LA VERITÀ SULLA
GLOBALIZZAZIONE E
LA CRISI ECONOMICA
UN MODO PER RUBARE AI POVERI
PER DARE AI RICCHI.
E INTANTO INIZIANO LE RIVOLTE
(a cura di Claudio Prandini)
INTRODUZIONE
di Claudio Prandini
Proprio quando questo dossier era già pronto si è svolto l'attacco terroristico a Mumbai in India.
Ciò che balza subito agli occhi è la quantità di uomini e mezzi usati, nonché la preparazione squisitamente militare messa in campo. Simili operazioni richiedono una notevole disponibilità di denaro, di uomini, d'istruttori e di basi di addestramento che solo uno stato o un servizio segreto può mettere in piedi. Questi non sono i soliti terroristi fai da te che siamo abituati a vedere da un paio d'anni in Iraq, in Afghanistan o in Palestina. C'è quindi una mano professionista dietro a questi attentati. Una tesi da non scartare (tra quelle consuete dei media ufficiali), proviene da una testata giornalistica on-line americana (vedere qui), la quale punta il dito sul Mossad israeliano. Perché Israele avrebbe interesse a fomentare ulteriormente una rivalità storica tra India e Pakistan, entrambe con armamenti atomici e perché proprio ora?
Vediamo alcune ipotesi:
a) Prima di tutto Israele non ha mai amato il Pakistan e il motivo è lo stesso Ben Gurion, padre fondatore dello Stato d'Israele, a dirlo chiaramente in un articolo pubblicato sul «Jewish Chronicle» nel 1967: «Il movimemto sionista mondiale non deve sottovalutare il pericolo che il Pakistan rappresenta per esso. E il Pakistan dovrebbe essere il nostro primo bersaglio, perchè questo stato ideologico è una minaccia alla nostra esistenza. Il Pakistan intero odia gli ebrei ed ama gli arabi. Questo amante degli arabi è più pericoloso per noi che gli arabi stessi». (...) «Siccome gli abitanti della penisola Indiana sono indù i cui cuori sono pieni di odio per i musulmani, dunque l’India è la nostra principale base da cui agire contro il Pakistan. E’ essenziale che usiamo questa base per colpire e schiacciare il Pakistan, nemici degli ebrei e del sionismo, con tutti i piani nascosti e segreti» (vedere qui).
b) Ora il Pakistan, dopo l'uscita di scena di Musharraf con il benestare americano, è più debole e più fragile, divenendo così più attaccabile. E che cosa c'è di meglio se non usare il suo antico nemico, cioè l'India, per fargli guerra?! Colpendo Munbai la colpa ricade, per l'India, principalmente sul Pakistan. Questo sarebbe il primo risultato per Israele. Colpire il Pakistan usando l'India.
Ma nello stesso tempo si guarda anche ad un altro obiettivo: preparare l'opinione pubblica occidentale all'attacco contro l'Iran da parte di Israele. L'elezione di Obama non tranquillizza del tutto la leadership Israeliana sulla questione Iran. Se Obama alla fine dovesse scegliere la via del dialogo Israele si troverebbe senza l'essenziale assistenza militare americana per contrastare l'Iran. Allora perché non agire d'anticipo? Così dall'India, con uno spettacolare atto di guerriglia urbana, si manda a dire agli occidentali: vedete quanto è pericoloso il terrorismo islamico!? Ecco perché occorre attaccare quanto prima l'Iran. Far diventare l'Iran il regno del male come lo era l'Iraq nel 2003. E questo sarebbe sarebbe il secondo risultato del piano.
E' forse iniziata in India una campagna di preparazione mediatica dell'opinione pubblica occidentale ad un vasto attacco all'Iran da parte d'Israele appena dopo l'insediamento di Obama? Obama, sostanzialmente, non potrebbe dire di no ad Israele e alla sua difesa. E' probabile che Israele e i neocon americani si stiano così preparando a forzare la mano ad Obama, magari con degli attentati false flag anche in occidente. I prossimi mesi saranno dunque cruciali per verificare queste ipotesi!
Del resto fu lo stesso attuale vicepresidente designato da Obama, Joe Biden, a dire: «non passeranno sei mesi prima che il mondo metta alla prova Barack Obama come fece con John Kennedy». E ancora: «Ricordate quel che vi ho detto in piedi qui se non ricordate nessun altra cosa che ho detto. Badate, stiamo per avere una crisi internazionale, una crisi provocata, per mettere alla prova la stoffa di quest’uomo». Provocata da chi? E come se non bastasse anche Colin Powell, segretario di Stato al tempo dell'invasione dell'Iraq, si spinge a prevedere un grave scenario di crisi verso la fine di gennaio 2009 (vedere qui).
Persino a casa nostra
"Il giornale", nel commento di Paolo Guzzanti sui fatti di Mumbai, deve
ammettere che c'è qualcosa che non quadra quando afferma: "Forse l'intelligence
del terrorismo è più efficiente del Mi6, della Cia e del Mossad messi insieme,
non lo sappiamo"
(vedere qui).
Santa ingenuità! Intanto la stampa indiana riferisce che il servizio
segreto indiano sta indagando su presunte infiltrazioni del Mossad e della CIA
tra l'estremismo indù (vedere
qui).
