ANNO DELLA FEDE:

VITO MANCUSO E IL

RITORNO DELLA GNOSI

ERESIA ANTICA E SEMPRE RISORGENTE DALLE PROPRIE CENERI

 

Per Mancuso non c'è più peccato né redenzione, ma l'uomo si salva da sé. E' il tipico pensiero gnostico di tutti i tempi. ma cos'è la Gnosi? Gnosis è una parola dal greco che significa conoscenza. Secondo gli gnostici si riferisce a una sapienza trascendentale che permette all’uomo di conoscere i misteri dell’Universo. Chi siamo? Da dove veniamo? Perché viviamo? È un’istruzione che non si può apprendere leggendo libri o studiando a memoria, ma che si manifesta attraverso pratiche interne più profonde, che rivelano una verità occulta riguardo l’Universo o noi stessi.

La gnosi è dunque l'apoteosi del soggettivismo nell'illusione di trovare da soli la via della salvezza. Non c'è più storia, non oggettività, non un Salvatore, ma solo un sé che trova le risposte occulte mediante pratiche interne così dette "profonde".  E' la strada dell'illuminazione interiore delle religioni orientali come il Buddismo che girano intorno ad un sé che esclude l'Altro, come dei bambini che eternamente girano intorno a se stessi senza alzare mai lo sguardo aldilà di se stessi. (Claudio)

 

 

Cristo insegna alla folla non cose “sue”, ma ciò che ha udito dal Padre.

Quindi il Cristianesimo non è una gnosi ma piuttosto un “ascoltare un Altro”.

 

 

INTRODUZIONE

Mancuso: l'eretico...

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Dopo aver visto l’ultimo libro dell’eretico Vito Mancuso, “Obbedienza e libertà. Critica e rinnovamento della coscienza cristiana”, Roma, Campo dei Fiori, 2012, ribadisco quel che scrivevo su di lui qualche tempo fa: «se vuole essere libero verso i “dogmi” (e dogmi sono la Santissima Trinità, Cristo figlio unigenito di Dio, la duplice natura umana e divina di Gesù, Maria Madre di Dio, la perpetua verginità di Maria e la sua Immacolata Concezione, la transustanziazione e via dicendo) come si può sostenere che Mancuso muova dal vangelo e abbia buone ragioni per considerarsi cattolico e interno alla Chiesa anche se in dissenso con la Chiesa? C’è modo e modo di essere in dissenso con la Chiesa e con l’ortodossia: non ogni dissenso è necessariamente segno di allontanamento della Chiesa ma quando il dissenso verte sui dogmi, ovvero sui pilastri della fede cristiana e cattolica, che hanno sempre avuto la funzione storica di arginare e contrastare tutte le eresie sorte in seno alla Chiesa, non si può più pretendere di essere “dentro” la Chiesa anche se alla ricerca di un “confronto”».

E poiché Mancuso nel libro sopra citato, pur reiterando alla Chiesa cattolica critiche talvolta giuste, soprattutto in relazione all’annosa questione dell’esercizio del potere, ma non nuove né sorprendenti per il cattolico medio, punta in modo spesso fanciullesco a servirsi di Cristo stesso per suscitare dissidio e seminare zizzania nella comunità cattolica, è qui opportuno ribadire che, piaccia o non piaccia a questo intraprendente ma mediocre teologo, egli è fuori della Chiesa e fuori della Chiesa resta e resterà sino a quando il suo orgoglio luciferino non gli consentirà di obbedire liberamente agli insegnamenti di Gesù dei quali, malgrado insufficienze o ritardi sul piano esegetico teologico e pastorale, è fedele custode la sua santa Chiesa che ha sede in Roma. (....)

 

 

Vito Mancuso, Io e Dio

 

Vito Mancuso: il Gesù di Ratzinger

 

 

VITO Mancuso, falso teologo e cattivo maestro

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Il problema più grave che affligge la cultura cattolica in tutto l’Occidente è il disorientamento dottrinale provocato dal poco ascolto che i fedeli prestano al magistero ecclesiastico (quello solenne del Vaticano II e quello ordinario dei pontefici), mentre troppo ascolto viene prestato al confuso vociare dei teologi, quasi tutti legati a interessi ideologici di parte e tutti coinvolti nel conflitto tra progressisti e conservatori, pro e contro la “nuova teologia”.

Questa pretesa “nuova teologia” altro non è, in sostanza, che una riproposizione, da parte dei teologi cattolici, di quelle teorie sulla fede, sulla Trinità e sulla figura di Cristo che erano state elaborate nell’Ottocento dal luterano Hegel e poi nel Novecento dal cattolico Heidegger. Come spiego in un mio trattato che sarà presto in libreria (Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica scienza della fede da un’equivoca filosofia religiosa, Casa Editrice Leonardo da Vinci), la vera teologia è un sapere scientifico che mira alla sempre maggiore comprensione della fede della Chiesa. Come ogni sapere scientifico, la teologia ha le sue regole, e la prima di queste regole è la salvaguardia della materia di studio, che è fede di tutti. Il teologo parte dal presupposto che la fede della Chiesa – che egli condivide con tutti gli altri fedeli – corrisponde esattamente a quello che Dio ha rivelatosi nella storia della salvezza.

Se il teologo non accetta i dogmi della fede cattolica e si adopera piuttosto per ri-formularli, cambiarne il senso o addirittura negarli apertamente, allora egli abusa del suo titolo scientifico, la sua non è vera teologia. Chiunque può liberamente esporre le sue teorie su Dio e sulla religione, ma se uno non assume i dogmi come verità rivelata, non si deve presentare come un teologo ma come un filosofo: non si devono trarre in inganno i fedeli, che dai teologi si aspettano giustamente di essere confermati nella loro fede, non di esserne distolti. Nel mio libro faccio molti esempi di “falsa teologia”, e faccio anche dei nomi, come Teilhard de Chardin, Karl Rahner, Hans Küng e Klaus Hemmerle; alla fine, tra gli italiani, cito un discepolo di Hemmerle, Piero Coda, che si rifà alla filosofia religiosa di Hegel per re-interpretare la dottrina cattolica sulla Trinità e sull’Incarnazione con le categorie concettuali della dialettica idealistica. Il metodo di reinterpretazione del dogma insegnato da Coda è stato ripreso da molti suoi scolari, tra i quali Vito Mancuso, docente di Teologia moderna e contemporanea all’Università San Raffaele di Milano.

Mancuso parla e scrive di teologia, e i suoi libri hanno avuto in Italia una vasta e chiaramente interessata eco nei mass media di orientamento laicistico: evidentemente, alla cultura anti-cattolica non può che far piacere che un autore che si proclama cattolico e teologo demolisca uno per uno tutti i dogmi della fede cattolica (era già successo anni or sono con i libri di Hans Küng). In uno dei suoi primi saggi Mancuso pretende di dare un senso al dramma del dolore umano innocente ricorrendo alla categoria dell’assurdo: «La creazione porta con sé la necessità che Dio soffra; di più: che Dio venga sacrificato. Dentro qui, dentro questa rivelazione assurda, sta l’assurdità dei bambini che nascono handicappati. Il rapporto di Dio col mondo fa prendere a Dio la forma dell’agnello, fa sorgere la figura dell’Agnello destinato al sacrificio. Dio, che è amore, scegliendo di porre il mondo e di porlo libero, diventa agnello sacrificale. E’ un’assurdità che l’onnipotenza divina debba soffrire, essere sgozzata, e questo proprio nell’atto che più di ogni altro rivela la sua onnipotenza. Ma questa assurdità è l’unico spazio concettuale per pensare l’assurdità dei bimbi nati malformati» (Vito Mancuso, Il doloro innocente. L’handicap, la natura e Dio, Mondadori, Milano 2002, pp. 156-157).

