LA VERITÀ SULLA

GLOBALIZZAZIONE E

LA CRISI ECONOMICA

 

UN MODO PER RUBARE AI POVERI

 PER DARE AI RICCHI.

E INTANTO INIZIANO LE RIVOLTE

 

(a cura di Claudio Prandini)

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

 

di Claudio Prandini

 

Proprio quando questo dossier era già pronto si è svolto l'attacco terroristico a Mumbai in India.

Ciò che balza subito agli occhi è la quantità di uomini e mezzi usati, nonché la preparazione squisitamente militare messa in campo. Simili operazioni richiedono una notevole disponibilità di denaro, di uomini, d'istruttori  e di basi di addestramento che solo uno stato o un servizio segreto può mettere in piedi. Questi non sono i soliti terroristi fai da te che siamo abituati a vedere da un paio d'anni in Iraq, in Afghanistan o in Palestina. C'è quindi una mano professionista dietro a questi attentati. Una tesi da non scartare (tra quelle consuete dei media ufficiali), proviene da una testata giornalistica on-line americana (vedere qui), la quale punta il dito sul Mossad israeliano. Perché Israele avrebbe interesse a fomentare ulteriormente una rivalità storica tra India e Pakistan, entrambe con armamenti atomici e perché proprio ora?

 

Vediamo alcune ipotesi:

 

a) Prima di tutto Israele non ha mai amato il Pakistan e il motivo è lo stesso Ben Gurion, padre fondatore dello Stato d'Israele, a dirlo chiaramente in un articolo pubblicato sul «Jewish Chronicle» nel 1967: «Il movimemto sionista mondiale non deve sottovalutare il pericolo che il Pakistan rappresenta per esso. E il Pakistan dovrebbe essere il nostro primo bersaglio, perchè questo stato ideologico è una minaccia alla nostra esistenza. Il Pakistan intero odia gli ebrei ed ama gli arabi. Questo amante degli arabi è più pericoloso per noi che gli arabi stessi». (...) «Siccome  gli abitanti della penisola Indiana sono indù i cui cuori sono pieni di odio per i musulmani, dunque l’India è la nostra principale base da cui agire contro il Pakistan. E’ essenziale che usiamo questa base  per colpire e schiacciare il Pakistan, nemici degli ebrei e del sionismo, con tutti i piani nascosti e segreti» (vedere qui).

 

b) Ora il Pakistan, dopo l'uscita di scena di Musharraf con il benestare americano, è più debole e più fragile, divenendo così più attaccabile. E che cosa c'è di meglio se non usare il suo antico nemico, cioè l'India, per fargli guerra?! Colpendo Munbai la colpa ricade, per l'India, principalmente sul Pakistan. Questo sarebbe il primo risultato per Israele. Colpire il Pakistan usando l'India.

 

Ma nello stesso tempo si guarda anche ad un altro obiettivo: preparare l'opinione pubblica occidentale all'attacco contro l'Iran da parte di Israele. L'elezione di Obama non tranquillizza del tutto la leadership Israeliana sulla questione Iran. Se Obama alla fine dovesse scegliere la via del dialogo Israele si troverebbe senza l'essenziale assistenza militare americana per contrastare l'Iran. Allora perché non agire d'anticipo? Così dall'India, con uno spettacolare atto di guerriglia urbana, si manda a dire agli occidentali: vedete  quanto è pericoloso il terrorismo islamico!? Ecco perché occorre attaccare quanto prima l'Iran. Far diventare l'Iran il regno del male come lo era l'Iraq nel 2003. E questo sarebbe sarebbe il secondo risultato del piano.

 

E' forse iniziata in India una campagna di preparazione mediatica dell'opinione pubblica occidentale ad un vasto attacco all'Iran da parte d'Israele appena dopo l'insediamento di Obama? Obama, sostanzialmente, non potrebbe dire di no ad Israele e alla sua difesa. E' probabile che Israele e i neocon americani si stiano così preparando a forzare la mano ad Obama, magari con degli attentati false flag anche in occidente. I prossimi mesi saranno dunque cruciali per verificare queste ipotesi!

 

Del resto fu lo stesso attuale vicepresidente designato da Obama, Joe Biden, a dire: «non passeranno sei mesi prima che il mondo metta alla prova Barack Obama come fece con John Kennedy». E ancora:  «Ricordate quel che vi ho detto in piedi qui se non ricordate nessun altra cosa che ho detto. Badate, stiamo per avere una crisi internazionale, una crisi provocata, per mettere alla prova la stoffa di quest’uomo». Provocata da chi? E come se non bastasse anche Colin Powell, segretario di Stato al tempo dell'invasione dell'Iraq, si spinge a prevedere un grave scenario di crisi verso la fine di gennaio 2009 (vedere qui).

 

Persino a casa nostra "Il giornale", nel commento di Paolo Guzzanti sui fatti di Mumbai, deve ammettere che c'è qualcosa che non quadra quando afferma: "Forse l'intelligence del terrorismo è più efficiente del Mi6, della Cia e del Mossad messi insieme, non lo sappiamo" (vedere qui). Santa ingenuità!  Intanto la stampa indiana riferisce che il servizio segreto indiano sta indagando su presunte infiltrazioni del Mossad e della CIA tra l'estremismo indù (vedere qui).
 