Ma tutto questo cosa
centra con la crisi economica? Credo che nelle stanze segrete di Wall Street e
della City di Londra molti sarebbero contenti di un conflitto tra India-Pakistan e tra Israele-Iran e Stati Uniti.
Farebbe un po' dimenticare la crisi economica e i guai che essi hanno combinato
all'economia mondiale. E poi potrebbe essere anche un
toccasana per la borsa e l'economia soprattutto americana, un po' come lo fu per
la sua entrata nella seconda guerra mondiale nel
1943. Più cinici di così si muore, ma tutti sanno che a certi livelli non si
guarda tanto per il sottile. A Wall Street e nella City di Londra la moralità è
un bene che non si possono proprio permettere. Questo dimostra l'indole malvagia
dell'alta finanza e del capitalismo che essi rappresentano.
Globalizzazione:
un modo per dare ai ricchi togliendo ai poveri
Usa, disoccupazione a
stelle e strisce
Mai così tante persone senza lavoro dal 1994
Sarà un bel rimboccarsi le maniche per il nuovo team economico del presidente eletto Barack Obama, se l'ambizioso progetto di risollevare l'economia statunitense dovrà cominciare con la creazione di 2,5 milioni di nuovi posti di lavoro entro i primi due anni dal suo insediamento.
Così
vuole Obama, e così dovrà fare Timothy Geithner, segretario del Tesoro
proveniente dalla presidenza della Federal Reserve. La sua nomina ha calmato le
acque agitate della finanza, ispirando fiducia agli investitori e alle Borse. Ma
la sfida che ha davanti a sè è di proporzioni storiche. Le domande per i sussidi
di disoccupazione sono salite di 540 mila, e il totale dei posti di lavoro persi
nel 2008 è di 1,2 milioni. Il tasso di disoccupazione, del 6,5 per cento, è al
suo massimo da 14 anni a questa parte. Negli Usa 10,1 milioni di persone sono
senza un'occupazione stabile. Oltre un milione di posti di lavoro sono scomparsi
nei primi dieci mesi del 2008, metà dei quali solo negli ultimi 3 mesi. Le
perdite si sono verificate soprattutto nei settori manufatturiero, dell'edilizia
e dei servizi.
Sono
così aumentati in maniera esponenziale coloro che si rivolgono agli uffici di
collocamento privati e pubblici in cerca di un'occupazione temporanea. Sono
quasi tremila i siti chiamati 'one-stop career center' che il Congresso ha
deciso di creare dieci anni fa per contrastare la disoccupazione. Fanno parte di
un sistema più ampio, una 'rete di salvataggio' che offre una serie di programmi
federali non solo ai disoccupati, ma a quelle ampie fette di indigenza createsi
negli anni in seguito al declino economico del Paese. Fino a pochi anni fa,
coloro che si rivolgono a questi centri di assistenza, avevano un lavoro
stabile. Oggi, sono 20 milioni i bisognosi che fanno ricorso agli
'ammortizzatori sociali' del welfare Usa, un balzo di 6 milioni in più rispetto
al 2005, secondo il Dipartimento del Lavoro americano. Nonostante gli sforzi del
Congresso, tuttavia, il budget federale per i programmi di welfare è stato
tagliato dell'1,74 percento. Assomma a 3,7 miliardi di dollari, un calo del 14
percento dal 2000.
Gli
economisti sostengono che i legislatori non hanno valutato l'impatto reale di
una simile situazione, anche perchè alcuni di coloro colpiti più duramente dalla
crisi spesso ricorrono a internet per cercare lavoro, mentre la maggioranza più
a rischio è quasi invisibile, senza professionalità, senza istruzione e
largamente di colore. Se qualcuno si chiede che effetto avrà l'annunciato piano
di Obama di "far tornare al lavoro le persone di colore", può trovare una
risposta provocatoria nelle considerazioni di Cornel West, docente nero di Studi
afroamericani all'Università di Princeton: "L'elezione di Obama - ha detto West
commentando i recenti dati sulla disoccupazione - non renderà certo la nostra
nazione post-razziale, o trascendente dalla razza. Tali differenze sono sempre
esistite".
Mentre i tassi di disoccupazione salgono e la portata della crisi aumenta, i
provvedimenti del Tesoro per ridurre l'incertezza dei mercati e stabilizzare
l'economia continano a basarsi sul salvataggio dei colossi bancari che affondano
uno dopo l'altro. L'ultimo è la Citigroup, 200 milioni di clienti, che ha perso
il 60 percento delle proprie azioni in una sola settimana. Ieri il Tesoro ha
'iniettato' nell'istituto 20 miliardi di dollari, probabilmente dietro
segnalazione della nuova squadra di economisti chiamati dal nuovo presidente a
risolvere la crisi. Oltre a Geithner al Tesoro, Lawrence Summers (a sua volta ex
ministro del Tesoro ed ex capo economista alla Banca Mondiale) al Consiglio
Economico Nazionale, l'economista di Berkeley e storica del New Deal Christina
Romer a capo del Council of Economic Advisors, la collaboratrice di Ted Kennedy,
Melody Barnes, al timone del Consiglio di Politica Interna e Peter Orszag nuovo
Direttore del Budget.