Di fronte al mistero del male, il teologo che all’inizio cercava ostinatamente uno “spazio concettuale” che valga a riportare in un quadro logico di necessità gli eventi della storia, alla fine non trova di meglio che rinunciare a ogni razionalità; il mistero diventa così l’assurdo, e dall’assurdo del dato rivelato si passa a definire come assurdità, come “aporia” e come “contraddizione” tutta la realtà naturale, ragione per cui la metafisica e la logica classica vanno eliminate dalla teologia. Non occorre rimarcare che la grande novità prospettata da questo discorso teologico è di… tornare a Hegel! Quasi due secoli di critica della dialettica hegeliana da parte della teologia cattolica, e anche della stessa filosofia religiosa luterana (si pensi a Kierkegaard), sono tranquillamente ignorati.

Qualche anno dopo, nel 2007, Mancuso pubblica L’anima e il suo destino e Rifondazione della fede, che vuole essere una sua personale interpretazione dell’escatologia cattolica, con particolare riguardo per i dogmi del peccato originale e della Redenzione. All’inizio del saggio l’autore dichiara che il suo intento non è di «distruggere la tradizione» dogmatica ma di «rifondarla», e a questo scopo egli propone un compromesso dottrinale che serva a tenere insieme «la bontà della creazione e la necessità della redenzione». Subito dopo, però, non esita ad affermare che il dogma del peccato originale, così come viene presentato dalla dottrina cristiana, va messo da parte, perché è «un’offesa alla creazione, un insulto alla vita, uno sfregio all’innocenza e alla bontà della natura, alla sua origine divina»; peggio ancora, è «un autentico mostro speculativo e spirituale, il cancro che Agostino ha lasciato in eredità all’Occidente».

Qui, come altrove e sempre, l’autore presenta il dogma come un’opinione teologica qualsiasi, senza avvertire la necessità di metterlo in rapporto con la dottrina del Magistero e con la Scrittura, ed è questo modo di affrontare gli argomenti della fede cristiana che non consente di considerare Mancuso un teologo (il giudizio, poi, sulla consistenza della sua filosofia religiosa è un discorso a parte). La proposta di Mancuso, impegnato come tanti altri filosofi religiosi a re-interpretare il dogma, è che per “peccato originale” occorre intendere semplicemente «la condizione umana, che vive di una libertà necessitata, imperfetta, corrotta, e che per questo ha bisogno di essere disciplinata, educata, salvata, perché se non viene disciplinata questa nostra libertà può avere un’oscura forza distruttiva e farci precipitare nei vortici del nulla» Mancuso non sembra accorgersi che l’abolizione del dogma del peccato originale, così come egli la propone, è la riproposizione di una vecchia tesi razionalistica, che sul piano teologico è stata già più volte condannata, e sul piano filosofico è stata dimostrata debitrice di una arbitraria scelta naturalistica all’interno del pensiero cristiano (vedi ad esempio Augusto Del Noce).

Fatto sta che, in conseguenza di queste premesse, Mancuso arriva alla completa dissoluzione della soteriologia cristiana: negato il peccato originale e la sua azione devastante nella condizione umana, la salvezza della quale parla il Vangelo si risolve in un pagano esercizio di vita morale, senza più alcun bisogno di un soccorso dall’alto, ossia della grazia divina, frutto della Redenzione. In effetti, senza accorgersi che la sua teoria ripropone, senza sostanziali novità speculative, la vecchia eresia pelagiana, Mancuso afferma che la cristiana «salvezza dell’anima» va intesa come una vera e propria “auto-redenzione” da parte dell’uomo “illuminato”: «La salvezza dell’anima – scrive Mancuso - dipende dalla riproduzione a livello interiore della logica ordinatrice che è il principio divino del mondo; [essa] non dipende dall’adesione della mente a un evento storico esteriore, sia esso pure la morte di croce di Cristo, né tanto meno dipende da una misteriosa grazia che discende dal cielo».

La risurrezione di Cristo risulterebbe così del tutto superflua: essa, per Mancuso, «non ha alcuna conseguenza soteriologica, né soggettivamente, nel senso che salverebbe chi vi aderisce nella fede visto che la salvezza dipende unicamente dalla vita buona e giusta; né oggettivamente, nel senso che a partire da essa qualcosa nel rapporto tra Dio e il genere umano verrebbe a mutare». Vanificata così la soteriologia, ne consegue la negazione della possibilità di una condanna eterna, e così anche il dogma dell’Inferno viene contraddetto: esso sarebbe «un concetto [...] teologicamente indegno, logicamente inconsistente, moralmente deprecabile». Si notino i termini: se parlare, a proposito dell’Inferno, di «un concetto logicamente inconsistente, moralmente deprecabile» appartiene al linguaggio della filosofia, di quella filosofia che esprime la sua opinione (legittima, in linea di principio, anche se priva di giustificazione razionale) anche su temi religiosi, parlare di «un concetto teologicamente indegno» rivela invece la pretesa inaccettabile di presentare la sua tesi come “teologica”, ossia come legittima interpretazione della fede della Chiesa, il che è letteralmente una mistificazione.

Il motivo conduttore dell’ultimo libro di Mancuso, Io e Dio (Garzanti, Milano 2011) è il sogno di un cristianesimo senza dogmi e di una teologia «liberante, non opprimente», le cui categorie non sono più il divieto, il peccato e la pena, ma la libertà, la responsabilità e la felicità. Così ai fedeli non verrebbe più inculcato il terrore dell’inferno: la teologia diventerebbe una serie di “consigli per gli acquisti” utili a vivere «la vita buona». Per realizzare questo sogno Mancuso arriva a negare addirittura l’idea di un Dio come “persona”: un Dio che comanda, che giudica, che condanna, un Dio cioè che esercita un potere esterno e assoluto. L’episodio biblico del sacrificio di Isacco (Dio ordina ad Abramo di offrigli il figlio come vittima sacrificale; Abramo obbedisce ma Dio all’ultimo lo ferma) è presentato dalla Chiesa come un esempio di fede perfetta, ma Mancuso ne prova disgusto, sia per l’immagine d’un Dio spietato che l’esempio di disumanità di un padre disposto a sacrificare il figlio.

Da questa arbitraria interpretazione della Scrittura Mancuso passa poi alla solita deprecazione (già abbondantemente svolta in Italia da Gianni Vattimo) del potere temporale della Chiesa, anzi anche del potere spirituale della Chiesa stessa, che eserciterebbe, in nome di Dio, una ingiusta violenza sulle coscienze. Ecco allora la ripresa dei vecchi temi della morale autonoma (Kant), dell’identificazione della coscienza soggettiva con Dio (Hegel): «Il mio assoluto, il mio Dio, ciò che presiede la mia vita, non è nulla di esterno a me. […] Credendo in Dio, io non credo all’esistenza di un ente separato da qualche parte là in alto; credo piuttosto a una dimensione dell’essere più profonda di ciò che appare in superficie […], capace di contenere la nostra interiorità e di produrre già ora energia vitale più preziosa, perché quando l’attingiamo ne ricaviamo luce, forza, voglia di vivere, desiderio di onestà. Per me affermare l’esistenza di Dio significa credere che questa dimensione, invisibile agli occhi, ma essenziale al cuore, esista, e sia la casa della giustizia, del bene, della bellezza perfetta, della definitiva realtà».