Ma tutto questo cosa centra con la crisi economica? Credo che nelle stanze segrete di Wall Street e della City di Londra molti sarebbero contenti di un conflitto tra India-Pakistan e tra Israele-Iran e Stati Uniti. Farebbe un po' dimenticare la crisi economica e i guai che essi hanno combinato all'economia mondiale. E poi potrebbe essere anche un toccasana per la borsa e l'economia soprattutto americana, un po' come lo fu per la sua entrata nella seconda guerra mondiale nel 1943. Più cinici di così si muore, ma tutti sanno che a certi livelli non si guarda tanto per il sottile. A Wall Street e nella City di Londra la moralità è un bene che non si possono proprio permettere. Questo dimostra l'indole malvagia dell'alta finanza e del capitalismo che essi rappresentano.
  

 

 

 

Globalizzazione:

un modo per dare ai ricchi togliendo ai poveri

 

 

 

 

 

Usa, disoccupazione a

stelle e strisce

 

Mai così tante persone senza lavoro dal 1994

Fonte web

Sarà un bel rimboccarsi le maniche per il nuovo team economico del presidente eletto Barack Obama, se l'ambizioso progetto di risollevare l'economia statunitense dovrà cominciare con la creazione di 2,5 milioni di nuovi posti di lavoro entro i primi due anni dal suo insediamento.

ObamaCosì vuole Obama, e così dovrà fare Timothy Geithner, segretario del Tesoro proveniente dalla presidenza della Federal Reserve. La sua nomina ha calmato le acque agitate della finanza, ispirando fiducia agli investitori e alle Borse. Ma la sfida che ha davanti a sè è di proporzioni storiche. Le domande per i sussidi di disoccupazione sono salite di 540 mila, e il totale dei posti di lavoro persi nel 2008 è di 1,2 milioni. Il tasso di disoccupazione, del 6,5 per cento, è al suo massimo da 14 anni a questa parte. Negli Usa 10,1 milioni di persone sono senza un'occupazione stabile. Oltre un milione di posti di lavoro sono scomparsi nei primi dieci mesi del 2008, metà dei quali solo negli ultimi 3 mesi. Le perdite si sono verificate soprattutto nei settori manufatturiero, dell'edilizia e dei servizi.

Fine della corsaSono così aumentati in maniera esponenziale coloro che si rivolgono agli uffici di collocamento privati e pubblici in cerca di un'occupazione temporanea. Sono quasi tremila i siti chiamati 'one-stop career center' che il Congresso ha deciso di creare dieci anni fa per contrastare la disoccupazione. Fanno parte di un sistema più ampio, una 'rete di salvataggio' che offre una serie di programmi federali non solo ai disoccupati, ma a quelle ampie fette di indigenza createsi negli anni in seguito al declino economico del Paese. Fino a pochi anni fa, coloro che si rivolgono a questi centri di assistenza, avevano un lavoro stabile. Oggi, sono 20 milioni i bisognosi che fanno ricorso agli 'ammortizzatori sociali' del welfare Usa, un balzo di 6 milioni in più rispetto al 2005, secondo il Dipartimento del Lavoro americano. Nonostante gli sforzi del Congresso, tuttavia, il budget federale per i programmi di welfare è stato tagliato dell'1,74 percento. Assomma a 3,7 miliardi di dollari, un calo del 14 percento dal 2000.

Le borse in picchiataGli economisti sostengono che i legislatori non hanno valutato l'impatto reale di una simile situazione, anche perchè alcuni di coloro colpiti più duramente dalla crisi spesso ricorrono a internet per cercare lavoro, mentre la maggioranza più a rischio è quasi invisibile, senza professionalità, senza istruzione e largamente di colore. Se qualcuno si chiede che effetto avrà l'annunciato piano di Obama di "far tornare al lavoro le persone di colore", può trovare una risposta provocatoria nelle considerazioni di Cornel West, docente nero di Studi afroamericani all'Università di Princeton: "L'elezione di Obama - ha detto West commentando i recenti dati sulla disoccupazione - non renderà certo la nostra nazione post-razziale, o trascendente dalla razza. Tali differenze sono sempre esistite".

Mentre i tassi di disoccupazione salgono e la portata della crisi aumenta, i provvedimenti del Tesoro per ridurre l'incertezza dei mercati e stabilizzare l'economia continano a basarsi sul salvataggio dei colossi bancari che affondano uno dopo l'altro. L'ultimo è la Citigroup, 200 milioni di clienti, che ha perso il 60 percento delle proprie azioni in una sola settimana. Ieri il Tesoro ha 'iniettato' nell'istituto 20 miliardi di dollari, probabilmente dietro segnalazione della nuova squadra di economisti chiamati dal nuovo presidente a risolvere la crisi. Oltre a Geithner al Tesoro, Lawrence Summers (a sua volta ex ministro del Tesoro ed ex capo economista alla Banca Mondiale) al Consiglio Economico Nazionale, l'economista di Berkeley e storica del New Deal Christina Romer a capo del Council of Economic Advisors, la collaboratrice di Ted Kennedy, Melody Barnes, al timone del Consiglio di Politica Interna e Peter Orszag nuovo Direttore del Budget.