Chomsky: che cos'è la globalizzazione
Stato contro Economia Reale
La
guerra dei mondi si fa sempre più chiara. Gli schieramenti anche. Come avevamo
scirtto nell'ultimo aggiornamento, potevamo essere vicini a un contrattacco:
"prima si tenevano i dollari perchè così facendo si alimentava il boom
economico. Poi se li sono tenuti perchè nella crisi il dollaro si sarebbe
riapprezzato. E ora che il dollaro si è riprezzato. Che motivo hanno di
tenerseli ancora? Ora forse stanno solo aspettando il momento giusto per
sbarazzarsi di quella imbarazzante massa di carta straccia".
Domenica notte per qualcuno è arrivato il momento giusto di vendere dollari e
titoli di stato americani e spendere il ricavato a sostegno della propria
economia. Lo ha annunciato la Cina. La mossa di voler stimolare l'economia
domestica tramite massicci investimenti pubblici è una mossa tanto attesa quanto
intelligente.
La Cina a differenza degli stati uniti, e dei paesi europei, può permetterselo,
senza problemi. Negli anni di boom hanno accumulato potere d'acquisto e di
spesa, mentre il resto del mondo occidentale dietro i consigli dei proprio
governanti, dei propri banchieri centrali, dei propri economisti, continuava a
indebitarsi per "stimolare", tramite i consumi, l'economia.
Il risultato prevedibile è che il carro non è riuscito a trascinare i buoi e ora
mentre noi ci siamo indebitati direttamente (tramite il ricorso a prestiti e
carte di credito) o indirettamente (tramite lo stato) fino al collo, i cinesi
hanno una montagna di dollari alta come da qua alla luna della quale sbarazzarsi
per comprare beni reali e costruire infrastrutture.
Quasi seicento miliardi, oltre un terzo delle loro riserve in dollari. Un quarto
del prodotto interno lordo. Come se gli americani lanciassero un programma da
quasi 4 trilioni di dollari. Il doppio di quelli che hanno già speso per salvare
gli amici. Senza neanche farci sapere come (qualcuno sta già facendo causa alla
FED per avere trasparenza sulle operazioni di salvataggio). Dollari che gli
americani non hanno, che nessuno probabilmente avrà voglia di prestargli. e che
ovviamente andranno stampati di fresco.
Non siamo particolarmente amanti degli investimenti pubblici: come risultato di
una decisione centralizzata si rivelano molto spesso, per non dire quasi sempre,
sprechi assurdi. Tuttavia a questo punto qualunque strategia è preferibile al
tenersi montagne di biglietti colorati che rappresentano solo una confisca di
valore garantita.
Ieri poteva essere la svolta di questo mercato oramai massacrato da politiche
monetarie occidentali al limite della follia. La speranza è durata appena
qualche ora. Al risveglio degli americani è arrivato l'attacco al contrattacco.
La pronta difesa del dollaro e dei titoli di stato americani dalla minaccia, per
ora solo verbale dei cinesi, non si è fatta attendere molto.
Subito su dollaro e decennale americano. Giù tutto il resto. Le borse per prime,
e poi le materie prime. Come andiamo ripetendo da tempo le borse sono oramai un
giochino di poca importanza per le elite del potere e per gli ingegneri sociali
americani (sempre a braccetto), rappresentano niente più che un danno
collaterale. Quel rimasuglio di capitalismo sconquassato da decenni di
interferenza istituzionale.
In ballo adesso c'è la solvibilità del governo che ha fatto il bello e cattivo
tempo del pianeta per oltre mezzo secolo. Grazie ancora per averci salvato dalla
minaccia comunista, ma qua oramai i comunisti veri che per tirare avanti si sono
affidati alle manovre dell'uomo monetario (la banca centrale) e dell'uomo del
fisco (lo stato) sono diventati loro. Il bello, o il brutto (a seconda delle
prospettive) è che non possono neanche permetterselo: oltre ai debiti non hanno
quasi più niente. Solo la speranza che il nuovo presidente non ripeta gli stessi
disastri di quello uscente. Probabilmente ripeterà quelli di Roosvelt negli anni
Trenta.
C'è in ballo anche la solvibilità di tutti i governi occidentali, già indebitati
fino al collo, e adesso con la prospettiva di indebitarsi anche fin sopra i
capelli per finanziare il salvataggio delle banche. Devono ancora cominciare a
spendere per sostenere le economie che i debiti nazionali stanno già battendo
nuovo massimi, 1.667 trilioni di euro per il nostro.
Non si è voluto che il mercato punisse i responsabili di questa crisi. E' stato
un grande errore, le banche andavano lasciate fallire. Via gli azionisti che
hanno sbagliato e dentro nuovi proprietari, probabilmente più oculati. Il
capitale pronto a saltare sopra un carro vincente si trova sempre. Invece sono
intervenuti con i nostri soldi con l'unico fine di proteggere gli amici e
lasciarli sulle loro poltrone di pelle umana.
Le economie prosciugate da tanto sperpero ovviamente si sono ingessate,
congelate, fermate. Le monete d'oro non crescono come alberi come pensava
pinocchio e come oramai si sono convinti tutti. L'economia gira con le monete
vere, frutto del risparmio, che si accumula in beni capitali. Non con il denaro
di carta stampato senza sosta e a oltranza. Con quel denaro l'economia gira e
funziona per un certo periodo. Poi ad un certo punto non funziona più. Dopo
l'ultimo intervento istituzionale a difesa della crisi, come si può ben
constatare nelle nostre piccole realtà quotidiane, non funziona più. Game over.