Un intellettuale laicista commenta il libro di Mancuso (Gustavo Zagrebelsky, «Mancuso: il primato della coscienza contro la chiesa dell’obbedienza», in la Repubblica, 9 settembre 2011, p. 12) e finge di essere interessato a come possa essere accettato dalla Chiesa: «Le sue tesi si sviluppano dall’interno del messaggio cristiano, della “buona novella”. Vito Mancuso, che tenacemente si professa cattolico, cerca il confronto, un confronto non facile. Lui si considera “dentro”; ma l’ortodossia lo colloca “fuori”. […] La teologia di Mancuso sarebbe una riedizione dell’orgoglio di chi si considera “illuminato” da una grazia particolare che lo solleva dalla bruta materia e lo introduce al mondo dello spirito e alla conoscenza delle verità ultime, nascoste agli uomini semplici. La Chiesa ha sempre combattuto la gnosi come eresia, peccato d’orgoglio luciferino». Poi, con disinvolta ipocrisia, il laicista Zagrebelsky fa l’avvocato difensore: «Nelle pagine di Mancuso non mancano argomenti per replicare. Dappertutto s’insiste sull’intrico di materia e spirito e sulla loro appartenenza a quella realtà (che aspira a diventare) buona, cioè vera, giusta e bella, che chiamiamo creazione o azione che va creando. Se mai, il dubbio che potrebbe porsi è se, in quest’unione, non vi sia una venatura panteista: Dio come natura. Punto, probabilmente, da approfondire».

Altro che «venatura»! Quello di Mancuso è genuino panteismo (anche se teoreticamente inconsistente). Ma, mi domando: perché il recensore (o meglio, il propagandista) del libro di Mancuso storce il naso se sente odore di panteismo? Per lui che è agnostico e contrario a qualsiasi dogma religioso, che differenza fa un’eresia cristiana in più o in meno? La teologia di Mancuso consentirebbe di tracciare nuovi e sorprendenti confini, non più basati sull’obbedienza e sulla disciplina. Così, si scoprirebbe forse che molti, che si dicono dentro, sono fuori; e molti, che si dicono fuori, sono dentro. “Dentro” vuol dire: in una comune tensione verso quel logos del mondo che è la giustizia, appannaggio di nessuno e compito dei molti “di onesto sentire”». Insomma, la pseudo-teologia di Mancuso piace ai miscredenti perché porta acqua al mulino della polemica contro la Chiesa e ripropone (proprio come aveva fatto in precedenza Hans Küng con la sua Welthetik) i progetto massonico di una religione universale “laica” senza gerarchia e senza dogmi, quella religione che alla fine del Settecento era stata teorizzata dal massone Gotthold Ephraim Lessing con Nathan der Weise. Ein Dramatisches Gedicht (1779), opera alla quale Mancuso ricorre più volte.

E allora si capisce il senso della conclusione cui arriva il commento sulla Stampa: «Nella “vita buona” di Mancuso, il primato è della coscienza; nella “vita buona” della Chiesa il primato è dell’ubbidienza. Libertà contro autorità: una dialettica vecchia come il mondo. Scambiare la libertà di coscienza con la gnosi è un artificio retorico. Vale per persistere nell’accantonare i molti problematici aspetti della vita della Chiesa impostati su dogmi e gerarchia. Non solo: rende difficile il rapporto con i credenti di altre fedi, religiose e non. Riporta in auge il prepotente principio extra Ecclesiam nulla salus».

 

 

Vito Mancuso: credere è dire un grande si al Bene

 

 

Salvate il card. Martini dallo gnostico Vito Mancuso

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«Il diavolo sa ben citare la Sacra Scrittura per i suoi scopi», diceva William Shakespeare. L’aforisma rende abbastanza l’idea se si pensa che negli ultimi secoli i più grandi nemici della Chiesa e del cristianesimo non sono stati laicisti o anticlericali di professione -essi non hanno la forza e gli argomenti per tentare di abbordare le certezze della fede-, ma teologi, esegeti ed esperti delle Sacre Scritture.

Pensiamo soltanto agli immensi danni alla verità sulle origini del cristianesimo (oggi ricomposti parzialmente grazie alle scoperte dell’archeologia biblica) causati dal teologo evangelico Rudolf Bultmann e -per passare subito al “dopo ’68″ (anno del “boom dei teologi dissidenti)- al devastante attivismo anticlericale del teologo cattolico Hans Küng, invidiosissimo del successo riscosso dagli ultimi due pontefici nel mondo cattolico. Per non parlare dei tanti preti mediatici che si esibiscono frequentemente negli show televisivi, da Andrea Gallo e Antonio Mazzi, che adorano attirare applausi schernendo la Chiesa tramite estrapolati detti evangelici.

Arriviamo infine al più pericoloso nemico della Chiesa oggi in Italia, il teologo cattolico Vito Mancuso, unicamente conosciuto per il suo consistente e programmatico impegno anticlericale. Fino al 2011 è stato sul libro paga del prete-imprenditore don Luigi Verzé come docente di teologia, dal quale non soltanto non ha preso le distanze dalle sue anticristiane megalomanie, ma ne ha difeso la libertà intellettuale. Questo perché -come è stato fatto notare- Mancuso (e altri docenti dell’Università San Raffaele) sono «profeti di un cristianesimo antidogmatico e antichiesastico, in grado di conquistarsi il credito laico-progessista, ammantato di quell’aura di battagliera indipendenza dalla gerarchia che tanto piaceva a don Verzé, perché in fondo è stata la sua cifra esistenziale».

L’a-teologo Mancuso, alla faccia della laicità, è dal 2009 editorialista (!) di uno dei quotidiani più schierati politicamente, ovvero Repubblica”. Nel 1985 ha chiesto di essere ordinato sacerdote ed è stato accontentato, nel 1986 ha cambiato idea chiedendo di essere dispensato dalla vita sacerdotale, per dedicarsi alla teologia, ed è stato accontentato. Pochi anni dopo Mancuso ha cambiato intenzioni per l’ennesima volta e ha chiesto di spretarsi per sposare l’ingegnere civile Jadranka Korlat dalla quale ha avuto due figli. Per ora mantiene questa idea.

La sua confusione è osservabile comunque anche nelle tesi teologiche che esprime, come ha spiegato il teologo Bruno Forte. Occorre premettere che mons. Forte è una delle persone che meglio conosce Mancuso avendolo ospitato per due anni a Napoli e avendolo formato presso la Facoltà Teologica “San Tommaso d’Aquino”. Tuttavia il pretigioso teologo ha detto di lui e delle sue opere: «ha suscitato in me un senso di profondo disagio e alcune forti obiezioni, che avanzo nello spirito di quel servizio alla Verità, cui tutti siamo chiamati», il pensiero di Vito Mancuso -ha proseguito l’arcivescovo e teologo Bruno Forte smontando il volume “L’anima e il suo destino” (2007)- «non esiterei a definire una “gnosi” di ritorno, presentata nella forma di un linguaggio rassicurante e consolatorio, da cui molti oggi si sentono attratti [...], non è teologia cristiana: è “gnosi”, pretesa di salvarsi da sé». Secondo il teologo e filosofo Antonio Livi, Mancuso «è considerato un teologo, ma il contenuto e l’impianto del suo testo contraddicono la natura della teologia. Tratta con scandalosa superficialità temi che meriterebbero ben altro rispetto, commettendo diversi notevoli svarioni».