 

 

 

Chomsky: che cos'è la globalizzazione

 

 

 

 

 

Stato contro Economia Reale

 

Fonte wb

 

La guerra dei mondi si fa sempre più chiara. Gli schieramenti anche. Come avevamo scirtto nell'ultimo aggiornamento, potevamo essere vicini a un contrattacco:

"prima si tenevano i dollari perchè così facendo si alimentava il boom economico. Poi se li sono tenuti perchè nella crisi il dollaro si sarebbe riapprezzato. E ora che il dollaro si è riprezzato. Che motivo hanno di tenerseli ancora? Ora forse stanno solo aspettando il momento giusto per sbarazzarsi di quella imbarazzante massa di carta straccia".

Domenica notte per qualcuno è arrivato il momento giusto di vendere dollari e titoli di stato americani e spendere il ricavato a sostegno della propria economia. Lo ha annunciato la Cina. La mossa di voler stimolare l'economia domestica tramite massicci investimenti pubblici è una mossa tanto attesa quanto intelligente.

La Cina a differenza degli stati uniti, e dei paesi europei, può permetterselo, senza problemi. Negli anni di boom hanno accumulato potere d'acquisto e di spesa, mentre il resto del mondo occidentale dietro i consigli dei proprio governanti, dei propri banchieri centrali, dei propri economisti, continuava a indebitarsi per "stimolare", tramite i consumi, l'economia.

Il risultato prevedibile è che il carro non è riuscito a trascinare i buoi e ora mentre noi ci siamo indebitati direttamente (tramite il ricorso a prestiti e carte di credito) o indirettamente (tramite lo stato) fino al collo, i cinesi hanno una montagna di dollari alta come da qua alla luna della quale sbarazzarsi per comprare beni reali e costruire infrastrutture.

Quasi seicento miliardi, oltre un terzo delle loro riserve in dollari. Un quarto del prodotto interno lordo. Come se gli americani lanciassero un programma da quasi 4 trilioni di dollari. Il doppio di quelli che hanno già speso per salvare gli amici. Senza neanche farci sapere come (qualcuno sta già facendo causa alla FED per avere trasparenza sulle operazioni di salvataggio). Dollari che gli americani non hanno, che nessuno probabilmente avrà voglia di prestargli. e che ovviamente andranno stampati di fresco.

Non siamo particolarmente amanti degli investimenti pubblici: come risultato di una decisione centralizzata si rivelano molto spesso, per non dire quasi sempre, sprechi assurdi. Tuttavia a questo punto qualunque strategia è preferibile al tenersi montagne di biglietti colorati che rappresentano solo una confisca di valore garantita.

Ieri poteva essere la svolta di questo mercato oramai massacrato da politiche monetarie occidentali al limite della follia. La speranza è durata appena qualche ora. Al risveglio degli americani è arrivato l'attacco al contrattacco. La pronta difesa del dollaro e dei titoli di stato americani dalla minaccia, per ora solo verbale dei cinesi, non si è fatta attendere molto.

Subito su dollaro e decennale americano. Giù tutto il resto. Le borse per prime, e poi le materie prime. Come andiamo ripetendo da tempo le borse sono oramai un giochino di poca importanza per le elite del potere e per gli ingegneri sociali americani (sempre a braccetto), rappresentano niente più che un danno collaterale. Quel rimasuglio di capitalismo sconquassato da decenni di interferenza istituzionale.

In ballo adesso c'è la solvibilità del governo che ha fatto il bello e cattivo tempo del pianeta per oltre mezzo secolo. Grazie ancora per averci salvato dalla minaccia comunista, ma qua oramai i comunisti veri che per tirare avanti si sono affidati alle manovre dell'uomo monetario (la banca centrale) e dell'uomo del fisco (lo stato) sono diventati loro. Il bello, o il brutto (a seconda delle prospettive) è che non possono neanche permetterselo: oltre ai debiti non hanno quasi più niente. Solo la speranza che il nuovo presidente non ripeta gli stessi disastri di quello uscente. Probabilmente ripeterà quelli di Roosvelt negli anni Trenta.

C'è in ballo anche la solvibilità di tutti i governi occidentali, già indebitati fino al collo, e adesso con la prospettiva di indebitarsi anche fin sopra i capelli per finanziare il salvataggio delle banche. Devono ancora cominciare a spendere per sostenere le economie che i debiti nazionali stanno già battendo nuovo massimi, 1.667 trilioni di euro per il nostro.

Non si è voluto che il mercato punisse i responsabili di questa crisi. E' stato un grande errore, le banche andavano lasciate fallire. Via gli azionisti che hanno sbagliato e dentro nuovi proprietari, probabilmente più oculati. Il capitale pronto a saltare sopra un carro vincente si trova sempre. Invece sono intervenuti con i nostri soldi con l'unico fine di proteggere gli amici e lasciarli sulle loro poltrone di pelle umana.

Le economie prosciugate da tanto sperpero ovviamente si sono ingessate, congelate, fermate. Le monete d'oro non crescono come alberi come pensava pinocchio e come oramai si sono convinti tutti. L'economia gira con le monete vere, frutto del risparmio, che si accumula in beni capitali. Non con il denaro di carta stampato senza sosta e a oltranza. Con quel denaro l'economia gira e funziona per un certo periodo. Poi ad un certo punto non funziona più. Dopo l'ultimo intervento istituzionale a difesa della crisi, come si può ben constatare nelle nostre piccole realtà quotidiane, non funziona più. Game over.

