasporto petrolifero mondiale. Il
venditore d’auto usate, insomma, è stato forse un obbiettivo frettoloso. Il
petrolio, però, racconta una storia da prendere sul serio.
APPROFONDIMENTO
Il complotto iraniano che serve agli Usa
L’Iran avrebbe tramato per assassinare l’ambasciatore dell’Arabia Saudita negli Usa e colpire le ambasciate statunitense e saudita in Argentina. Il tutto tramite sicari dei narcos messicani. Lo ha annunciato il ministro della Giustizia statunitense, Eric Holder, durante una conferenza stampa indetta martedì. Holder ha spiegato che due uomini (nella foto uno di loro al processo), entrambi iraniani, sono stati accusati dal governo statunitense di aver organizzato il piano e “hanno confessato”.
Khamenei: Obama mostri le prove
Moniti su possibili ritorsioni ma anche disponibilità ad appurare quanto avvenuto: è duplice la replica di Teheran alle accuse della Casa Bianca di aver complottato per eliminare l’ambasciatore saudita a Washington. La scorsa settimana il presidente Usa Barack Obama aveva puntato l’indice contro l’Iran parlando di «prove solide» sull’esistenza del piano terroristico e, dopo una prima replica del presidente Mahmud Ahmadinejad che aveva definito «senza fondamento» gli addebiti, ora a intervenire è il Leader Supremo della rivoluzione islamica, Ali Khamenei.