Lo gnostico Mancuso ha definito il card. Carlo Maria Martini “il mio padre spirituale” e non ha trovato un modo migliore per onorare la sua vita strumentalizzando la sua morte per tirare acqua al mulino dell’eutanasia, pratica da lui ampiamente sostenuta. Chissà se il card. Martini sarebbe stato contento che il suo “figlio spirituale” sfruttasse la sua morte per motivi ideologici, sostenendo ad esempio che egli «ha dato estrema testimonianza staccando, quando lo ha ritenuto inevitabile, le macchine che lo tenevano artificialmente in vita». Mancuso ha riportato questa amenità sul suo “padre spirituale” -secondo la recensione realizzata da Roberto Esposito- nel suo ultimo libro “Conversazioni con Carlo Maria Martini” (Fazi 2012) realizzato assieme a Eugenio Scalfari. Ovviamente è chiaro a tutti che il card. Martini non era attaccato a nessuna macchina (già altri hanno provato questo tentativo) e che ha soltanto chiesto di interrompere le terapie inutili per evitare l’accanimento terapeutico e -come fanno decine di malati terminali ogni giorno nel mondo- ha chiesto una sedazione palliativa per attendere la morte nel sonno, decisione condivisa anche dal dal cardinale Elio Sgreccia, presidente emerito della pontificia Accademia per la vita, che ha affermato: «Anch’io come Carlo Maria direi no a quelle terapie». Apprezzabile anche l’onestà intellettuale di Carlo Flamigni -ci si è ridotti a valorizzare le parole di un presidente onorario dell’UAAR che contraddice quelle di un teologo cattolico!- quando afferma: «Qualora Martini avesse rifiutato l’accanimento terapeutico che differenza farebbe? Non mi sembra che la Chiesa si opponga. Il cardinale ha soltanto rifiutato le cure che riteneva inutili, sicuramente non ha chiesto di essere lasciato morire. L’unico accanimento è piegarlo alla propria ideologia».

Anche Vito Mancuso -com’era prevedibile- si è dunque accodato agli squallidi tentativi di Paolo Flores D’Arcais (Eugenio Scalfari e tanti altri, confutati dal medico personale del cardinale) di strumentalizzare la vita e la morte del card. Martini. Dopo essersi scagliato contro presunte “operazioni anestesia” compiute dalla Chiesa nei confronti di Martini (tesi confutata anche da “Il Foglio”, da Andrea Tornielli, da Antonio Spadaro, da Antonio Socci, oltre che da tutti gli articoli apparsi sul compianto biblista sull‘”Osservatore Romano” e su “Avvenire”) ha contribuito a «compiere un’incredibile distorsione della realtà, rimasticata e ripubblicata quasi con la meccanica convinzione che “ripubblicando ripubblicando alla fine si avvererà”, almeno nella testa della gente. Ma vera la “eutanasia dell’Arcivescovo” non è mai stata né mai potrà diventarlo, e rappresenta – l’ho già scritto e, qui, lo ripeto – un’autentica bestemmia, un ingiustificabile ed estremo oltraggio a un uomo di Dio che ha servito la verità e coltivato, da cattolico, le virtù della chiarezza, del rispetto e del dialogo», secondo il duro e condivisibile commento del direttore di “Avvenire”, Marco Tarquinio.

AGGIORNAMENTO 25/09/12, ore 15:00
Mentre questo articolo veniva realizzato, Vito Mancuso ha scritto al direttore di “Avvenire”, Marco Tarquinio, prendendo le distanze dalle affermazioni a lui attribuite da Esposito e affermando: «lei ha perfettamente ragione nel rimarcare l’infondatezza dell’affermazione di Eugenio Scalfari nell’articolo su “Repubblica” del 1 settembre, ripresa da Roberto Esposito sempre su “Repubblica” nell’articolo del 21 settembre, secondo cui il cardinal Martini avrebbe “deciso di essere staccato dalle macchine che ancora lo tenevano in vita”». Mancuso ha continuato: «Si tratta di un’inesattezza che va smentita con chiarezza e che per quanto mi riguarda non ho sostenuto in nessun modo, essendo ben al corrente delle condizioni del cardinale che visitavo con una certa regolarità». Dunque il “teologo” ha confutato apertamente le subdole affermazioni del fondatore del suo quotidiano, Scalfari, ma ha pensato di farlo soltanto in una letterina ad “Avvenire”, lasciando tranquillamente che dalle colonne di “Repubblica”, di cui è editorialista, venissero diffuse “inesattezze” sul suo “padre spirituale”.

Mancuso ha poi tentato comunque di strumentalizzare la morte del card. Martini citando -come ha fatto Paolo Flores D’arcais- un articolo della nipote dell’ex arcivescovo di Milano, avvocato Giulia Facchini, testimone diretta degli ultimi momenti di vita del cardinale, la quale ha scritto che lo zio, quando ha sentito arrivare la morte, ha chiesto «di essere addormentato» e così una dottoressa lo ha sedato. Secondo Mancuso quindi, «il cardinal Martini non è stato staccato da nessuna macchina, ma ha piuttosto scelto, in libera determinazione, di staccare la sua presenza mentale (si potrebbe dire la sua anima spirituale) dal suo corpo». Martini infatti, come migliaia di altri pazienti in stato terminale fanno ogni giorno, ha scelto appunto la semplice sedazione palliativa che addormenta il paziente per evitarli sofferenze, soluzione che -al contrario della tesi di Mancuso- non accorcia affatto la vita, anzi -come ha scritto la “Rivista Italiana di cure palliative”- probabilmente aumenta addirittura la sopravvivenza dei pazienti.

Tarquinio ha giustamente risposto sorpreso del «tentativo di sostituire un mai avvenuto “stacco della spina” con un deliberato “stacco della mente” o, addirittura, uno “stacco dell’anima”. Sembra quasi che l’importante sia riuscire a dire che qualcosa è stato, comunque, “staccato”. Non è andata così [...]. “Accompagnare” una persona morente con cure adeguate, che ne leniscono le sofferenze, non è affatto “procurare” la morte. Non si può dirlo e non si può farlo pensare. Perché il “far dormire” – cioè la compassionevole sedazione, che nel caso del cardinale è stata offerta dalla saggezza del medico curante e accettata dal morente – è appunto un modo per “accompagnare” chi sta troppo patendo».

AGGIORNAMENTO 26/09/12
Vito Mancuso ha fortunatamente capito che avrebbe fatto meglio ad inviare una letterina anche a “Repubblica”, oltre ad “Avvenire” per difendere il suo “padre spirituale” (come mai solo adesso? Scalfari ha affermato quelle sciocchezze il giorno dopo la morte di Martini!!). Mancuso ha però aggiunto che Martini ha «scelto di interrompere le cure finalizzate al mantenimento della vita per passare a cure finalizzate ad affrontare la morte nel modo meno traumatico possibile». Ha quindi chiesto che «a ogni cittadino sia dato il medesimo diritto esercitato da Martini». No, Mancuso proprio non riesce a capire che Martini ha chiesto quello che chiedono quasi tutti i malati in fase terminale, ovvero di attendere la morte dormendo. Non ha chiesto di interrompere il mantenimento in vita, dire questo significa continuare ad offendere la memoria di Martini pur di promuovere l’eutanasia. C’è da vergognarsi.

 

 

Vito Mancuso - Il punto fermo (che non è immobile)

 

 

L’altro 1968:

 La nascita del dissenso organizzato nella Chiesa Cattolica

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1. La contestazione conto l’Humanae vitae

Il 31 luglio 1968 i lettori del New York Times trovano a pagina 16 del loro quotidiano preferito — ma con un richiamo a pagina 1 — qualche cosa che cambia per sempre la storia della Chiesa Cattolica. Non si tratta di una nuova dichiarazione antireligiosa dei protagonisti delle lotte studentesche del 1968 in Europa. Con il titolo «Contro l’enciclica di Papa Paolo» («Against Pope Paul’s Encyclical» 1968) il quotidiano statunitense pubblica un appello datato 30 luglio, e firmato da oltre duecento teologi, che invita i cattolici a disubbidire a un’enciclica pontificia. Si tratta di qualche cosa che non si è mai visto nella lunga — e pur tormentata — storia della Chiesa. Certamente ci sono sempre stati dissidenti che hanno lasciato la Chiesa di Roma. Ma mai teologi, quasi tutti con cattedre in università cattoliche — che non hanno nessuna intenzione di abbandonare — e in molti casi sacerdoti, hanno esortato pubblicamente i fedeli a seguire il loro insegnamento e a schierarsi «contro» quello del Sommo Pontefice. Se l’essenza della rivoluzione culturale emblematicamente rappresentata dalla data 1968 è la contestazione in ogni ambito del principio di autorità, questo episodio segna in modo clamoroso l’esplodere del Sessantotto della Chiesa.