Game over per tutti i fantozzi. Chi comanda e chi ha in mano la stampante monetaria non si ferma di certo adesso. Adesso la useranno per salvare se stessi. Già perchè la domanda all'indomani del salvataggio delle banche la domanda era diventata: chi salverà i salvatori? Ci stanno pensando da soli, stanno pensando a salvare se stessi distruggendo tutto il resto. Non hanno altri mezzi. Per riuscire a vendere miliardi e miliardi di titoli di stato, devono terrorizzare tutti quanti, far credere che il mondo stia per finire e che l'unico rifugio è comprare la loro spazzatura con rendimenti del 3.5% (quando va bene).

E ci riescono anche. Il genio del male non è un genio per caso. Fanno assegnare il Nobel a un neokeynesiano e legittimati dai nuovi regressi della scienza economica ripartono con la spesa pubblica e con la propaganda che solo lo stato ci può salvare dagli spiriti selvaggi del capitalismo. Peccato che il capitalismo sia morto con Keynes oltre settanta anni fa. L'ultimo chiodo nella bara ce lo hanno messo Bernanke e Paulson.

La gente che nel 99,9 % dei casi non sa neanche che il prezzo di una obbligazione è inversamente proporzionale al rendimento offerto dalla stessa, purtroppo crede a tutto quel che gli raccontano su giornali e televisioni. Tra qualche mese, di fronte alla crisi nera, sarà oramai disposta a sacrificarsi all'altare dello stato, finalmente libero di prendersi in mano l'economia. Tutta intera. E con essa anche le nostre libertà. Le nostre anime. Senza scordare le nostre mutande. Quelle sole ci sono rimaste. Benvenuti nel nuovo socialismo del XXI secolo.

 

 

 

 

Se fallisce la General Motors

 

 

 

 

 

Cominciano le rivolte

Come prepararsi

Fonte web - Maurizio Blondet

Islanda. Migliaia di islandesi - ligi alle autorità - hanno dimostrato per le strade di Reykjavik reclamando le dimissioni del primo ministro Geir Haarde e del governatore della Banca Centrale David Oddsson, ritenuti colpevoli del disastro finanziario del Paese. Le manifestazioni avvengono da giorni, con scontri con la polizia. La folla ha eletto come capo un noto cantante-trovatore (sic) islandese, Hordur Torfason; un Beppe Grillo più deciso e capace, Torfason ha annunciato che le dimostrazioni continueranno finchè il governo non se ne andrà.

Un giovanotto s’è arrampicato sul palazzo di Althing (dove il presidente si affaccia per l’annuale giornata nazionale) e vi ha apposto un cartello: «Islanda in Vendita, 2,1 miliardi di dollari».

E’ la cifra che il Paese riceve come prestito d’emergenza dal Fondo Monetario. Altri 2-300 manifestanti hanno assaltato la centrale di polizia per tentare di liberare con la forza uno dei manifestanti, che era stato fermato. Hanno spaccato finestre, la polizia, in assetto di guerriglia urbana, ha usato i gas. Alla fine l’arrestato è stato rilasciato dietro pagamento di una multa.

Ma la rabbia non si calma. Tutti i prezzi sono aumentati di colpo del 30%, i disoccupati aumentano di giorno in giorno.

Come si sa, la rovina del Paese è dovuta alle tre banche principali, Kaupthing, Landsbankki e Glitnir, che si sono esposte  enormemente all’estero, per cifre superiori  al PIL del piccolo Stato.

L’umore generale è stato riassunto da una manifestante di nome Gudrun Jonsdottir, 36 anni, impiegata: «Ne ho le scatole piene di tutto questo. Non mi fido del governo, non mi fido delle banche, men che meno dei partiti. E non mi fido del Fondo Monetario. Questo era un bel Paese, e loro l’hanno rovinato» (1).

Svizzera. Raccolte in un lampo centomila firme per un referendum popolare contro i banchieri: basta con le liquidazioni d’oro dei dirigenti, i loro stipendi saranno sotto controllo pubblico, i «bonus» che intascano dovranno essere in rapporto ai risultati raggiunti (2).

Quest’ultima proposta del referendum ha di mira Marcel Ospen, il capo supremo della UBS, e i suoi direttori: si è saputo che, non contenti di arraffare gli emolumenti più alti d’Europa, i banchieri svizzeri hanno continuato ad offrirsi «bonus» altissimi anche quando la crisi finanziaria della banca era ormai nota a tutti.

Durante un’assemblea della banca, sono comparsi seimila piccoli azionisti - anziani, risparmiatori, medio benestanti, che hanno visto le azioni UBS in loro possesso dimezzare di valore in poche settimane - e il tono dell’incontro è stato tempestoso.

Pretendevano che Ospel - dimissionario - rivelasse quanto s’era pagato col suo ultimo bonus, che dicono principesco (l’entità è segreta, si parla di 15 milioni di dollari); lui s’è rifiutato; uno degli azionisti, o meglio dei manifestanti, è salito sul palco e gli ha gridato: «Ricaccia il bonus».