Game over per tutti i fantozzi. Chi comanda e chi ha in mano la stampante
monetaria non si ferma di certo adesso. Adesso la useranno per salvare se
stessi. Già perchè la domanda all'indomani del salvataggio delle banche la
domanda era diventata: chi salverà i salvatori? Ci stanno pensando da soli,
stanno pensando a salvare se stessi distruggendo tutto il resto. Non hanno altri
mezzi. Per riuscire a vendere miliardi e miliardi di titoli di stato, devono
terrorizzare tutti quanti, far credere che il mondo stia per finire e che
l'unico rifugio è comprare la loro spazzatura con rendimenti del 3.5% (quando va
bene).
E ci riescono anche. Il genio del male non è un genio per caso. Fanno assegnare
il Nobel a un neokeynesiano e legittimati dai nuovi regressi della scienza
economica ripartono con la spesa pubblica e con la propaganda che solo lo stato
ci può salvare dagli spiriti selvaggi del capitalismo. Peccato che il
capitalismo sia morto con Keynes oltre settanta anni fa. L'ultimo chiodo nella
bara ce lo hanno messo Bernanke e Paulson.
La gente che nel 99,9 % dei casi non sa neanche che il prezzo di una
obbligazione è inversamente proporzionale al rendimento offerto dalla stessa,
purtroppo crede a tutto quel che gli raccontano su giornali e televisioni. Tra
qualche mese, di fronte alla crisi nera, sarà oramai disposta a sacrificarsi
all'altare dello stato, finalmente libero di prendersi in mano l'economia. Tutta
intera. E con essa anche le nostre libertà. Le nostre anime. Senza scordare le
nostre mutande. Quelle sole ci sono rimaste. Benvenuti nel nuovo socialismo del
XXI secolo.
Se fallisce la General Motors
Cominciano le rivolte
Come prepararsi
Islanda.
Migliaia di islandesi - ligi alle autorità - hanno dimostrato per le strade di
Reykjavik reclamando le dimissioni del primo ministro Geir Haarde e del
governatore della Banca Centrale David Oddsson, ritenuti colpevoli del disastro
finanziario del Paese. Le manifestazioni avvengono da giorni, con scontri con la
polizia. La folla ha eletto come capo un noto cantante-trovatore (sic)
islandese, Hordur Torfason; un Beppe Grillo più deciso e capace, Torfason ha
annunciato che le dimostrazioni continueranno finchè il governo non se ne andrà.
Un giovanotto s’è arrampicato sul palazzo di Althing (dove il presidente si
affaccia per l’annuale giornata nazionale) e vi ha apposto un cartello: «Islanda
in Vendita, 2,1 miliardi di dollari».
E’ la cifra che il Paese riceve come prestito d’emergenza dal Fondo Monetario.
Altri 2-300 manifestanti hanno assaltato la centrale di polizia per tentare di
liberare con la forza uno dei manifestanti, che era stato fermato. Hanno
spaccato finestre, la polizia, in assetto di guerriglia urbana, ha usato i gas.
Alla fine l’arrestato è stato rilasciato dietro pagamento di una multa.
Ma la rabbia non si calma. Tutti i prezzi sono aumentati di colpo del 30%, i
disoccupati aumentano di giorno in giorno.
Come si sa, la rovina del Paese è dovuta alle tre banche principali, Kaupthing,
Landsbankki e Glitnir, che si sono esposte enormemente all’estero, per cifre
superiori al PIL del piccolo Stato.
L’umore generale è stato riassunto da una manifestante di nome Gudrun Jonsdottir,
36 anni, impiegata: «Ne ho le scatole piene di tutto questo. Non mi fido del
governo, non mi fido delle banche, men che meno dei partiti. E non mi fido del
Fondo Monetario. Questo era un bel Paese, e loro l’hanno rovinato»
(1).
Svizzera.
Raccolte in un lampo centomila firme per un referendum popolare contro i
banchieri: basta con le liquidazioni d’oro dei dirigenti, i loro stipendi
saranno sotto controllo pubblico, i «bonus» che intascano dovranno essere in
rapporto ai risultati raggiunti (2).
Quest’ultima proposta del referendum ha di mira Marcel Ospen, il capo supremo
della UBS, e i suoi direttori: si è saputo che, non contenti di arraffare gli
emolumenti più alti d’Europa, i banchieri svizzeri hanno continuato ad offrirsi
«bonus» altissimi anche quando la crisi finanziaria della banca era ormai nota a
tutti.
Durante un’assemblea della banca, sono comparsi seimila piccoli azionisti -
anziani, risparmiatori, medio benestanti, che hanno visto le azioni UBS in loro
possesso dimezzare di valore in poche settimane - e il tono dell’incontro è
stato tempestoso.
Pretendevano che Ospel - dimissionario - rivelasse quanto s’era pagato col suo
ultimo bonus, che dicono principesco (l’entità è segreta, si parla di 15 milioni
di dollari); lui s’è rifiutato; uno degli azionisti, o meglio dei manifestanti,
è salito sul palco e gli ha gridato: «Ricaccia il bonus».