Infatti, dalla contestazione per la prima volta organizzata, da parte di un numero non maggioritario ma non modesto di docenti e di sacerdoti, dell’enciclica Humanae vitae (datata 25 luglio 1968 e pubblicata il successivo 29 luglio) di Paolo VI (1897-1978), che ribadisce l’illiceità per i cattolici della contraccezione artificiale, nasce l’idea, diffusa non solo in ristrette cerchie di cultori di teologia ma sui media internazionali, che dopo il Vaticano II (che è finito tre anni prima) i cattolici — o almeno, per usare un’espressione non solo italiana, i «cattolici adulti» — possano scegliere fra il magistero del Papa e il «magistero parallelo» dei teologi, un’espressione che sarà ripresa nel 1990 dall’Istruzione Donum Veritatis della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla vocazione ecclesiale del teologo (Congregazione per la Dottrina della Fede 1990). I teologi, in quanto più «progressisti» e avanzati, anticiperebbero semplicemente oggi quanto il magistero finirà fatalmente per accettare domani, e quindi potrebbero e dovrebbero essere seguiti con fiducia dai fedeli più maturi.

Dal momento che — per dire il meno — il Papa e la gerarchia non condividono questo punto di vista, ecco che nella Chiesa Cattolica vi sono dal 1968 due fonti di autorità (da una parte il Papa, dall’altra i gruppi di teologi che riescono a farsi percepire come maggioritari, lo siano o no), le quali certamente non sono sullo stesso piano dal punto di vista della dottrina insegnata dalla Chiesa stessa (e dal Concilio Ecumenico Vaticano II) ma sono presentate come se lo fossero dai media. La sociologia c’insegna che un’organizzazione dove i membri sono, per così dire, tirati in direzioni diverse da fonti di autorità percepite come alternative è un’organizzazione che non può funzionare in modo ottimale: di qui la sua crisi, che nei decenni successivi diventa sempre più evidente.

Ralph McInerny, uno dei più autorevoli filosofi cattolici contemporanei, in un piccolo ma importante libro — dal significativo titolo Che cosa è andato storto con il Vaticano II? (McInerny 1998) — insiste sul fatto che la questione decisiva nel 1968 non riguarda solo gli anticoncezionali, ma chi esercita l’autorità nella Chiesa e quale autorità i fedeli devono seguire. La gravità del caso Humanae vitae è confermata da un dato che riguarda la persona stessa di Papa Paolo VI: dopo la reazione a quel documento, il Pontefice — che pure regna ancora fino al 1978 —, evidentemente amareggiato, non pubblica per tutta la sua vita, cioè nei successivi dieci anni, alcun’altra enciclica (un fatto del tutto inconsueto per un Papa moderno) dopo che ne aveva pubblicate sette fra il 1964 e il 1968.

Il teologo (poi cardinale) Leo Scheffczyk (1920-2005) — intervenendo nel 1988 a Roma a un congresso nel ventennale della Humanae vitae, ai cui partecipanti rivolge un importante discorso lo stesso Pontefice Giovanni Paolo II (1920-2005) — spiega, in un modo particolarmente chiaro, il meccanismo (illustrato in termini analoghi anche da altri autori) utilizzato dai teologi dissidenti per costituirsi come magistero parallelo. Si tratta di un lento e ultimamente devastante lavorio teologico intorno alla nozione d’infallibilità definita dal precedente Concilio Vaticano I. Si «mette accanto al magistero infallibile un cosiddetto magistero fallibile, cosicché la fallibilità apparterrebbe a tale magistero quasi come un attributo permanente» (Scheffczyk 1989, 283). Posto che il magistero invoca molto raramente la sua infallibilità, e normalmente richiede l’assenso dei fedeli nei confronti della sua espressione in forma «autentica», da parte dei dissidenti «si costruisce l’equazione: infallibilità è incapacità di errore, autenticità invece è capacità di errore, e perciò anche incertezza e di per sé più esposta al rifiuto» (ibidem). Mentre i teologi dissidenti dal Vaticano I se la prendevano con l’infallibilità, i dissidenti del dopo-Vaticano II se ne fanno scudo per dichiarare che nell’insegnamento della Chiesa, tranne il pochissimo che è infallibile, tutto il resto è «fallibile» e si ha quindi il diritto di rifiutarlo. Beninteso, «secondo le regole della conoscenza questa equazione non è ammissibile» e il magistero, così, «ha perduto il suo significato» (ibidem). Né insegna questo il Vaticano II, anzi insegna precisamente il contrario: anche il magistero «autentico» è «rivestito dell’autorità di Cristo» e pertanto l’assenso è obbligatorio (ibidem; cfr. Lumen Gentium, n. 25).

Dunque, la crisi che s’inaugura per così dire ufficialmente il 31 luglio 1968 riguarda anzitutto chi esercita l’autorità nella Chiesa. Ma riguarda anche la questione della sessualità umana. In un intervento del 3 ottobre 2008 al convegno Humanae vitae: attualità di un’enciclica, organizzato a Roma dall’Università Cattolica del Sacro Cuore in occasione dei quarant’anni del testo di Paolo VI, il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, mostra come — anche in tema di sessualità — non si tratti solo di prescrizioni morali specifiche, ma di tre grandi questioni su cui si gioca il futuro stesso della «proposta evangelica» (Caffarra 2008). La prima riguarda l’unità di materia e spirito che si esprime nella persona umana, contro tutti gli gnosticismi — per cui l’uomo è solo spirito — e tutti i materialismi, per cui l’uomo è solo materia o corpo e lo spirito non esiste. Si tratta qui di una battaglia che la Chiesa combatte fin dai primi secoli e che ha a che fare con l’equilibrio stesso fra ragione e fede.

Se l’uomo è solo spirito, la sessualità è qualche cosa di cattivo, al massimo un male necessario. Personalmente non so se siano mai state usate o se si tratti di una leggenda, ma ho sentito parlare anch’io delle camicie da notte di cui si afferma che facessero parte del corredo di nozze di qualche bisnonna con la frase ricamata «Non lo fo per piacer mio ma per dare un figlio a Dio». Ora, la negazione del ruolo positivo del piacere e della sessualità in ultima analisi non è solo ottusa: per quanto le bisnonne potessero non rendersene conto è gnostica, in quanto nega che il Dio Creatore sia il creatore anche del corpo e abbia voluto il corpo come cosa intrinsecamente buona (ancorché — ma questo vale per ogni tipo di realtà — il suo uso disordinato possa essere cattivo).

Il contributo dell’allora cardinale Karol Wojtyla — il futuro Papa Giovanni Paolo II — ai lavori preparatori per l’enciclica Humanae vitae consiste in un testo inviato a Roma che sarà alla base di un libro, Amore e responsabilità (Wojtyla 1978), il quale purtroppo non diventerà generalmente noto nella Chiesa se non dopo l’elezione del suo autore a Pontefice (in italiano, per esempio, sarà tradotto solo dieci anni dopo, nel 1978). Sull’effettiva influenza del testo di Wojtyla sulla Humanae vitae è ancora in corso un dibattito fra gli storici. Tuttavia alcune idee forza di Amore e responsabilità si ritrovano nell’enciclica (che, sia detto per inciso, pochissimi hanno letto). Vi è una valutazione positiva della sessualità umana — contro ogni gnosticismo — ma insieme la ferma difesa della dottrina tradizionale della Chiesa secondo cui questo apprezzamento, per sfuggire all’attrazione dell’errore opposto, il materialismo, deve essere radicato in una continua illustrazione della necessaria compresenza di libertà e istituzione, significato unitivo e significato procreativo dell’atto sessuale, passione e ragione.