Poi ha tirato fuori dalla tasca due autentici würstel elvetici e glieli ha fatto ciondolare sotto il naso: «Non ti voglio affamare, ti ho portato qualcosa da mangiare».

La UBS controlla il 25% del mercato interno, o meglio lo controllava; ora i depositanti hanno ritirato dalla banca l’equivalente di 100 miliardi di euro di depositi (incredibile, ma la cifra viene dalla BBC), mettendoli nelle piccola banche locali (che attualmente prosperano).

Il «salvataggio» delle banche, deciso dallo Stato con uno stanziamento di 60 miliardi di euro, ha fatto infuriare ulteriormente gli svizzeri.

L’uomo che ha raccolto le firme per il referendum è un piccolo e prospero imprenditore fino ad oggi sconosciuto, Thomas Minder.

«Tutta la porcata dei sub-prime è un’invenzione americana, eppure una banca svizzera ci è cascata», ha detto indignato, ferito nella sua elveticità. Il voto dovrà aspettare un anno, quando i vari referendum della democrazia diretta svizzera si accorpano con le elezioni generali politiche. Ma è escluso che la rabbia sia sbollita per allora. La UBS ha molte migliaia di piccoli azionisti svizzeri, che la ritenevano sicura come il risparmio postale.

Cina. Causa la riduzione netta delle esportazioni, 62 mila aziende hanno chiuso in poche settimane. Spesso senza preavviso - i padroni semplicemente scompaiono con la cassa - e lasciando i lavoratori con mesi di paghe arretrate.

Il fenomeno colpisce in modo concentrato il Guangdong, centro del miracolo economico cinese, dove migliaia di fabbrichette producono scarpe, giocattoli, gadget di ogni genere.

Per esempio, un operaio di nome Wang, ora disoccupato, reclama dalla sua ditta (Weixu) due mesi di paga arretrata, pari a 440 dollari. Lui e i suoi colleghi sono scesi sulla strada, affrontando la polizia. Le autorità locali, su pressione di Pechino, provvedono direttamente al pagamento degli arretrati nel tentativo di calmare le proteste.

Il governo locale di Chang’an, sud Guangdong, ha sborsato 1 milione di dollari ai lavoratori in arretrati; o almeno così dice (Wang e i collegi non hanno visto nulla).

Stati Uniti. A Bogalusa, una bidonville di bianchi poveri in Louisiana, un tempo chiamata «la capitale del Ku Klux Klan», la polizia ha segnalato almeno 200 incidenti di tipo razziale da quando è stato eletto Barack Obama.

Gli incidenti comprendono: croci in fiamme nei giardini di coppie miste, minacce di morte ad abitanti (di colore e no) che avevano esposto davanti a casa manifesti pro-Obama, graffiti razzisti, comparsa di cappi appesi agli alberi davanti a case di gente di colore. Una donna che era membro del Klan ma poi ne era voluta uscire è stata crivellata da ignoti.

Negli anni ’60, a Bogalusa, il Klan teneva riunioni pubbliche in cui si decideva addirittura quale chiesa negra bruciare. Nel 1965 qui fu ucciso da ignoti un vice-sceriffo negro.

Poi l’influenza della società segreta è diminuita, come in tutta l’America: da 4 milioni di membri del primo ‘900, sarebbero attualmente non più di 6 mila su scala nazionale.

Ma il rapido deteriorarsi della situazione economica, più dura per i bianchi poveri, insieme all’arrivo della prima famiglia di colore alla Casa Bianca, ha ridato una sinistra vitalità al Klan o almeno ai suoi simboli, cappi e croci incendiate, che sono apparsi in vari «incidenti».

A Bogalusa, dove il 40% degli abitanti è nero, si ritiene che esista almeno un «capitolo» del Klan, fino ad ieri apparentemente in sonno (3).

Dimitri Orlov, un ingegnere russo che vive negli Stati Uniti, ha stilato una scala del collasso in cinque stadi, basandosi sulla sua esperienza, vissuta nel crollo del regime sovietico e successivamente nel periodo di inflazione e truffe finanziarie dell’era Eltsin (4).

E’ istruttivo elencare la scala:

1 - Collasso finanziario
2 - Collasso commerciale
3 - Collasso politico
4 - Collasso sociale
5 - Collasso culturale

«Ogni stadio comporta la perdita di fede o di fiducia in qualche importante istituzione o elemento dello status quo», dice Orlov. «Gli effetti fisici misurabili possono essere lenti, ma il rovesciamento psicologico è rapidissimo».

In Russia negli anni ’90, il collasso finanziario fu, per milioni di persone, il passaggio repentino da un prima a un dopo.

Prima                                             Dopo
Pensioni sicure                                Carità pubblica
Valore della casa                             Senzatetto, occupazioni abusive
Investimenti                                      pochi copechi
Risparmi liquidi                               iper-inflazione
Transazioni a credito                        transazioni in contanti, baratto
Indipendenza finanziaria                   interdipendenza fisica

In questa fase, si presume che lo Stato regga e organizzi qualche tipo di sostegno di emergenza; un periodo di semi-stabilità prima dell’avvento degli stati ulteriori.