Poi ha tirato fuori dalla tasca due autentici würstel elvetici e glieli ha fatto
ciondolare sotto il naso: «Non ti voglio affamare, ti ho portato qualcosa da
mangiare».
La UBS controlla il 25% del mercato interno, o meglio lo controllava; ora i
depositanti hanno ritirato dalla banca l’equivalente di 100 miliardi di euro di
depositi (incredibile, ma la cifra viene dalla BBC), mettendoli nelle piccola
banche locali (che attualmente prosperano).
Il «salvataggio» delle banche, deciso dallo Stato con uno stanziamento di 60
miliardi di euro, ha fatto infuriare ulteriormente gli svizzeri.
L’uomo che ha raccolto le firme per il referendum è un piccolo e prospero
imprenditore fino ad oggi sconosciuto, Thomas Minder.
«Tutta la porcata dei sub-prime è un’invenzione americana, eppure una banca
svizzera ci è cascata», ha detto indignato, ferito nella sua elveticità. Il voto
dovrà aspettare un anno, quando i vari referendum della democrazia diretta
svizzera si accorpano con le elezioni generali politiche. Ma è escluso che la
rabbia sia sbollita per allora. La UBS ha molte migliaia di piccoli azionisti
svizzeri, che la ritenevano sicura come il risparmio postale.
Cina.
Causa la riduzione netta delle esportazioni, 62 mila aziende hanno chiuso in
poche settimane. Spesso senza preavviso - i padroni semplicemente scompaiono con
la cassa - e lasciando i lavoratori con mesi di paghe arretrate.
Il fenomeno colpisce in modo concentrato il Guangdong, centro del miracolo
economico cinese, dove migliaia di fabbrichette producono scarpe, giocattoli,
gadget di ogni genere.
Per esempio, un operaio di nome Wang, ora disoccupato, reclama dalla sua ditta (Weixu)
due mesi di paga arretrata, pari a 440 dollari. Lui e i suoi colleghi sono scesi
sulla strada, affrontando la polizia. Le autorità locali, su pressione di
Pechino, provvedono direttamente al pagamento degli arretrati nel tentativo di
calmare le proteste.
Il governo locale di Chang’an, sud Guangdong, ha sborsato 1 milione di dollari
ai lavoratori in arretrati; o almeno così dice (Wang e i collegi non hanno visto
nulla).
Stati Uniti.
A Bogalusa, una bidonville di bianchi poveri in Louisiana, un tempo chiamata «la
capitale del Ku Klux Klan», la polizia ha segnalato almeno 200 incidenti di tipo
razziale da quando è stato eletto Barack Obama.
Gli incidenti comprendono: croci in fiamme nei giardini di coppie miste, minacce
di morte ad abitanti (di colore e no) che avevano esposto davanti a casa
manifesti pro-Obama, graffiti razzisti, comparsa di cappi appesi agli alberi
davanti a case di gente di colore. Una donna che era membro del Klan ma poi ne
era voluta uscire è stata crivellata da ignoti.
Negli anni ’60, a Bogalusa, il Klan teneva riunioni pubbliche in cui si decideva
addirittura quale chiesa negra bruciare. Nel 1965 qui fu ucciso da ignoti un
vice-sceriffo negro.
Poi l’influenza della società segreta è diminuita, come in tutta l’America: da 4
milioni di membri del primo ‘900, sarebbero attualmente non più di 6 mila su
scala nazionale.
Ma il rapido deteriorarsi della situazione economica, più dura per i bianchi
poveri, insieme all’arrivo della prima famiglia di colore alla Casa Bianca, ha
ridato una sinistra vitalità al Klan o almeno ai suoi simboli, cappi e croci
incendiate, che sono apparsi in vari «incidenti».
A Bogalusa, dove il 40% degli abitanti è nero, si ritiene che esista almeno un
«capitolo» del Klan, fino ad ieri apparentemente in sonno
(3).
Dimitri Orlov, un ingegnere russo che vive negli Stati Uniti, ha stilato una
scala del collasso in cinque stadi, basandosi sulla sua esperienza, vissuta nel
crollo del regime sovietico e successivamente nel periodo di inflazione e truffe
finanziarie dell’era Eltsin (4).
E’ istruttivo elencare la scala:
1
- Collasso finanziario
2
- Collasso commerciale
3
- Collasso politico
4
- Collasso sociale
5
- Collasso culturale
«Ogni stadio comporta la perdita di fede o di fiducia in qualche importante
istituzione o elemento dello status quo», dice Orlov. «Gli effetti fisici
misurabili possono essere lenti, ma il rovesciamento psicologico è rapidissimo».
In Russia negli anni ’90, il collasso finanziario fu, per milioni di persone, il
passaggio repentino da un prima a un dopo.
Prima
Dopo
Pensioni sicure Carità pubblica
Valore della casa Senzatetto, occupazioni abusive
Investimenti pochi copechi
Risparmi liquidi iper-inflazione
Transazioni a credito transazioni in contanti, baratto
Indipendenza finanziaria interdipendenza fisica
In questa fase, si presume che lo Stato regga e organizzi qualche tipo di
sostegno di emergenza; un periodo di semi-stabilità prima dell’avvento degli
stati ulteriori.