Seguendo sempre lo schema del cardinale Caffarra, la seconda grande questione posta dall’Humanae vitae — collegata alla prima — è che i gesti umani della «dimensione fisica […] veicolano un senso spirituale». Per esempio, «se il bacio di Giuda ci sconvolge tanto profondamente è perché il gesto del baciare ha un suo significato proprio: compierlo dandogli un altro senso è avvertito come immorale e riprovevole» (Caffarra 2008). Ultimamente, la domanda qui è se i gesti umani, compresi quelli della sessualità, siano parte di un linguaggio «dotato di un significato proprio, di una sua grammatica», abbiano cioè una funzione che corrisponde allo schema naturale delle cose — e quindi, per converso, possano anche averne una contraria alla legge naturale e immorale — ovvero se ogni gesto sia accettabile se lo percepisco come utile o semplicemente se mi va di farlo in quel momento. Il mondo moderno e postmoderno è passato dall’utilitarismo al semplice anarchismo morale: «tutto alla fine è dichiarato giustificabile, purché sia liberamente voluto» (ibidem).

La pillola contraccettiva sta precisamente al centro — non alla periferia — di questo problema perché negli anni intorno al, e dopo il, 1968 è stata il veicolo della rivoluzione sessuale e del «tutto è lecito purché lo voglia liberamente». Prendendo la pillola a colazione, qualunque studentessa post-sessantottina pensa di potere «fare quello che vuole» senza porsi neppure il problema della eventuale gravidanza, cioè della responsabilità. Peraltro sbagliando: i numeri sono impietosi e dimostrano che quando Marco Pannella nel decennio successivo al 1968 sfilava con i cartelli «Pillola subito per non abortire, aborto libero per non morire» aveva, come spesso gli capita, torto. Per non andare troppo lontano da noi, in Italia — uno dei Paesi con la maggiore diffusione pro capite di anticoncezionali — all’aumento del consumo della pillola ha corrisposto un tasso che è rimasto molto alto del numero degli aborti. Nel 2005 per esempio, secondo il Rapporto Annuale del Ministero della Salute, ci sono stati 132.790 aborti procurati (per intenderci, è come se in un anno fosse sparita una città come Bergamo, con tutti gli abitanti del comune e anche di un paio di comuni più piccoli vicini), e un po’ più di una gravidanza italiana ogni sei si è conclusa con un aborto. La diffusione di massa degli anticoncezionali, infatti, non previene l’aborto ma crea una mentalità ostile al concepimento e alla vita, per cui se me la cavo con la pillola bene, diversamente c’è sempre l’aborto.

La terza questione è se amore del corpo e amore dello spirito — eros e agape, un tema che Benedetto XVI riprenderà nella sua prima enciclica, Deus caritas est — siano necessariamente correlati ovvero possano e debbano essere separati. La Chiesa rifiuta l’amore coniugale senza sesso di certe eresie gnostiche, ma rifiuta anche il sesso senza amore così tipico del nostro tempo. Né si tratta qui di una concezione romantica: la posta in gioco è molto più profonda. Infatti, puntualmente, dopo il sesso senza procreazione è venuta — appena la tecnica lo ha consentito — la procreazione senza sesso dei bambini in provetta, e oggi la scienza apre scenari sempre più inquietanti. Paolo VI appare qui al cardinale Caffarra assai più profetico, nel senso non solo di parlar chiaro ma in questo caso anche proprio di prevedere il futuro, dei teologi dissidenti. Ma sembra che molti di questi dissidenti si fossero ormai schierati — non solo sulla questione della pillola contraccettiva ma sui temi di fondo della sessualità, dell’esistenza di una legge naturale e della stessa persona umana — con la modernità relativista e non con il diritto naturale e cristiano.

2. La controversia sul Nuovo catechismo olandese

La contestazione contro la Humanae vitae non è l’unica manifestazione del Sessantotto nella Chiesa. Se negli Stati Uniti indubbiamente l’attacco all’enciclica di Paolo VI è percepito come il momento chiave dello scardinamento del principio di autorità nella Chiesa, in Europa viene in primo piano la contestazione teologica, il cui simbolo è la controversia sul Nuovo catechismo olandese del 1966, cui sono rimproverate affermazioni ambigue sul peccato, la redenzione, l’eucarestia, la verginità della Madonna, il ruolo della Chiesa e del Papa: in altre parole, su quasi tutti i punti essenziali della fede cattolica.

Anche su questo tema, la data chiave è proprio il 1968, che è l’anno in cui una commissione ad hoc di cardinali voluta da Paolo VI, in dialogo con i cardinali e vescovi olandesi, propone una serie d’integrazioni e di modifiche al Nuovo catechismo olandese, peraltro in modo molto cortese, lodando lo stile leggibile e innovativo del testo e riconoscendo ai suoi autori buone intenzioni di cui oggi — con il senno di poi — possiamo dire senza eccessiva malizia che forse non c’erano. Queste critiche sono clamorosamente contestate da una parte maggioritaria dell’establishment cattolico olandese, con alla testa il cardinale arcivescovo di Utrecht, Bernard Jan Alfrink (1900-1987), esponente di punta del progressismo cattolico internazionale e principale difensore del controverso Nuovo catechismo. Si può dire che il rifiuto delle correzioni romane è tanto più virulento in quanto la questione s’intreccia precisamente con quella della Humanae vitae.

L’insuccesso del dialogo si rivelerà all’inizio di gennaio del 1969, con la cosiddetta «Dichiarazione d’indipendenza» di Noordwijkerhout, la città olandese sul Mare del Nord dove si riuniscono i 109 membri del Consiglio Pastorale Olandese, un organismo creato nel 1967 e che comprende rappresentanti dei vescovi, dei sacerdoti e dei fedeli. Con il voto favorevole dei nove vescovi che ne fanno parte — compreso il cardinale Alfrink — il Consiglio invita i fedeli olandesi a rifiutare l’insegnamento della Humanae vitae. Nella stessa occasione — con l’astensione dei vescovi — il Consiglio Pastorale Olandese si schiera a favore del Nuovo catechismo olandese senza le correzioni suggerite da Roma, e chiede pure che la Chiesa rimanga aperta a «nuovi approcci radicali» sui temi morali, non citati nella mozione finale ma che emergono dai lavori del Consiglio come rapporti prematrimoniali, unioni omosessuali, aborto ed eutanasia. Tutto questo già all’inizio del 1969, non nel 1999 o nel 2009.

Nel giro di pochi mesi, si vede come il principio secondo cui singoli sacerdoti, teologi e anche vescovi possono erigersi in «magistero parallelo» ignorando completamente la dottrina della Chiesa si è esteso dagli anticoncezionali a tutti i temi morali che segneranno i successivi quarant’anni — nella «Dichiarazione d’indipendenza» dei teologi olandesi dal magistero romano c’è già tutto — e, attraverso il Nuovo catechismo, a temi dottrinali che riguardano l’essenziale della fede. Si tratta proprio del Sessantotto: una volta proclamato che ciascuno fa e dice quello che vuole, l’immaginazione va al potere — anche nella Chiesa.

I risultati della «Dichiarazione d’indipendenza» dell’Olanda da Roma sono stati disastrosi. Gli olandesi che dichiarano un’affiliazione alla Chiesa cattolica nel 1966, l’anno della pubblicazione del Nuovo catechismo, sono il 35%. Nel 2006 si sono più che dimezzati, e ridotti al 16%. Nel 2007, grazie all’immigrazione, i musulmani completano in Olanda il sorpasso sui cattolici. Nel frattempo, pur rimanendo meno dei cattolici, crescono i gruppi protestanti di tendenza evangelical, che su tutti i temi morali hanno opinioni opposte a quelle della «Dichiarazione d’indipendenza» (Vellenga 2008). Per la verità negli ultimi anni anche nella Chiesa cattolica olandese si stanno affermando tendenze piuttosto diverse da quelle del 1968. Ma ormai potrebbe essere troppo tardi: nel Paese dell’eutanasia libera è andata in scena dal 1968 in poi l’eutanasia di una Chiesa.