Qui, scrive Orlov, l’esperienza mi ha insegnato che è bene approfittare di questa fase per «aggiustare certi aspetti importanti della nostra vita», specie «nelle relazioni con gli altri».

La normalità finanziaria, spiega, è come un sistema di barriere; il mio conto in banca è separato dal tuo conto in banza; tu ed io possiamo vivere senza preoccuparci troppo l’uno dell’altro; possiamo crederci «giocatori economici indipendenti in una campo di gioco livellato».

Ma quando le barriere diventano irrilevanti perchè non c’è più niente dietro, «diventiamo un peso gli uni per gli altri, in un modo così immediato da rappresentare un trauma per molti. L’indegnità di questa interdipendenza fisica avrà un costo umano inatteso, specie in un Paese educato al mito dell’individualismo».

Collasso commerciale

Quando  le merci necessarie diventano scarse o i negozi non vengono riforniti, immediatamente si notano fenomeni di accaparramento, e in conseguenza, di saccheggio. Si forma in un istante un grande mercato nero per le cose di prima necessità, dallo shampoo alle fiale di insulina. Forti rincari da profitattori. Se esiste ancora un’organizzazione statale, attuerà un controllo dei prezzi ed anche razionamenti, il che sarà vissuto come una benedizione.

In Unione Sovietica «il sistema di distribuzione alimentare, cronicamente inefficiente in tempi normali, si manifestò paradossalmente utile durante il collasso, consentendo alla gente di sopravvivere nella transizione».

Anche qui, un prima e un dopo.

Prima                                                Dopo
Scarso il denaro                                  Scarsi i prodotti
Economia di servizi                            Economia di auto-servizi
Shopping Center                                 Mercatini dell’usato, delle pulci
Supermercati                                      Bancarelle dei contadini
Culto delle novità                               Riparazione degli oggetti
Prodotti importati                               Surrogati nazionali

«Se prima del collasso commerciale il problema è avere abbastanza denaro per permettersi i generi necessari, dopo il problema è convincere quelli che hanno i generi di prima necessità a cederli per denaro; molti vorranno essere pagati in qualcosa di più valido che il liquido. I clienti devono offrire un servizio; e siccome i più hanno poco o nulla da offrire a parte il loro denaro senza valore, ammesso ne abbiano ancora, i fornitori di beni e di servizi si astengono. Scompare il mercato libero e aperto, sostituto da un mercato che non è aperto nè libero. I beni ancora disponibili non sono offerti a tutti, ma solo ad alcuni e in certi periodi. La ricchezza che esiste ancora è nascosta, perchè esibirla aumenta il rischio».

Attualmente, i generi in vendita sono «in gran parte importati, e tutti fabbricati in modo da diventare obsoleti». Sicchè diventerà difficile continuare a far funzionare le cose (auto, orologi, telefonini, eccetera) per mancanza di ricambi. Anche la quantità di questi beni industriali diminuirà, perchè parte di essi verrà cannibalizzata per ricavarne parti di ricambio. Nascono di colpo micro-industrie della riparazione e della rappezzatura.

Collasso politico
 
Prima                                                     Dopo
Diritti acquisiti                                     Promesse non tenute
Servizi comunali                                   Favoritismi locali
Tasse e bilanci                                      Mazzette, concussione
Ordine pubblico                                    Ronde militari o vigilantes
Rimozione spazzatura                            Cumuli di spazzatura
Ponti e strade                                         Buche, interruzioni e deviazioni

«Può essere difficile prendere coscienza del collasso politico perchè i politici sono bravi a mantenere l’apparenza e la pretesa di autorità anche quando essa vacilla», dice Orlov.

Un segno sinistro, che lui ha visto in Russia, è «il momento in cui i politici regionali cominciano a sfidare apertamente il governo centrale». Ad esempio il governatore della regione di Primorye, nell’estremo oriente russo, accaparrò il carbone delle miniere locali e stabilì una politica estera sua indipendente verso la Cina, «senza che Mosca fosse capace di frenarlo»; la Cecenia che si dichiarò indipendente, con il conseguente bagno di sangue.

I regionalismi corrotti, i particolarismi invincibili, le vere e proprie «secessioni» di località e di gruppi d’interesse spesso criminali  in Italia segnalano lo stesso collasso della politica, in avanzato stato di decomposizione?

E’ il caso di rifletterci. Orlov parla agli americani e avverte: una volta inagibili le superstrade, non resta molto per tenere unite le due coste (pacifica e atlantica); un tempo c’erano le ferrovie continentali, ma sono state troppo trascurate.

«Un Paese consistente in due metà collegate dal canale di Panama è di fatto due Paesi, almeno».

Un altro segnale da osservare sono «le incursioni di poteri esteri nella politica interna». In Russia, «consulenti politici stranieri hanno manipolato le elezioni» producendo le rivoluzioni colorate. Magari. In Italia, può dire qualcosa il sindaco di Roma che innalza sul Campidoglio la  bandiera di Sion avendo a fianco l’ambasciatore di Israele?