Qui, scrive Orlov, l’esperienza mi ha insegnato che è bene approfittare di
questa fase per «aggiustare certi aspetti importanti della nostra vita», specie
«nelle relazioni con gli altri».
La normalità finanziaria, spiega, è come un sistema di barriere; il mio conto in
banca è separato dal tuo conto in banza; tu ed io possiamo vivere senza
preoccuparci troppo l’uno dell’altro; possiamo crederci «giocatori economici
indipendenti in una campo di gioco livellato».
Ma quando le barriere diventano irrilevanti perchè non c’è più niente dietro,
«diventiamo un peso gli uni per gli altri, in un modo così immediato da
rappresentare un trauma per molti. L’indegnità di questa interdipendenza fisica
avrà un costo umano inatteso, specie in un Paese educato al mito
dell’individualismo».
Collasso
commerciale
Quando le merci necessarie diventano scarse o i negozi non vengono riforniti,
immediatamente si notano fenomeni di accaparramento, e in conseguenza, di
saccheggio. Si forma in un istante un grande mercato nero per le cose di prima
necessità, dallo shampoo alle fiale di insulina. Forti rincari da profitattori.
Se esiste ancora un’organizzazione statale, attuerà un controllo dei prezzi ed
anche razionamenti, il che sarà vissuto come una benedizione.
In Unione Sovietica «il sistema di distribuzione alimentare, cronicamente
inefficiente in tempi normali, si manifestò paradossalmente utile durante il
collasso, consentendo alla gente di sopravvivere nella transizione».
Anche qui, un prima e un dopo.
Prima
Dopo
Scarso il denaro Scarsi i prodotti
Economia di servizi Economia di auto-servizi
Shopping Center Mercatini dell’usato, delle
pulci
Supermercati Bancarelle dei contadini
Culto delle novità Riparazione degli oggetti
Prodotti importati Surrogati nazionali
«Se prima del collasso commerciale il problema è avere abbastanza denaro per
permettersi i generi necessari, dopo il problema è convincere quelli che hanno i
generi di prima necessità a cederli per denaro; molti vorranno essere pagati in
qualcosa di più valido che il liquido. I clienti devono offrire un servizio; e
siccome i più hanno poco o nulla da offrire a parte il loro denaro senza valore,
ammesso ne abbiano ancora, i fornitori di beni e di servizi si astengono.
Scompare il mercato libero e aperto, sostituto da un mercato che non è aperto nè
libero. I beni ancora disponibili non sono offerti a tutti, ma solo ad alcuni e
in certi periodi. La ricchezza che esiste ancora è nascosta, perchè esibirla
aumenta il rischio».
Attualmente, i generi in vendita sono «in gran parte importati, e tutti
fabbricati in modo da diventare obsoleti». Sicchè diventerà difficile continuare
a far funzionare le cose (auto, orologi, telefonini, eccetera) per mancanza di
ricambi. Anche la quantità di questi beni industriali diminuirà, perchè parte di
essi verrà cannibalizzata per ricavarne parti di ricambio. Nascono di colpo
micro-industrie della riparazione e della rappezzatura.
Collasso politico
Prima
Dopo
Diritti acquisiti Promesse non tenute
Servizi comunali Favoritismi locali
Tasse e bilanci Mazzette, concussione
Ordine pubblico Ronde militari o vigilantes
Rimozione spazzatura Cumuli di spazzatura
Ponti e strade Buche, interruzioni e
deviazioni
«Può essere difficile prendere coscienza del collasso politico perchè i politici
sono bravi a mantenere l’apparenza e la pretesa di autorità anche quando essa
vacilla», dice Orlov.
Un segno sinistro, che lui ha visto in Russia, è «il momento in cui i politici
regionali cominciano a sfidare apertamente il governo centrale». Ad esempio il
governatore della regione di Primorye, nell’estremo oriente russo, accaparrò il
carbone delle miniere locali e stabilì una politica estera sua indipendente
verso la Cina, «senza che Mosca fosse capace di frenarlo»; la Cecenia che si
dichiarò indipendente, con il conseguente bagno di sangue.
I regionalismi corrotti, i particolarismi invincibili, le vere e proprie
«secessioni» di località e di gruppi d’interesse spesso criminali in Italia
segnalano lo stesso collasso della politica, in avanzato stato di
decomposizione?
E’ il caso di rifletterci. Orlov parla agli americani e avverte: una volta
inagibili le superstrade, non resta molto per tenere unite le due coste
(pacifica e atlantica); un tempo c’erano le ferrovie continentali, ma sono state
troppo trascurate.
«Un Paese consistente in due metà collegate dal canale di Panama è di fatto due
Paesi, almeno».
Un altro segnale da osservare sono «le incursioni di poteri esteri nella
politica interna». In Russia, «consulenti politici stranieri hanno manipolato le
elezioni» producendo le rivoluzioni colorate. Magari. In Italia, può dire
qualcosa il sindaco di Roma che innalza sul Campidoglio la bandiera di Sion
avendo a fianco l’ambasciatore di Israele?
In USA, i fondi sovrani che comprano pezzi e bocconi dell’economia americana
preludono ad una cessione di sovranità: presto avanzeranno richieste politiche
per estrarre più valore dai loro investimenti; quando cominceranno a finanziare
candidati alle cariche pubbliche, ci si accorgerà che la sovranità è finita
altrove.