3. La teologia della liberazione

Coincidenza o no, il 1968 segna anche il vero e proprio «lancio» internazionale dell’espressione «teologia della liberazione» da parte del teologo peruviano Gustavo Gutiérrez Merino O.P. Insieme con la contestazione contro la Humanae vitae e la controversia sul Nuovo catechismo olandese, si tratta del terzo momento cruciale del Sessantotto nella Chiesa. Certo, l’espressione «teologia della liberazione» non corrisponde a una corrente unitaria ma a un insieme di sotto-correnti diverse. Non ci si può però nascondere che la corrente più influente sulla vita sociale e politica dell’Iberoamerica (e non solo) è quella che ha adottato come strumento di analisi privilegiato il marxismo.

In un articolo molto importante, apparso nel 2007 sulla Revista Eclesiástica Brasileira dopo la visita di Benedetto XVI in Brasile, padre Clodovis Boff O.S.M. — un tempo uno dei maggiori propagandisti, se non la maggiore «testa pensante» della corrente — non ha timore di denunciare nella «teologia della liberazione» «una funesta ambiguità» (Boff C. 2007, 1002) e una «trasformazione della fede in ideologia» (ibid., 1005), dove «il povero e la sua liberazione prendono il posto pre-eminente di Dio e della sua salvezza» (ibid., 1007-1008). Ora, mentre «da Cristo si va necessariamente al povero, dal povero non si va necessariamente a Cristo» (ibid., 1012). La «teologia della liberazione» è così scaduta in un «qualunquismo epistemologico» (ibid., 1008) che la ha svuotata di ogni contenuto specificamente religioso, e ha assunto secondo Clodovis Boff un «sapore maurrassiano» (che, osservo, per un teologo della liberazione dev’essere un insulto particolarmente bruciante: ibid., 1010). Se il pensatore e uomo politico francese Charles Maurras (1868-1952) apprezzava la religione — o così pensa Clodovis Boff — come instrumentum regni al servizio di una certa politica, i teologi della liberazione hanno cambiato politica ma rivolgono lo stesso sguardo strumentale alla religione. Dove Maurras proclama politique d’abord, questa teologia ha adottato «come insegna libération d’abord» (ibidem). I risultati sono stati da una parte il sostegno ai regimi marxisti e ad «altre forme di povertà e di oppressione» (ibid., 1008) non migliori di quelle che si era partiti con il denunciare, dall’altra la «scarsa attrazione» che la «teologia della liberazione» ha finito per esercitare sui poveri in carne e ossa, così che ha perso «agenti, militanti e fedeli» fino a ritrovarsi oggi «storicamente anacronistica, cioè alienata dalla sua epoca» (ibid., 1007).

Con una svolta sorprendente rispetto alle sue posizioni solo di pochi anni prima, Clodovis Boff esprime apprezzamento per le posizioni di Benedetto XVI. Rintraccia le radici dell’«antropologismo modernizzante» (ibid., 1009), che arriva con la «teologia della liberazione» alle estreme conseguenze, nel soggettivismo di Martin Lutero (1483-1546), nel moralismo illuminista di Immanuel Kant (1724-1804), nel modernismo condannato da san Pio X (1835-1914) nell’enciclica Pascendi del 1907 e infine — ma ogni passaggio prepara quello successivo — nella cosiddetta svolta antropologica nella teologia di Karl Rahner S.J. (1904-1984). Senza dubbio Clodovis Boff non è passato — come invece, in una dura replica all’articolo, pensa, suo fratello, l’ex-francescano Leonardo Boff (Boff L. 2008) — «dall’altra parte» rispetto a una certa corrente culturale. Infatti, continua a considerare quelli che chiama il «divinismo» e il «totalitarismo teologico» (Boff C. 2007, 1010) della Chiesa pre-moderna — la «Chiesa della cristianità» (ibidem) — come elementi almeno parzialmente responsabili, in quanto avrebbero generato una reazione per molti versi comprensibile, del «mondanismo» (ibidem) e del totalitarismo politico che la modernità ha opposto alla Chiesa. Tuttavia, riconosce pure con Benedetto XVI che «grazie all’apertura conciliare l’estremismo della modernità è riuscito a entrare in modo virulento nel seno stesso della Chiesa, generando anche rotture» (ibid., 1010-1011).

Il testo di Clodovis Boff è così importante perché mostra che la «teologia della liberazione» — se si vuole, la sua corrente d’ispirazione marxista — si situa alla fine di un processo, il progressismo, che ha accompagnato tutta la storia della Chiesa nell’era moderna e contemporanea. Come il Sessantotto non si comprende se non come esito di un processo rivoluzionario plurisecolare, così anche il Sessantotto nella Chiesa non può essere capito a fondo se non lo s’inquadra in una lunga storia che da Lutero e dai cedimenti cattolici all’Illuminismo passa per il modernismo e per Karl Rahner prima di arrivare all’incontro con il marxismo. Gioca qui un ruolo cruciale, certo, un’interpretazione errata del Concilio Ecumenico Vaticano II secondo quella «ermeneutica della discontinuità e della rottura» rispetto alla tradizione precedente denunciata da Benedetto XVI (Benedetto XVI 2005). E tuttavia il Sessantotto della Chiesa non è solo questione d’interpretazione del Concilio. Il dissenso sulla Humanae vitae, la controversia sul Nuovo catechismo olandese e la nascita della «teologia della liberazione» d’impronta marxista sono l’esito — che non casualmente si manifesta proprio nel 1968 — di processi più che secolari, di dinamiche che già esistevano prima del Concilio cui la stessa teologia preconciliare non aveva posto una argine sufficiente, così che la stessa reazione ai dissidenti da parte di un pensiero etico e teologico conservatore all’immediato indomani del 1968 manifesta una grave «inadeguatezza» (Caffarra 2008).

Infine, il Sessantotto nella Chiesa non è semplicemente il riflesso all’interno del mondo cattolico di avvenimenti nati al di fuori di esso. Gli eventi sono più complessi, e qualche volta le manifestazioni più deteriori del Sessantotto, che evidentemente si estendono agli anni successivi, non vanno dal mondo alla Chiesa ma nascono nella Chiesa per poi penetrare nel mondo. All’inizio degli anni 1990 un teologo cattolico potrà per esempio scrivere che la «rivoluzione culturale» del 1968 «non fu un fenomeno d’urto abbattutosi dall’esterno contro la Chiesa bensì è stata preparata e innescata dai fermenti postconciliari del cattolicesimo»; lo stesso «processo di formazione del terrorismo italiano dei primi anni ’70», il cui legame con il 1968 è a sua volta decisivo, «rimane incomprensibile se si prescinde dalla crisi e dai fermenti interni al cattolicesimo postconciliare». Il teologo in questione è il cardinale Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (Ratzinger 1992, 125-126).

 

 

APPENDICE

 

Dal blog ABC Apologetica riprendiamo e commentiamo alcune considerazioni su una delle tante eresie de facto professate anche da tanti neocatecumenali. Ricordiamoci che per essere eretici non c'è bisogno di dichiarare "sono eretico perché nego questa lista di dogmi". Uno può anche affermare di credere nelle verità eterne insegnate dalla Chiesa salvo poi, nella vita reale, comportarsi come se non ci credesse. L'eresia infatti si nasconde nelle ambiguità.

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La dottrina eretica neomodernista

 della "desustanziazione"

Alcuni eventi recenti hanno riportato alla luce una delle perle della teologia modernista, che vale la pena esaminare in quanto è diventata oggi molto più comune di quanto la Chiesa possa immaginare. Si tratta della strana idea di una «desustanziazione» dell'Eucarestia dopo la Messa e la Comunione.