In USA, i fondi sovrani che comprano pezzi e bocconi dell’economia americana preludono ad una cessione di sovranità: presto avanzeranno richieste politiche per estrarre più valore dai loro investimenti; quando cominceranno a finanziare candidati alle cariche pubbliche, ci si accorgerà che la sovranità è finita altrove.

Peggio: «Il vuoto di potere lasciato dall’autorità legittima collassata tende ad essere riempito automaticamente dal crimine organizzato». In Italia, questo sintomo è sotto i nostri occhi: in Calabria, Sicilia, Campania. In Russia, il potere degli oligarchi con loro squadre di sicari privati, è un più vistoso esempio.

In USA, dice Orlov, la gente crede di poter fare a meno dell’apparato pubblico. Si accorgerà quanto dipende da esso quando sparisse la pur fragile assistenza sanitaria Medicare e Medicaid che «tiene in vita tanti», e quando le autorità locali non saranno più in grado di raccogliere i rifiuti, fare la manutenzione delle fognature, spazzare la neve, mettere vigili a dirigere il traffico, e distribuire l’acqua potabile.

Attenzione: «Questo collasso comincia dal basso, i funzionari locali sono i primi ad essere sopraffatti, mentre la capitale resta lontana e non risponde».

Collasso sociale

L’America, benche si glorii della sua filantropia, è molto stretta quando si tratta di aiuto ai bisognosi. Le provvidenze sociali sono punitive, basate come sono sull’ideologia che il povero sia tale per colpa sua. Il vuoto di previdenza sociale è colmato dalle organizzazioni caritative private. Quelle su base religiosa hanno un motivo per reclutare la gente alla loro causa; ma anche quelle che non pongono altre condizioni, «hanno lo scopo reale di rinforzare la superiorità di coloro che sono caritatevoli, a spese dei riceventi l’aiuto. Più grande il bisogno, più umilianti sono le condizioni imposte ai beneficiari». Inoltre, i benefattori non hanno motivazione di fornire più soccorso in risposta di bisogni crescenti. Al contrario: «Quando il bisogno è grande, costante e crescente, le organizzazioni caritative divengono via via meno adeguate a soddisfarlo».

Sarà bene dunque guardare ad altre opzioni: il ritorno alle società di mutuo soccorso (nacquero negli anni ’30), in cui i bisognosi «non devono cedere la loro dignità e non sono stigmatizzati per la loro condizione».

Meglio ancora, «la formazione di comunità abbastanza forti e coesive da provvedere al bene dei suoi membri, ma abbastanza piccole che le persone possano porsi in relazione diretta le une con le altre, e dove la responsabilità è diretta e visibile».

Cosa difficile in una società dei consumi basata sul credito finanziario, e dove l’ordine pubblico è statalizzato: qui, la disposizione al mutuo aiuto e all’assunzioone di responsabilità dirette «sono atrofizzate».

Attenti, dice Orlov: dobbiamo fare il possibile per contrastare questa fase di collasso, il collasso sociale. Ecco infatti o il «dopo» che esso ci porterebbe (non credo occorra la traduzione):

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Se non viene scongiurato il collasso sociale, è quasi inevitabile che si instauri il collasso «culturale».

Quello stadio in cui «si perde la fede nella bontà dell’umanità», dove la gente perde la capacità di «generosità, gentilezza, rispetto, affezione, onestà, ospitalità, compassione, aiuto materiale».

Le rivolte incipienti in Paesi culturalmente obbedienti come l’Islanda e la Svizzera denunciano il crollo della fiducia nell’insieme delle istituzioni, non solo delle banche; resta tuttavia l’idea, nei manifestanti, che «questa era una bella società»; lo stesso esprimono gli azionisti  svizzeri in rivolta, quando dicono che i subprime sono «un’invenzione americana», dunque indegna della civiltà elvetica. Resta in essi, dunque, la certezza che la loro «cultura» è migliore, esiste e deve solo essere riaffermata.

Si può dire lo stesso per l’Italia?

Il linguaggio sempre più cinico e violento ammesso in pubblico, la sessualizzazione ossessiva della comicità e della pubblicità, il godimento ripugnante, da parte dei telespettatori, delle degradanti convivenze che offre alla vista la TV (Isola dei Famosi, programmi della De Filippi...), le tifoserie teppistiche, i ripetuti pirati della strada drogati che falciano vite e scappano, i graffitari endemici, il linguaggio di Bossi o di Di Pietro, le scene vergognose cui si abbandonano i dipendenti Alitalia senza vergognarsene, tutto questo non rivela uno spaventoso collasso «culturale», addirittura pre-esistente agli altri collassi, finanziario e politico?

Dice Orlov: «Prendiamo l’onestà, ad esempio: la gente la pretende da sè e dagli altri, o giudica accettabile infrangerla per ottenere quel che vuole? La gente trae più motivo di gratificazione nel mostrare quanto ha, o quanto dà?».

Pensate all’Italia e provate a rispondervi, specie riflettendo sul comportamento della cosiddetta «casta», sia essa politica, bancaria, universitaria, giudiziaria, o pubblica in genere. Pensate ali politici che girano con scorta armata sulle auto blù corazzate. Pensiamo anche ai nostri comportamenti personali di ogni giorno.