Peggio: «Il vuoto di potere lasciato dall’autorità legittima collassata tende ad
essere riempito automaticamente dal crimine organizzato». In Italia, questo
sintomo è sotto i nostri occhi: in Calabria, Sicilia, Campania. In Russia, il
potere degli oligarchi con loro squadre di sicari privati, è un più vistoso
esempio.
In USA, dice Orlov, la gente crede di poter fare a meno dell’apparato pubblico.
Si accorgerà quanto dipende da esso quando sparisse la pur fragile assistenza
sanitaria Medicare e Medicaid che «tiene in vita tanti», e quando le autorità
locali non saranno più in grado di raccogliere i rifiuti, fare la manutenzione
delle fognature, spazzare la neve, mettere vigili a dirigere il traffico, e
distribuire l’acqua potabile.
Attenzione: «Questo collasso comincia dal basso, i funzionari locali sono i
primi ad essere sopraffatti, mentre la capitale resta lontana e non risponde».
Collasso sociale
L’America, benche si glorii della sua filantropia, è molto stretta quando si
tratta di aiuto ai bisognosi. Le provvidenze sociali sono punitive, basate come
sono sull’ideologia che il povero sia tale per colpa sua. Il vuoto di previdenza
sociale è colmato dalle organizzazioni caritative private. Quelle su base
religiosa hanno un motivo per reclutare la gente alla loro causa; ma anche
quelle che non pongono altre condizioni, «hanno lo scopo reale di rinforzare la
superiorità di coloro che sono caritatevoli, a spese dei riceventi l’aiuto. Più
grande il bisogno, più umilianti sono le condizioni imposte ai beneficiari».
Inoltre, i benefattori non hanno motivazione di fornire più soccorso in risposta
di bisogni crescenti. Al contrario: «Quando il bisogno è grande, costante e
crescente, le organizzazioni caritative divengono via via meno adeguate a
soddisfarlo».
Sarà bene dunque guardare ad altre opzioni: il ritorno alle società di mutuo
soccorso (nacquero negli anni ’30), in cui i bisognosi «non devono cedere la
loro dignità e non sono stigmatizzati per la loro condizione».
Meglio ancora, «la formazione di comunità abbastanza forti e coesive da
provvedere al bene dei suoi membri, ma abbastanza piccole che le persone possano
porsi in relazione diretta le une con le altre, e dove la responsabilità è
diretta e visibile».
Cosa difficile in una società dei consumi basata sul credito finanziario, e dove
l’ordine pubblico è statalizzato: qui, la disposizione al mutuo aiuto e all’assunzioone
di responsabilità dirette «sono atrofizzate».
Attenti, dice Orlov: dobbiamo fare il possibile per contrastare questa fase di
collasso, il collasso sociale. Ecco infatti o il «dopo» che esso ci porterebbe
(non credo occorra la traduzione):
Se non viene scongiurato il collasso sociale,
è quasi inevitabile che si instauri il collasso «culturale».
Quello stadio in cui «si perde la fede nella bontà dell’umanità», dove la gente
perde la capacità di «generosità, gentilezza, rispetto, affezione, onestà,
ospitalità, compassione, aiuto materiale».
Le rivolte incipienti in Paesi culturalmente obbedienti come l’Islanda e la
Svizzera denunciano il crollo della fiducia nell’insieme delle istituzioni, non
solo delle banche; resta tuttavia l’idea, nei manifestanti, che «questa era una
bella società»; lo stesso esprimono gli azionisti svizzeri in rivolta, quando
dicono che i subprime sono «un’invenzione americana», dunque indegna della
civiltà elvetica. Resta in essi, dunque, la certezza che la loro «cultura» è
migliore, esiste e deve solo essere riaffermata.
Si può dire lo stesso per l’Italia?
Il linguaggio sempre più cinico e violento ammesso in pubblico, la
sessualizzazione ossessiva della comicità e della pubblicità, il godimento
ripugnante, da parte dei telespettatori, delle degradanti convivenze che offre
alla vista la TV (Isola dei Famosi, programmi della De Filippi...), le tifoserie
teppistiche, i ripetuti pirati della strada drogati che falciano vite e
scappano, i graffitari endemici, il linguaggio di Bossi o di Di Pietro, le scene
vergognose cui si abbandonano i dipendenti Alitalia senza vergognarsene, tutto
questo non rivela uno spaventoso collasso «culturale», addirittura pre-esistente
agli altri collassi, finanziario e politico?
Dice Orlov: «Prendiamo l’onestà, ad esempio: la gente la pretende da sè e dagli
altri, o giudica accettabile infrangerla per ottenere quel che vuole? La gente
trae più motivo di gratificazione nel mostrare quanto ha, o quanto dà?».
Pensate all’Italia e provate a rispondervi, specie riflettendo sul comportamento
della cosiddetta «casta», sia essa politica, bancaria, universitaria,
giudiziaria, o pubblica in genere. Pensate ali politici che girano con scorta
armata sulle auto blù corazzate. Pensiamo anche ai nostri comportamenti
personali di ogni giorno.