Abbiamo incontrato quell'aberrante termine per la prima volta in un articolo blasfemo pubblicato su internet a proposito della profanazione del Santissimo Sacramento, rubato da un ateo che simulava la "comunione sulla mano" (pratica che continuamente si dimostra facilitatrice di ogni tipo di offesa al Sacramento), per dissacrarlo e tentare di identificarvi coi suoi metodi la Presenza Reale di Cristo.

Allora, dopo aver fatto la Comunione cosa fai?
Ti pulisci le mani dai frammenti rimasti?

San Domenico distrugge l'eresia, rappresentata da un libro da cui fuoriescono serpi.Un membro del forum online, indignato e preoccupato dalla notizia, ha contattato un seminarista (Dio ci aiuti!) per chiedere delle possibili conseguenze di quella perfida profanazione. Il seminarista ha detto che l'ostia non aveva più la Presenza Reale di Cristo poiché nel momento della profanazione la sostanza divina avrebbe abbandonato l'ostia lasciandola ridiventare semplice pane, e che questo evento avrebbe il nome di "desustanziazione": idea apparentemente e disgraziatamente insegnata dai suoi formatori del seminario, il che implica che avremo in futuro molti sacerdoti inclini a insegnare tale stupida dottrina.

Senza voler citare la moltitudine di testimonianze dei miracoli eucaristici (che smentiscono quel seminarista), notiamo che in giro si sta cominciando a perdere la consapevolezza della vera natura dell'Eucarestia e, con essa, anche quella degli altri sacramenti, contro ogni pronunciamento della Chiesa in materia.

Quella dottrina eretica della "desustanziazione" va discussa e contestata in tutto il mondo, pur sapendo che l'ignoranza è sempre ricolma di impertinenza. Per cui vi proponiamo due argomenti per assicurare un già difficile discorso apologetico intraecclesiale e per aumentare la fiducia nel sacramento.

Anzitutto il Concilio di Trento (sessione XIII) condanna come "eresia" tale idea tutt'altro che nuova:

«Se qualcuno dice che il Corpo e il Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo non sono nel mirabile sacramento dell’Eucaristia dopo la consacrazione, ma che vi sono solo quando ne usa, mentre sono ricevuti, ma non prima, né dopo, ovvero che nelle ostie o particole consacrate che si conservano o restano dopo la comunione non permane il vero Corpo del Signore, sia scomunicato».

«Se qualcuno dice che nel santo sacramento dell’Eucaristia non si deve adorare il Cristo, Figlio unigenito di Dio, con un culto anche esterno di latrìa, e che, di conseguenza, non lo si deve venerare con una particolarità solennità, né portarlo in processione secondo il lodevole ed universale costume della santa Chiesa, oppure non deve essere esposto pubblicamente all’adorazione del popolo e che coloro che lo adorano sono degli idolatri, sia scomunicato».

I cosiddetti "iniziatori" del Cammino danno l'esempio: comunione "seduti"...«Se qualcuno dice che nella Messa non si offre a Dio un Sacrificio vero e proprio o che questa offerta consiste solo nel fatto che Cristo ci è dato in cibo, sia scomunicato». «Se qualcuno dice che con le parole: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1 Cor 11,24) Cristo non ha costituito gli Apostoli sacerdoti, ovvero che non ha ordinato che essi ed altri sacerdoti offrano il suo Corpo e il suo Sangue, sia scomunicato».

«Se qualcuno dice che il Sacrificio della Messa è solo un sacrificio di lode e di ringraziamento o la semplice commemorazione del Sacrificio della Croce, ma non un sacrificio propiziatorio, oppure che giovi solo a chi lo riceve e non deve essere offerto per i vivi e per i defunti, per i peccati, le pene, le soddisfazioni o le altre necessità, sia scomunicato».  (citazioni dal Concilio di Trento, canoni sul Santissimo Sacramento dell’Eucaristia e sul Santissimo Sacrificio della Messa -- Denz.Sch. 886-887, 948-950).

 

Questi canoni del Concilio di Trento dichiarano solennemente e senza lasciare spazio ad alcun dubbio, l'insegnamento plurimillenario della Chiesa sull'Eucarestia. Non c'è bisogno di alcuna sfumatura o aggiustamento o ulteriore spiegazione.

I sacramenti sono "indissolubili"; un rispetto superficiale degli altri sei (duraturi e irreversibili una volta amministrati da un ministro della Chiesa) porta inevitabilmente ad una considerazione superficiale del più importante: l'Eucarestia. Che nella mentalità moderna, come denunciato sopra, parrebbe invece diventato "reversibile", "dissolubile", "desustanziabile": una vera e propria negazione del sacrificio di Cristo.

I Padri della Chiesa ci hanno insegnato che l'Eucarestia è intimamente legata alla creazione e all'incarnazione: per l'efficacia delle parole del sacerdote e per la grazia divina, accade la transustanziazione, vera ed efficacie, delle specie consacrate, in cui Gesù Cristo è "vittima, altare e sacerdote" per la redenzione dei peccati. Non è una "trasformazione reversibile", non si può tornare indietro: è un vero sacrificio, che può essere per la salvezza o può essere di condanna (cfr. 1Cor 11,28-31), non per una sorta di vendetta divina, ma per l'ostinazione nel peccato: «ciascuno esamini se stesso... chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna...» parole che evidentemente si applicano ancor più a chi profana il sacramento.

Contro le possibili critiche bisogna affermare che nella Chiesa oggi la testardaggine e l'ignoranza di alcuni gruppi persistono a causa della catechesi scarsa o "autodidatta". Ma mentre l'ignoranza incolpevole può trovare misericordia presso Dio, gli autoeletti promotori di simili errori sull'Eucarestia «mangiano e bevono la propria condanna», promuovendo (anche loro malgrado) le profanazioni del corpo di Cristo.

Banalizzazione della Comunione: quel neocatecumeno è fermo lì ad aspettare, seduto, il segnale convenuto per manducareIn modo particolare dobbiamo accusare la "comunione sulle mani", gesto che discende da quella stessa mentalità superficiale che finisce per banalizzare l'Eucarestia, non riconoscendovi veramente e totalmente la Presenza Reale di Nostro Signore. Mentre ci accusano di "tridentinismo arcaico" (proprio loro che pensano di essere "riscopritori" di certi usi dei "primi cristiani"), rifiutano qualsiasi occasione per recuperare la dignità e il rispetto per il Santissimo Sacramento. Anche se parlano di "profondo rispetto" dell'Eucarestia, nei fatti la trattano come se fosse una cosa "alquanto importante": la loro eresia non si vede tanto da ciò che affermano, ma da come trattano il Sacramento! E giustificano il loro comportamento facendosi scudo del Concilio Vaticano II (che, ricordiamolo, mai ha comandato la "comunione sulla mano", mai ha comandato di ridurre la Presenza Reale di Nostro Signore a qualcosa di "alquanto importante", mai ha anche solo vagamente accennato a qualcosa che potesse essere inteso dai fedeli come "desustanziazione" o "transfinalizzazione", mai ha comandato di abolire il genuflettersi e l'inginocchiarsi...).

Non stanchiamoci mai di identificare e condannare dottrine eretiche (riconoscibili più dai fatti concreti che dalle parole) facendoci scudo del sano e immutabile insegnamento della Chiesa.

 

 

APPROFONDIMENTO

 

Un teologo rifà da capo la fede cattolica. Ma la Chiesa dice no

È Vito Mancuso, in un libro di grande successo raccomandato dal cardinale Martini. Nel quale non c'è più peccato né redenzione, ma l'uomo si salva da sé. Dopo mesi di silenzio, il doppio altolà delle autorità vaticane. Ecco i testi integrali

 

SITO DI VITO MANCUSO