In tempi normali, l’assenza di queste virtù personali è in qualche modo mascherata dalle istituzioni impersonali: finchè le banche danno credito, i negozi offrono merci, il governo garantisce più o meno l’ordine pubblico, ci è consentito fare a meno delle virtù «calde», o di confinarle alla famiglia e agli amici (alla famiglia, in Italia, sempre meno: quanti figli si drogano senza che i genitori ne abbiano il minimo sospetto? Quanti genitori insegnano ai figli atteggiamenti di egoismo edonista, di fatuità «griffata»?).

Questo collasso culturale è il peggiore, perchè arretra la civiltà e fa regnare la violenza endemica, quando collassano finanza, commercio e politica. La violenza può non essere fisica; ma già abbonda nel nostro mondo occidentale la violenza mentale che consiste, nota Orlov, «nel rifiutare il riconoscimento dell’esistenza dell’altro».

In USA è visibilissimo (ma accade sempre più spesso anche da noi, verso gli stranieri, gli extracomunitari, e non solo) l’atteggiamento dei passanti che evitano il contatto oculare reciproco, credendo così di essere più sicuri. Lo sguardo «vuoto» e indifferente e l’evitamento dello sguardo altrui dà il messaggio: «Non ti riconosco», non esisti. Ciò non rende più sicuri, al contrario. Allo scopo, è molto più utile lo sguardo cordiale e sorridente che suggerisce: «Ti riconosco, ti vedo».

Orlov non vuole però che la conclusione della sua analisi porti al pessimismo. Al contrario: «Io voglio che la gente sappia che può trovare il modo di condurre una vita serena e significativa anche nel crollo del sistema, comunque condannato».

La condanna non deve implicare l’illusione che si possa fare a meno di ogni potere pubblico: lasciate perdere «i diritti acquisiti», le operazioni militari all’estero, il valore legale del titolo di studio, il teatro a soggetto che passa per «democrazia»; queste sono la cose caduche del politico; ma resta la necessità di servizi essenziali, di essenziali controlli di sicurezza impersonali.

La rivolta deve tendere alla ricostruzione di un «governo», al minimo - in mancanza di meglio - locale.

Così, il collasso commerciale può «far nascere spontaneamente una nuova economia con meno griffes e meno sprechi, capace di provvedere ai bisogni basilari».

Là dove le comunità sono socialmente e culturalmente salde, la gente comincerà ad agire per provvedere al necessario senza attendere il permesso ufficiale. Ciò è meno probabile nell’Occidente de-industrializzato e dove il 60% delle persone campano fin troppo bene di «servizi avanzati» di cui, in realtà, si può fare a meno, mentre mancano competenze per sopperire ai bisogni essenziali (solo il 3-5% si dedica all’agricoltura).

La speranza è che le disposizioni atrofizzate siano ancora presenti - hanno aiutato l’uomo a sopravvivere nei millenni - e che «la difficoltà comune possa catalizzarle, suscitando cambiamenti sociali più vicini alla norma umana».

Possiamo prepararci cominciando «ad ignorare ciò su cui non possiamo far conto» nel futuro. Rinunciare alla TV, quando bastano la radio e internet; all’auto per la bicicletta. L’auto ci dà una gratificazione e un prestigio che è puro e semplice frutto di pubblicità e conformismo, dunque illusorio.

Così è un lusso occuparsi della politica nazionale, se si trascura di controllare come il municipio dà gli appalti per la raccolta dei rifiuti (vedi Napoli, e poi muori).

Il collasso culturale - il peggiore - è già avvenuto in ampi settori della società post-industriale, dall’«etica» dei miliardari di Wall Street non meno che nei quartieri pericolosi degli spacciatori di crack. Ma ci sono ancora «sacche di cultura intatta qua e là», comunità che hanno imparato dall’avversità a mantenere una coesione sociale, altri che hanno preso deliberata decisione di condurre una vita più semplice e sana.

Dove? Orlov consiglia di imitare (o importare) certe sub-culture vitali, come quelle che sussistono in certe comunità di immigrati, o tra gli Amish e i mennoniti, quelli che rifiutano la luce elettrica, si spostano con calessi e cavallo, e coltivano il proprio pane con le loro mani.

Orlov conclude: se avessi fondato un Collapse Party, dovrei essere contentissimo, perchè molto del mio programma è già in corso di attuazione: «Le autorità locali cominciano a rilasciare detenuti (i 2,5 milioni di detenuti in USA) per mancanza di fondi, è in corso una colossale cancellazione di debiti sulle carte di credito (non è un giubileo, ma di fatto è qualcosa di simile), il governo comincia a capire che deve evitare i sequestri delle case col mutuo, le case automobilistiche sono alla frutta... magari riusciremo persino a richiamare le truppe e a chiudere le basi all’estero».

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1) «Icelanders demand PM resignation, clash with police», Reuters, 22 novembre 2008.
2) «UBS loses favour with angry Swiss», BBCE News, 22 novembre 2008.
3) Howard Witt, «White extremists lash out over election of first black president - The Ku Klux Klan is emerging from decades of disorganization and obscurity, and the turnaround is acutely evident - more than 200 hate-related incidents have been reported since the Nov. 4 election», Los Angeles Times, 23 novembre 2008.
4) Dmitri Orlov, «The five stages of collapse», Energy Bulletin, 11 novembre 2008