In tempi normali, l’assenza di queste virtù personali è in qualche modo
mascherata dalle istituzioni impersonali: finchè le banche danno credito, i
negozi offrono merci, il governo garantisce più o meno l’ordine pubblico, ci è
consentito fare a meno delle virtù «calde», o di confinarle alla famiglia e agli
amici (alla famiglia, in Italia, sempre meno: quanti figli si drogano senza che
i genitori ne abbiano il minimo sospetto? Quanti genitori insegnano ai figli
atteggiamenti di egoismo edonista, di fatuità «griffata»?).
Questo collasso culturale è il peggiore, perchè arretra la civiltà e fa regnare
la violenza endemica, quando collassano finanza, commercio e politica. La
violenza può non essere fisica; ma già abbonda nel nostro mondo occidentale la
violenza mentale che consiste, nota Orlov, «nel rifiutare il riconoscimento
dell’esistenza dell’altro».
In USA è visibilissimo (ma accade sempre più spesso anche da noi, verso gli
stranieri, gli extracomunitari, e non solo) l’atteggiamento dei passanti che
evitano il contatto oculare reciproco, credendo così di essere più sicuri. Lo
sguardo «vuoto» e indifferente e l’evitamento dello sguardo altrui dà il
messaggio: «Non ti riconosco», non esisti. Ciò non rende più sicuri, al
contrario. Allo scopo, è molto più utile lo sguardo cordiale e sorridente che
suggerisce: «Ti riconosco, ti vedo».
Orlov non vuole però che la conclusione della sua analisi porti al pessimismo.
Al contrario: «Io voglio che la gente sappia che può trovare il modo di condurre
una vita serena e significativa anche nel crollo del sistema, comunque
condannato».
La condanna non deve implicare l’illusione che si possa fare a meno di ogni
potere pubblico: lasciate perdere «i diritti acquisiti», le operazioni militari
all’estero, il valore legale del titolo di studio, il teatro a soggetto che
passa per «democrazia»; queste sono la cose caduche del politico; ma resta la
necessità di servizi essenziali, di essenziali controlli di sicurezza
impersonali.
La rivolta deve tendere alla ricostruzione di un «governo», al minimo - in
mancanza di meglio - locale.
Così, il collasso commerciale può «far nascere spontaneamente una nuova economia
con meno griffes e meno sprechi, capace di provvedere ai bisogni basilari».
Là dove le comunità sono socialmente e culturalmente salde, la gente comincerà
ad agire per provvedere al necessario senza attendere il permesso ufficiale. Ciò
è meno probabile nell’Occidente de-industrializzato e dove il 60% delle persone
campano fin troppo bene di «servizi avanzati» di cui, in realtà, si può fare a
meno, mentre mancano competenze per sopperire ai bisogni essenziali (solo il
3-5% si dedica all’agricoltura).
La speranza è che le disposizioni atrofizzate siano ancora presenti - hanno
aiutato l’uomo a sopravvivere nei millenni - e che «la difficoltà comune possa
catalizzarle, suscitando cambiamenti sociali più vicini alla norma umana».
Possiamo prepararci cominciando «ad ignorare ciò su cui non possiamo far conto»
nel futuro. Rinunciare alla TV, quando bastano la radio e internet; all’auto per
la bicicletta. L’auto ci dà una gratificazione e un prestigio che è puro e
semplice frutto di pubblicità e conformismo, dunque illusorio.
Così è un lusso occuparsi della politica nazionale, se si trascura di
controllare come il municipio dà gli appalti per la raccolta dei rifiuti (vedi
Napoli, e poi muori).
Il collasso culturale - il peggiore - è già avvenuto in ampi settori della
società post-industriale, dall’«etica» dei miliardari di Wall Street non meno
che nei quartieri pericolosi degli spacciatori di crack. Ma ci sono ancora
«sacche di cultura intatta qua e là», comunità che hanno imparato dall’avversità
a mantenere una coesione sociale, altri che hanno preso deliberata decisione di
condurre una vita più semplice e sana.
Dove? Orlov consiglia di imitare (o importare) certe sub-culture vitali, come
quelle che sussistono in certe comunità di immigrati, o tra gli Amish e i
mennoniti, quelli che rifiutano la luce elettrica, si spostano con calessi e
cavallo, e coltivano il proprio pane con le loro mani.
Orlov conclude: se avessi fondato un Collapse Party, dovrei essere
contentissimo, perchè molto del mio programma è già in corso di attuazione: «Le
autorità locali cominciano a rilasciare detenuti (i 2,5 milioni di detenuti in
USA) per mancanza di fondi, è in corso una colossale cancellazione di debiti
sulle carte di credito (non è un giubileo, ma di fatto è qualcosa di simile), il
governo comincia a capire che deve evitare i sequestri delle case col mutuo, le
case automobilistiche sono alla frutta... magari riusciremo persino a richiamare
le truppe e a chiudere le basi all’estero».
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1) «Icelanders demand PM resignation,
clash with police», Reuters, 22 novembre 2008.
2) «UBS loses favour with angry Swiss»,
BBCE News, 22 novembre 2008.
3) Howard Witt, «White extremists
lash out over election of first black president - The Ku Klux Klan is emerging
from decades of disorganization and obscurity, and the turnaround is acutely
evident - more than 200 hate-related incidents have been reported since the Nov.
4 election», Los Angeles Times, 23 novembre 2008.
4) Dmitri Orlov, «The five stages of
collapse», Energy Bulletin, 11 novembre 2008